Elias Jahshan, editore dell’antologia “This Arab is Queer”, parla della sessualità nel mondo arabo, del pinkwashing israeliano e del suo sogno di una Jaffa liberata.
Fonte: English version
Di Eliyahu Freedman, 18 gennaio 2023
Immagine di copertina: Elias Jahshan. (Cortesia di Elias Jahsan)
Le storie di arabi queer appaiono spesso nei media occidentali con intenti sbagliati e sensazionalistici, dipinti come vittime di una cultura islamica irrimediabilmente patriarcale e omofoba. Negli ultimi anni, tuttavia, un’ondata di nuova letteratura, arte e attivismo ha contribuito a svelare e riformulare questa percezione, apportando maggiore profondità a un gruppo sociale eterogeneo di cui si tendeva a parlare senza che le sue voci venissero ascoltate
Con la sua raccolta in lingua inglese appena pubblicata – “This Arab is Queer: An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers” (Saqi, 2022) – l’editore Elias Jahshan cerca di rivendicare la narrativa sull’argomento mettendola nelle mani di 18 autori arabi, essi stessi omosessuali. “Dai sussurri affettuosi catturati tra le lenzuola in una base militare nel Golfo, al tour all’estero come drag queen a un concerto al Cairo dove la bandiera arcobaleno è stata alzata davanti a una folla di migliaia di persone, questa collezione celebra i veri colori di una vibrante esperienza queer araba”, si legge nel testo del libro.
Pur non rifuggendo da un’aspra critica al patriarcato all’interno del mondo arabo, la nuova antologia contesta l’idea che gli arabi siano incapaci di sostenere le persone LGBTQ+ all’interno delle loro società e offre molte prove per sovvertire tali stereotipi. Elevando le voci arabe queer, “This Arab is Queer” non cerca semplicemente di trapiantare la cultura queer occidentale in un contesto arabo; piuttosto, celebra la “queerness” delle persone e della cultura del mondo arabo che esiste da secoli, ma che durante il periodo del colonialismo è stata offuscata dal senso di colpa e di vergogna.
Jahshan è nato e cresciuto a Sydney, figlio di padre palestinese e madre libanese che si sono conosciuti e sposati in Australia. Lì ha iniziato la sua carriera come giornalista, scrittore ed editore della rivista LGBTQ + Star Observer, pubblicando un breve libro di memorie “Coming out Palestine”. Vive a Londra da poco più di sei anni, dove ora lavora come social media e audience editor del giornale online The New Arab.
In questa intervista per +972, Jahshan parla dell’editing della nuova antologia e dell’affrontare sfide più ampie di chi ha sperimentato il “doppio spostamento” di essere queer e membro della diaspora palestinese. Iniziamo parlando del suo defunto padre, che era del quartiere Ajami di Giaffa, e aveva circa 10 anni quando le forze sioniste conquistarono e pulirono etnicamente la città e la maggior parte della Palestina durante la Nakba del 1948 – un’esperienza che Jahshan afferma che per suo padre fu “ traumatizzante”.
“Ho visitato [la Palestina] nel 2011, quando ero un giovane giornalista, ed è stata un’esperienza che mi ha aperto gli occhi”, ricorda Jahshan. “Ricordo di aver ricevuto istruzioni dalla generazione di mio padre su dove andare in base ai loro ricordi di Giaffa prima del 1948; non hanno mai avuto la possibilità di tornare indietro, ma non è più come prima. So che mio nonno, i suoi fratelli e tutti in quella generazione erano nel business degli aranceti, che è ciò per cui Jaffa era famosa quando era il centro del commercio per la Palestina. E ovviamente, tutto è andato perduto dopo il 1948”.
Nonostante la perdita di quella città vecchia, Jahshan continua a sperare che Jaffa faccia rivivere i suoi luoghi storici come fulcro della vita e della cultura palestinese, anche per la sua comunità LGBTQ+. “Non so cosa riservi il futuro, ma c’è il potenziale per Jaffa, o Haifa, di diventare il centro queer della Palestina”, dice.
La seguente conversazione è stata modificata per lunghezza e chiarezza.
Nel suo saggio per l’antologia intitolata “Unheld Conversations”, la scrittrice palestinese-scozzese Anbara Salam riflette sull’assenza di dibattito sulla queerness nel mondo arabo e sull’esperienza degli arabi queer non accettati dalle loro famiglie “… quello che posso fare è cancellare uno spazio vuoto su una mappa e stare ai bordi, guardando dall’altra parte.
Il suo saggio mi ha ricordato la lotta per lo spazio che i palestinesi queer combattono nella Cisgiordania occupata, esemplificato dall’annullamento del concerto programmato del cantante queer palestinese Bashar Murad a Ramallah la scorsa estate, e la tensione che ha messo in luce tra la lotta nazionale palestinese e la lotta per creare una società più giusta all’interno della Palestina. Come hai elaborato la cancellazione?
Non posso parlare a nome di Bashar, anche se sono ben consapevole di quello che è successo. Tutto quello che posso dire è che sono contento che abbia cancellato lo spettacolo e abbia scelto di dare priorità alla sua sicurezza personale. In quanto queer palestinesi e arabi, è necessario che ci concentriamo sulla nostra sicurezza e la cancellazione non è qualcosa di cui la più ampia comunità palestinese possa essere orgogliosa.
Il motivo per cui Bashar non ne ha parlato è che non voleva attirare troppa attenzione su di esso, avendo già scatenato l’omofobia, che si vede sempre in Libano, e anche nel Golfo e in Egitto. Nel momento in cui c’è un grammo di visibilità per la comunità queer, le autorità reprimono e la usano come strumento politico per distrarre da altre questioni.
Non sopporto la mentalità degli arabi che dicono che la queerness non fa parte della cultura palestinese, che è un’importazione occidentale. Noi queer siamo cresciuti ovunque ed esistiamo da sempre. È un gran casino, e non dovrebbe essere così. I palestinesi in generale tendono ad essere molto concentrati sul “potere del popolo” e non tanto sugli individui. Quindi, dalla mia esperienza, non si tratta davvero di rendere la società conservatrice e religiosa, costringendo tutti a seguire le stesse regole: c’è spazio anche per la diversità queer.
I sostenitori di Israele spesso si appropriano dell’’inclusione LGBTQ per rappresentare un contrasto tra “l’orgoglio di Tel Aviv” e una società palestinese che è congelata e incapace di progredire…
Israele cerca decisamente di creare una frattura tra i palestinesi queer e la più ampia comunità palestinese. E hanno una macchina di propaganda ben oliata che lo fa ogni anno, specialmente durante il Tel Aviv Pride. Non è nemmeno qualcosa di insidioso, ma piuttosto ovvio.
Una cosa che è veramente importante riconoscere è che la liberazione queer per i palestinesi è legata alla liberazione dal sionismo. Molte persone cercano di separarle e compartimentarle, e in una certa misura ci riescono, come quando parliamo di omofobia e transfobia all’interno della nostra comunità, che è qualcosa che dobbiamo affrontare con noi stessi. Ma in termini di vera liberazione, non possiamo ottenerla fino a quando non avremo una Palestina libera.
Molti dei saggi dell’antologia sono piuttosto promettenti. Sono stato particolarmente commosso dalla descrizione di Mona Eltahawy del piacere queer come atto di resistenza contro l’oppressione della sessualità che lei considera (citando la poetessa americana June Jordan) “più profonda e più pervasiva di qualsiasi altra oppressione”. Come vede il piacere queer arabo come atto di resistenza?
Penso che sia un grande atto di resistenza perché dimostra che stiamo prendendo il controllo del nostro corpo. Siamo orgogliosi del nostro senso di sé e del libero arbitrio – e non dovrebbe mai esserci alcuna vergogna nel provare piacere facendo sesso, perché questa è la natura umana.
Il motivo per cui c’è così tanta vergogna e stigma intorno al sesso è a causa del patriarcato radicato nella nostra cultura. Quando celebriamo la positività sessuale nella nostra comunità, non solo è radicale, ma è sicuramente un atto di resistenza, perché sfida il patriarcato e sfida lo stigma intorno al sesso. Penso che il saggio di Mona sia stato il modo perfetto per iniziare l’antologia, perché è un pugno nello stomaco per molte persone.
Com’è stata l’accoglienza di “This Arab is Queer”?
Abbiamo sicuramente molti alleati nella nostra comunità. Da quando è uscito il libro, ho raccolto molti aneddoti che capovolgono il mito sionista sull’omofobia dei palestinesi. Più della metà del sostegno che ho ricevuto per il libro proviene da palestinesi etero. Noi arabi non siamo un monolite: siamo diversi e abbiamo punti di vista diversi. E penso che il sionismo e l’hasbara cerchino davvero di rafforzare questa idea che i palestinesi sono incapaci di essere progressisti o aperti e inclusivi.
Ci sono state risposte negative?
Personalmente non ho visto alcun contraccolpo o risposte negative. Il libro non è uscito da molto. So che se questo libro fosse stato pubblicato in arabo anziché in inglese, avrebbe suscitato molte più reazioni perché quella è la lingua in cui avvengono i divieti.
Alcune persone mi hanno inviato messaggi diretti su Instagram o Twitter chiedendo come possono ottenere una copia del libro perché Amazon non lo elenca nei loro paesi, in genere Egitto o Dubai, e quindi li aiuto a ordinare direttamente dal mio editore. Amazon in qualche modo si piega sotto la pressione dei governi su cose come elencare articoli con arcobaleni. Quindi, ovviamente, la copertina del mio libro lo renderebbe complicato.
Allo stesso tempo, non riesco a pensare a nessun editore in lingua araba, con sede in Medio Oriente o Nord Africa, che pubblicherebbe un libro come questo. Immagino che pubblicare in inglese in qualche modo sia stato per ritagliarci uno spazio per noi stessi. Perché gli editori di lingua araba – e mi piacerebbe essere smentito – non ci darebbero quello spazio.
Infine, quali sono i tuoi sogni per una Palestina libera e Giaffa che diventi ancora una volta un centro della cultura araba e palestinese e una casa per il futuro arabo queer?
Penso decisamente che Giaffa abbia il potenziale per diventare un centro della cultura palestinese in una Palestina libera, com’era negli anni ’30 e ’40 o anche molto prima. Penso che, per la sua natura di essere sulla spiaggia, e sull’acqua, favorisca un’apertura e una mentalità più liberale rispetto a Gerusalemme, che è il centro religioso. Mio padre ricordava di avere vicini ebrei e cristiani, quindi questa è la mia speranza per una Palestina libera dove possiamo convivere tutti insieme. Non so cosa riservi il futuro, ma c’è il potenziale per Jaffa, o Haifa, di essere il centro queer della Palestina.
Eliyahu Freedman è un buddista ebreo di origine irachena che insegna e scrive sulla spiritualità e la sessualità ebraica a Giaffa.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org