“Queste sono le linee fondamentali del governo nazionale da me presieduto: il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e insindacabile su tutte le aree della Terra d’Israele. Il governo promuoverà e svilupperà insediamenti in tutte le parti della Terra d’Israele; in Galilea, Negev, Golan, Giudea e Samaria”. – Benjamin Netanyahu, 30 dicembre 2023
Fonte: English version
Di Richard Falk – 6 gennaio 2023
Chiunque abbia assistito anche solo in parte agli avvenimenti negli ultimi decenni dovrebbe ormai rendersi conto che il longevo Progetto Sionista segreto ha preceduto l’istituzione di Israele nel 1948 e mira a estendere la sovranità israeliana su tutta la Palestina occupata, con la possibile eccezione di Gaza. Il significato dell’affermazione pubblica di Netanyahu di questo progetto precedentemente segreto è che potrebbe raggiungere la sua fase finale e la coalizione di governo di estrema destra è pronta a chiudere il cerchio.
La pretesa di Netanyahu della supremazia esclusiva di Israele per conto del popolo ebraico su tutta la terra promessa è una sfida diretta al diritto internazionale. Inoltre, la dichiarazione di Netanyahu è in diretto contrasto con l’ostinata insistenza di Biden, per quanto inverosimile, nel riaffermare il sostegno alla Soluzione dei Due Stati. Questo approccio distaccato alla risoluzione della questione israelo-palestinese ha dominato per anni la diplomazia internazionale, consentendo utilmente alle Nazioni Unite e ai suoi membri occidentali di mantenere il loro appoggio a Israele senza dare l’impressione di sacrificare il popolo palestinese.
La sfacciata dichiarazione di Netanyahu dell’espansionismo unilaterale israeliano rinuncia alle precedenti vaghezze diplomatiche. Sfida le Nazioni Unite, l’Autorità Palestinese, i governi di tutto il mondo e la società civile transnazionale ad aprire finalmente entrambi gli occhi e ad ammettere finalmente che la Soluzione dei Due Stati è morta.
In tutta franchezza, è vero che questo longevo Progetto Sionista è diventato evidente solo di recente a tutti tranne che agli osservatori più vicini della lotta. Per tutto il 20° secolo questo processo di progressivo espansionismo è stato nascosto alla vista del pubblico da una combinazione di dominio israeliano della narrativa pubblica e complicità degli Stati Uniti, che ha ingannato soprattutto i sionisti della diaspora presumendo che Israele fosse aperto a un compromesso politico e che fossero i palestinesi a resistere a una soluzione diplomatica. Una tale interpretazione dello stallo è sempre stata fuorviante. Il Progetto Sionista fin dai suoi inizi, più di un secolo fa, è proceduto per fasi per ottenere tutto ciò che era politicamente raggiungibile in un dato momento, per poi passare alla fase successiva nel suo piano di colonizzazione più completo.
Questo modello di priorità espansionistiche divenne particolarmente evidente nei periodi successivi alla Dichiarazione Balfour del 1917 e dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’ignobile Dichiarazione coloniale aveva promesso il sostegno britannico a “una casa nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, resa credibile dall’accomodamento della crescente immigrazione ebraica durante il periodo dell’amministrazione del Mandato Britannico che durò dal 1923 al 1948. Poi venne la Risoluzione di Partizione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n° 181, che non solo ignorava i diritti di autodeterminazione dei palestinesi dividendo il loro Paese senza un precedente referendum, cambiando lo status della presenza ebraica da “casa nazionale” all’interno dello Stato di Palestina a uno Stato ebraico sovrano su metà della Palestina. Tali imposizioni furono accolte positivamente dai sionisti, ma respinte dai rappresentanti del popolo palestinese e dai vicini governi arabi, portando direttamente alla guerra del 1948, che portò alla catastrofica espropriazione di circa 750.000 palestinesi, nota alle sue vittime come Nakba, terminata con un cessate il fuoco che ha aumentato la quota di Israele in Palestina dal 55% al 78%.
Poi venne la guerra del 1967, che espulse la Giordania dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est, espropriando un’altra ondata di palestinesi nativi, nota tra i palestinesi come Naksa. Ne risultò anche un’occupazione prolungata da parte di Israele, presumibilmente temporanea, ma l’istituzione di molti insediamenti ebraici illegali che invadevano quello che era stato progettato come uno Stato palestinese coesistente in Cisgiordania e Gerusalemme Est suggeriva fortemente che da sempre la dirigenza israeliana prevedeva accordi permanenti con intenzioni che non includevano uno Stato palestinese vitale. Un altro grande preludio nel 1967 fu l’immediata dichiarazione e promulgazione da parte di Israele di una rivendicazione sovrana estesa a tutta Gerusalemme come “capitale eterna” dello Stato ebraico. Questa incorporazione di Gerusalemme è stata ripetutamente respinta con voti schiaccianti nell’Assemblea Generale e debitamente ignorata dal governo israeliano.
Ci sono state molte esibizioni minori di virtuosistiche negazioni dei diritti e delle aspettative dei palestinesi nei successivi 55 anni. La farsa diplomatica di Oslo che si è protratta per vent’anni dopo l’osannata stretta di mano tra Rabin e Arafat sul prato della Casa Bianca è stata la prodezza più notevole in questo senso. Con il senno di poi, sembra chiaro che nell’immaginario strategico israeliano la “pace” non è mai stata l’obiettivo di Oslo. La vera motivazione israeliana per Oslo, oltre a soddisfare la pressione internazionale per una parvenza di negoziato, era guadagnare il tempo necessario per rendere il movimento di colonizzazione abbastanza ampio e diffuso da diventare irreversibile. Un attacco così evidente al mantra dei Due Stati avrebbe dovuto essere la condanna a morte della doppiezza della Soluzione dei Due Stati, ma così non fu perché il suo continuo riconoscimento internazionale, fino ad ora, è stato reciprocamente vantaggioso sia per la dirigenza israeliana che per i governi stranieri amici e persino a un’ONU troppo debole per insistere sul rispetto da parte di Israele del diritto internazionale. La Legge fondamentale israeliana del 2018 che proclama la supremazia degli ebrei nella “terra promessa di Israele”, compresa l’intera Cisgiordania, ha contribuito enormemente nel rivelare gli obiettivi integrali del Progetto Sionista approvato da Netanyahu in concomitanza con il giuramento del suo quarto mandato a Primo Ministro.
Tuttavia, nonostante questi evidenti successi, questo longevo Progetto Sionista è da alcune prospettive più incerto di quanto non sia mai stato, per quanto strano possa sembrare da una visione puramente materialista della politica. Il popolo palestinese è rimasto fermo nel suo impegno per l’autodeterminazione per tutto il secolo in cui è stato messo alla prova da questa serie di invasioni dei coloni israeliani, inclusa la rappresentanza quasi collaborativa offerta dai vertici dall’Autorità Palestinese. Lo spirito di resistenza e di lotta è stato sostenuto da una profonda cultura palestinese di fermezza del Sumud. La resistenza, sebbene sporadica, non è mai scomparsa.
Inoltre, il peso delle circostanze storiche in evoluzione ha consentito ai palestinesi di ottenere importanti vittorie nella guerra di legittimità condotta dai due popoli per il controllo degli spazi simbolici e normativi nella lotta più ampia. Nel corso dell’ultimo decennio il dibattito politico internazionale ha sempre più accettato la narrativa palestinese di Israele come “uno Stato colonialista”, una valutazione dannosa in un’epoca in cui il colonialismo altrove veniva smantellato militarmente dalla parte più debole, suggerendo la leva non riconosciuta della legge, moralità e mobilitazione nazionalista per eludere un avversario militarmente superiore.
Al di là di questo, e più formalmente, l’accusa un tempo estrema di Apartheid rivolta allo Stato israeliano è stata convalidata nel corso degli ultimi sei anni da rapporti accuratamente documentati dell’ONU (ESCWA), di Human Rights Watch, di Amnesty International e persino della fieramente indipendente ONG israeliana B’Tselem. Man mano che i ricordi dell’Olocausto svanivano e gli illeciti nei confronti dei diritti dei palestinesi diventavano più difficili da nascondere, l’opinione pubblica mondiale, specialmente in Occidente, divenne in qualche modo più comprensiva e convinta della narrativa palestinese e, altrettanto significativamente, la rilevanza del precedente sudafricano divenne più difficile da ignorare.
Ulteriori simboliche vittorie palestinesi includevano il diffuso riconoscimento diplomatico della statualità palestinese da parte di molti governi del Sud del mondo, l’adesione senza diritto di voto alle Nazioni Unite, l’accesso alla Corte Penale Internazionale e la sua sentenza del 2021 che autorizzava le indagini sulle accuse palestinesi di crimini internazionali nella Palestina occupata dopo il 2014, e alla fine del 2022 dell’approvazione con ampio margine di una risoluzione dell’Assemblea Generale che richiedeva un parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia sulla prolungata occupazione illegale dei Territori Palestinesi. L’istituzione nel 2022, da parte del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, di una Commissione d’inchiesta di alto livello con un ampio mandato per indagare sugli illeciti israeliani è avvenuta dopo le frustrazioni associate a decenni di inosservanza israeliana del diritto umanitario internazionale nei Territori Palestinesi Occupati.
Israele e le sue ONG fantoccio, UN Watch e NGO Monitor, hanno riconosciuto la gravità di questi sviluppi, così come il governo israeliano, essendo intelligentemente sensibili al precedente stabilito dal crollo del regime di Apartheid in Sudafrica, risultato di una miscela di resistenza, delegittimazione simbolica e iniziative di solidarietà globale. Israele e i suoi militanti hanno reagito, con il sostegno incrollabile del governo degli Stati Uniti, ma non in modo sostanziale, riconoscendo i rischi di portare ulteriore attenzione alla sostanza delle politiche, delle pratiche e dell’ideologia razzista di Israele. Invece, ha attaccato i critici e le loro sedi istituzionali, comprese persino le Nazioni Unite, come antisemiti, diffamando esperti legali coscienziosi e persino funzionari internazionali e le stesse istituzioni. Ciò ha creato una cortina fumogena diversiva sufficiente per consentire a Biden e ai massimi burocrati dell’Unione Europea di mantenere fede alla prospettiva sempre più vuota di “due Stati per due popoli” quando dovrebbero sapere a questo punto che una tale politica è moribonda anche come tattica di pubbliche relazioni. Soprattutto ora che un Netanyahu apparentemente arrogante ha detto chiaramente.
Data questa linea di interpretazione, contrariamente ai commenti dei media, Netanyahu è probabilmente contento che la sua coalizione di governo includa il Sionismo Religioso e il Blocco di Potere Ebraico, guidati da Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che sembrano alleati utili, se non naturali, del Likud nel lanciare questa fase culminante del Progetto Sionista, che prevede il consolidamento territoriale dell’intera terra promessa e probabili mosse per infliggere ulteriori espropriazioni ai palestinesi, una seconda Nakba, dalle loro terre natali. Vista in questo modo, la dichiarazione di Netanyahu di cui sopra equivale a un piano d’azione virtuale, si spera con il Sionismo Religioso che si prende la maggior parte della colpa per la sua attività incendiaria e probabilmente violenta.
In questo contesto, la situazione attuale dovrebbe essere intesa in modo diverso rispetto alla modalità prevalente di riferire sul governo più di destra ed estremista nella storia di Israele e l’imbarazzo di fare affidamento su una coalizione che dà un’influenza pericolosa al Sionismo Religioso. È interessante notare che la maggior parte dei rimpianti espressi negli Stati Uniti per l’esito delle elezioni israeliane del 2022 è il suo possibile impatto negativo sul sostegno a Israele nelle democrazie liberali, in particolare tra le comunità dominanti prevalentemente laiche nella diaspora ebraica. Poca empatia o preoccupazione è espressa dalla probabilità di intensificare le sofferenze subite dai palestinesi, la cui situazione è stata oggetto di cancellazioni culturali durante tutta la lotta.
Nell’indubbiamente inconsapevole dimostrazione di Biden di tale insensibilità alla cultura e ai diritti dei palestinesi, tanto meno alle loro legittime aspirazioni, la formulazione di una dichiarazione ufficiale di congratulazioni a Netanyahu da parte di Biden merita un esame approfondito: “Non vedo l’ora di lavorare con il Primo Ministro Netanyahu, che è mio amico da decenni, per affrontare congiuntamente le numerose sfide e opportunità che Israele e la regione del Medio Oriente devono affrontare, comprese le minacce provenienti dall’Iran”. Nella stessa dichiarazione, il Presidente americano afferma che: “gli Stati Uniti continueranno a sostenere la Soluzione dei Due Stati e ad opporsi a politiche che ne mettano in pericolo la fattibilità o contraddicano i nostri reciproci interessi e valori”.
La maggior parte dei commenti filo-israeliani sullo spostamento a destra da parte del pubblico votante israeliano attribuisce il risultato estremista delle elezioni di novembre all’assenza di “una controparte” nella ricerca della pace, in una risposta al “terrorismo” palestinese o la crescente influenza della destra religiosa in Israele e gli effetti incoraggianti degli accordi di normalizzazione (i cosiddetti Accordi di Abramo) raggiunti nel 2020 durante gli ultimi mesi della presidenza Trump. Indubbiamente, questi fattori contestuali sono stati influenti nel persuadere un segmento più ampio di elettori israeliani a mettere da parte la loro antipatia per una coalizione di governo che ha dato una forte influenza al Sionismo Religioso, apparentemente l’anticipazione di un fascismo teocratico ebraico ormai plausibile, preferendo le loro speranze nella vittoria di un ‘fascismo israeliano imposto unilateralmente’ alle ipocrite incertezze dello status quo diplomatico disinteressato a negoziare un compromesso politico con la sua controparte palestinese.
I sionisti liberali in America hanno ribadito che la buona volontà israeliana rispetto a un accordo politico con i palestinesi si era scontrata con il muro della linea dura dell’opposizione palestinese, una convalida indiretta della scusa del “nessuna controparte” o, nella migliore delle ipotesi, della falsa equivalenza di incolpare entrambe le parti in una situazione in cui una parte era l’oppressore e l’altra l’oppresso, una situazione accentuata dall’insistenza sul fatto che il più stretto alleato di Israele e fonte geopolitica di sicurezza fungesse da intermediario. Niente ha mostrato la debolezza palestinese in modo più drammatico della loro disponibilità a fare affidamento su un processo diplomatico così imperfetto per la realizzazione della loro speranza di diritti fondamentali come l’autodeterminazione.
Sebbene questi fattori siano stati analizzati all’infinito nel mettere insieme i pezzi per comporre una narrazione pubblica o meno, la vera storia, le radici profonde di questi sviluppi, deve ancora essere raccontata. È legato a una narrazione segreta che precede la fondazione di Israele nel 1948, e il cui lento svolgimento ha comportato l’emergere del reale carattere utopico del Progetto Sionista di riconquista della Palestina in un periodo in cui questi obiettivi finali sembravano irrimediabilmente fuori portata.
Richard Falk è Professore Emerito di Diritto Internazionale della Fondazione Albert G. Milbank presso l’Università di Princeton e Professore Emerito in Visita in Studi Globali e Internazionali presso l’Università della California, Santa Barbara.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org