Quattro palestinesi parlano della resistenza all’occupazione israeliana nel cibo, nella musica, nel ricamo e nella poesia, e di come queste tradizioni siano ormai inseparabili dall’oppressione.
Fonte: English version
Di Andrei Popoviciu a Ramallah, Palestina – 25 gennaio 2023
Immagine di copertina: Malaak Altakruri intervista la ricamatrice palestinese veterana Margot Zeidan a Betlemme (MEE/Andrei Popoviciu)
Nella città occupata di Betlemme, in Cisgiordania, Malaak Altakruri buca il materiale appena stirato con la punta di un ago, tirando il filo rosso verso l’alto per formare una x.
Osservo mentre ripete lo schema, allineando ciascuna x sopra l’altra, seguendo attentamente le istruzioni della sua tutor, Margot Zeidan.
Ciò a cui Malaak sta lavorando è il tatreez, una forma tradizionale di ricamo originaria della Palestina e della più ampia regione del Levante.
“Il Tatreez rappresenta la nostra unica identità palestinese, è impossibile da sostituire o copiare”, afferma Margot, che pratica il mestiere da più di 30 anni. “È inaccettabile che quest’arte smetta di esistere”, aggiunge.
Per molti palestinesi, la continuazione di tradizioni come il tatreez sono un segno di resistenza contro l’occupazione israeliana.
Il ricamo palestinese
Durante le Intifada, le due rivolte palestinesi tra il 1987 e il 1993, e rispettivamente nel 2000 e nel 2005, i simboli e le bandiere palestinesi furono banditi dalle autorità di occupazione.
Per le donne il Tatreez divenne un modo popolare di segnalare la loro resistenza attraverso i simboli che ricamavano sui loro vestiti.
Al di là del suo valore culturale, per le donne palestinesi il tatreez è anche un modo di diventare finanziariamente indipendenti attraverso ordini per decorare abiti e altri capi di abbigliamento con il tatreez.
Malaak iniziò a imparare il mestiere mentre viveva negli Emirati Arabi Uniti, durante un periodo in cui aveva nostalgia della Palestina.
Lontana dal suo paese e lavorando per lunghe ore, senza amici tranne la sorella maggiore, si sentiva più che mai disconnessa dalla Palestina. È stato solo quando sua sorella la portò in un laboratorio di tatreez ad Abu Dhabi che trovò il modo di riconnettersi a casa.
Cultura e occupazione
Mi sono seduta accanto a Margot e Malaak mentre stavano ricamando, dirigendo il mio microfono verso di loro.
Ero in Palestina per aiutare Malaak e altri tre giovani palestinesi a produrre un saggio audio sulle loro pratiche tradizionali e su come queste hanno contribuito a definire la loro identità.
Ero lì come parte di un soggiorno artistico a Ramallah, e con una mente aperta per scoprire cosa significasse vivere nella terra palestinese occupata.
La serie audio, Behind the Wall, è nata da una mia grande frustrazione, vale a dire come si parli sempre della Palestina solo in relazione all’occupazione, ma non come cultura, popolo o nazione a sé stante.
Volevo concentrarmi sulle cose buone che fanno sentire palestinesi i palestinesi: il cibo, la musica, i mestieri tradizionali – qualsiasi cosa diversa dall’occupazione.
Tuttavia, ho presto scoperto che la mia premessa era fondamentalmente sbagliata.
“Anche il cibo è politico”
Quando ho incontrato i quattro produttori audio in erba, mi sono reso conto che tutte le loro proposte di storie riguardavano effettivamente pratiche culturali di cui erano appassionati, ma sempre in relazione all’occupazione.
Tutti volevano parlarne, e ho capito che non potevano separare le loro storie dalla realtà della presenza israeliana nella loro terra.
Prendiamo, ad esempio, il caso di Abood al-Saed, uno studente delle superiori appassionato di produzione musicale e cucina locale.
Voleva parlare di come il cibo tradizionale palestinese lo facesse sentire vicino alla Palestina, ma la questione che continuava a emergere era come preservare la cucina palestinese fosse una forma di resistenza contro i tentativi degli israeliani di appropriarsi di piatti come hummus e falafel, rimuovendo qualsiasi collegamento palestinese.
“Vivere e crescere in Cisgiordania è complicato, è un posto dove anche il cibo è politico”, dice nel suo episodio.
Voleva parlare del musakhan, un piatto tradizionale a base di pane, pollo, olio d’oliva e spezie. Dopo aver cucinato il piatto con sua madre, la sua storia ha preso una svolta verso le tensioni sul cibo e l’identità in Palestina.
Uno deglii ingredienti del suo piatto ha spinto Abood a esplorare la violenza e l’oppressione nate dalla raccolta delle olive.
Ogni anno, con l’inizio della stagione della raccolta delle olive, aumenta la violenza dei coloni contro i palestinesi della Cisgiordania.
Abood conosce bene questa realtà, perché vive accanto a un insediamento illegale e ha avuto alterchi con i soldati che ne presidiano le mura.
I palestinesi che possiedono uliveti possono accedere alla loro terra solo poche volte all’anno; non basta che raccolgano le olive nei tempi giusti.
I coloni spesso danno fuoco agli ulivi o rivendicano la terra come propria, spostando il significato del ramoscello d’ulivo da simbolo di pace a simbolo di oppressione.
Il tema dell’oppressione era familiare anche a Mousa Nazzal, attore e regista residente a Ramallah, che ha scelto di parlare del poema di Mahmoud Darwish, Il giocatore di dadi.
“Darwish l’ha scritto per me?” chiede Mousa.
Un giorno, dopo aver sbagliato strada, è arrivato a un posto di blocco dove non aveva i documenti giusti per passare.
Mousa sapeva che tali errori arrivano sempre con la possibilità di imbattersi con i soldati israeliani, e la poesia di Darwish gli è venuta subito in mente. Si legge:
Sono un giocatore di dadi,
A volte vinco e a volte perdo
sono come te
o poco meno…
Per quanto fosse casuale che fosse finito in quella situazione, pensò, essere nato in Palestina era lo stesso: un destino, ma senza uno scopo apparente.
Mentre quella volta tornava a casa sano e salvo, Mousa tracciò parallelismi tra la sua vita sotto occupazione e la poesia.
Il lavoro di Darwish si occupa dei concetti di probabilità e caso, e per Mousa, nascere in Palestina è tutto basato sul caso. “Mi sentivo come se il giocatore di dadi fosse quello che decideva la mia vita”, dice.
Canzoni di nostalgia
I genitori di Rawan Nasrallah vengono da Jenin, ma lei è cresciuta a Dubai, dove c’era poco che l’aiutasse a capire cosa significasse essere palestinese.
“Avevo cinque anni, vivevo a Dubai, ma ero palestinese, non sapevo come o perché”, dice.
Quando era giovane, sentire sua madre cantare canzoni della Seconda Intifada faceva arrabbiare Rawan per non essere in grado di connettersi al loro significato.
Non sapeva cosa significassero le canzoni, o perché sua madre cantasse di bambini intrappolati sotto le macerie e di martiri, ma sentiva qualcosa.
“Le canzoni che cantava mia madre mi facevano sentire triste e confusa, ma mi facevano sentire qualcosa che non sapevo fosse possibile: il desiderio di un posto che non conoscevo, il desiderio della Palestina”, dice Rawan.
In Palestina, e in mezzo alla realtà della vita sotto occupazione, le canzoni hanno assunto un nuovo significato, in quanto ha potuto abbinare i testi alla sua conoscenza diretta della repressione israeliana.
Le esperienze dei quattro produttori con cui ho lavorato evidenziano l’impossibilità di scindere il tema della cultura dall’occupazione in Palestina.
Dato che l’occupazione e il dolore e le sofferenze che ne derivano sono realtà quotidiane e persistenti per i palestinesi, sarebbe ingannevole affermare che ci possa essere un’espressione culturale non toccata da esse.
Tuttavia, l’occupazione fornisce motivazione e slancio alla campagna per preservare la cultura palestinese, aspetto evidente nelle storie su cui hanno lavorato Malaak, Abood, Mousa e Rawan.
I quattro progetti audio menzionati in questo articolo sono disponibili su Soundcloud
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono oralmente uguali” – Invictapalestina.org