La missione di Khader Adnan di denunciare l’ingiustizia intrinseca e la negazione sistematica delle libertà fondamentali nel sistema giudiziario militare israeliano era logica, sentita e a dir poco coraggiosa, ma ancora una volta è stato costretto a intraprendere la strada individuale, inviando un messaggio sulla mancanza di una lotta palestinese collettiva.
Fonte: English version
Di Amira Hass – 4 maggio 2023
Immagine di copertina: Khader Adnan festeggia il suo rilascio da una prigione israeliana in Cisgiordania. 12 luglio 2015.Credit: Majdi Mohammed/AP
Khader Adnan non era un aspirante suicida, al contrario: era estremamente ottimista. Durante ciascuno dei suoi sei scioperi della fame negli ultimi 18 anni, credeva che ci sarebbe stata almeno un’istituzione israeliana responsabile che avrebbe cercato di impedire la sua morte raggiungendo un accordo onorevole con lui. Questo ottimismo si è dimostrato fondato cinque volte.
Ma Adnan era troppo ottimista. Ogni funzionario israeliano che lo conosceva: dai coordinatori sul campo dello Shin Bet che tenevano traccia di ogni suo piccolo movimento e ne ordinavano l’arresto, agli ufficiali militari e ai medici del Servizio Carcerario Israeliano, sapevano quanto fosse determinato a continuare lo sciopero della fame.
Ognuno di loro sapeva anche che la sua salute era precaria per un uomo di 45 anni. Adnan soffriva di anemia a causa di una malattia ereditaria e i suoi precedenti scioperi della fame hanno portato a complicazioni che hanno richiesto vari interventi chirurgici. Il fatto che sia arrivato a 86 giorni senza cibo né medicine, il suo sciopero della fame più lungo, indica non solo la sua determinazione, ma anche la consapevole decisione delle autorità israeliane di evitare di scendere a compromessi con lui anche a costo della sua morte.
La determinazione di Adnan era eccezionale e le autorità israeliane lo sapevano. Delle centinaia di detenuti amministrativi palestinesi, circa 1000 oggi, 790 alla fine del 2022, alcuni hanno fatto ricorso al suo metodo di protesta e sono stati rilasciati poco dopo aver terminato lo sciopero della fame. I loro rilasci sono stati celebrati dal popolo palestinese e presentati come vittorie. Ma poco dopo, lo Shin Bet avrebbe ordinato nuovamente il loro arresto e sarebbero rientrati nel ciclo di incertezza che deriva dalla detenzione a tempo indeterminato.
La maggior parte di loro non avrebbe più fatto scioperi della fame a causa del deterioramento della salute a seguito del loro sciopero iniziale e della consapevolezza che il sistema politico palestinese è troppo debole per fare qualcosa riguardo alla facilità con cui Israele detiene centinaia di palestinesi senza processo.
Dal 1967, ci sono stati diversi scioperi della fame di massa da parte di prigionieri palestinesi per protestare contro le dure condizioni carcerarie. Alla fine del 2011, Adnan è stato il primo a intraprendere uno sciopero della fame individuale contro la sua detenzione amministrativa. Il suo sciopero ha ricevuto un’enorme attenzione e alla fine è stato rilasciato, solo per essere nuovamente arrestato tre anni dopo, e poi di nuovo nel 2018 e nel 2021.
Gli scioperi della fame di Adnan sono sempre stati descritti come una vittoria. Perché è stato rilasciato poco dopo ognuno. Quando altri hanno seguito l’esempio, il loro periodo di digiuno è aumentato, oltre i 100 giorni o più, fino a quando lo Shin Bet ha accettato di promettere che il loro ordine di detenzione non sarebbe stato rinnovato.
Ma questa volta Adnan non è stato messo in detenzione amministrativa. Sembra che l’apparato militare israeliano abbia imparato una lezione: non era disposto a rinunciare alla sua capacità di negare ripetutamente la sua libertà, separarlo dalla sua famiglia e sconvolgere la loro vita. Ma questa volta l’apparato militare lo ha incriminato non per terrorismo o uso o detenzione di armi, ma per appartenenza a un’organizzazione illegale e incitamento. Se si fosse dichiarato colpevole, probabilmente sarebbe stato condannato a un anno o poco più di prigione.
Ma Adnan ha deciso di sfidare la facciata di normalità del sistema legale militare israeliano. Si tratta di un sistema che ha il potere illimitato di negare la libertà a migliaia di palestinesi di parlare, esprimere un’opinione, partecipare a un incontro, accogliere un prigioniero liberato, ricevere una telefonata o accettare una donazione per l’istruzione o cure mediche per i bambini di prigionieri o attivisti uccisi.
Ogni palestinese che sia mai stato detenuto per reati gravi come esprimere un’opinione, partecipare a una manifestazione o protesta o scrivere un post agguerrito (che di solito è il segno di un grande senso di impotenza), ha compreso molto rapidamente le regole: anche se falsamente incriminato, prima lo ammette, più breve sarà la sua prigionia. I rilasci provvisori “fino al completamento di tutte le procedure” sono molto rari nel sistema giudiziario militare.
Lo Shin Bet, la Polizia israeliana e la Procura Militare hanno sfruttato e continuano a sfruttare il loro potere illimitato per negare la libertà ai palestinesi, compresi coloro che non sono nemmeno sospettati di usare un’arma o lanciare una pietra.
L’obiettivo è chiaramente politico: Israele blocca e reprime ogni possibile protesta. Impedisce ai palestinesi di impegnarsi in analisi politiche o di riunirsi in qualsiasi sforzo congiunto che si discosti da ciò a cui consente a Fatah e all’Autorità Palestinese di partecipare, che nella maggior parte dei casi non è altro che l’uso di slogan vuoti e piccole manifestazioni contro violenti avamposti israeliani, finendo spesso con palestinesi colpiti e feriti. A volte anche uccisi.
La maggior parte delle iniziative palestinesi di attività politica contro il regime militare israeliano falliscono rapidamente o non si concretizzano mai per paura della detenzione o di altre forme di persecuzione.
Le decine di migliaia di israeliani che manifestano contro la riforma giudiziaria del governo Netanyahu avvertono settimanalmente che la politicizzazione del sistema legale e l’erosione della separazione dei poteri consentiranno la persecuzione politica. Ma gli abitanti dei Territori Palestinesi Occupati da Israele nel 1967 hanno vissuto sotto tale “politicizzazione” e mancanza di separazione dei poteri per 56 anni: il regime militare israeliano che è stato loro imposto funge da esecutivo, legislativo (il comandante militare impartisce ordini che fungono da leggi), e giudiziario (l’accusa militare e i giudici) del governo, con l’autorità di confiscare la terra dei palestinesi, irrompere nelle loro case e limitare la loro libertà di movimento.
La missione di Khader Adnan di denunciare l’ingiustizia intrinseca e la negazione sistematica delle libertà fondamentali nel sistema giudiziario militare israeliano era logica, sentita e a dir poco coraggiosa, ma ancora una volta è stato costretto a intraprendere la strada individuale, inviando un messaggio sulla mancanza di una lotta palestinese collettiva.
I suoi scioperi individuali hanno avuto, in una certa misura, successo: il suo sciopero della fame individuale del 2011-2012 ha portato a uno sciopero della fame generale da parte dei prigionieri palestinesi che chiedevano la fine delle detenzioni amministrative e un miglioramento delle deteriorate condizioni carcerarie. Questo sciopero ha portato a una diminuzione del numero di palestinesi in detenzione amministrativa quell’anno, da circa 310 di gennaio 2012 ai 160 di novembre. Ma da allora il numero è salito di nuovo.
La sfida fisica che deriva dagli scioperi della fame, specialmente quando si tratta di giovani uomini che sono stati condannati solo a pochi mesi di prigione, e la debolezza del sistema politico palestinese ostacolano entrambi la capacità dei prigionieri di agire collettivamente. Così, rifiutando di accettare che gli venisse tolta la libertà e alla luce di quello che sembra essere un adattamento a questa realtà da parte delle istituzioni civili e politiche palestinesi, Adnan ha scelto di intraprendere ancora una volta uno sciopero della fame individuale.
Non sappiamo se Adnan sperasse di servire da ispirazione per gli altri. La sua vedova ha espresso il suo dolore e la sua frustrazione per il fatto che il suo sciopero non ha raccolto un’adeguata solidarietà da parte della collettività. Ma questa è la fregatura: da un lato, i ripetuti scioperi della fame individuali alla fine smettono di attirare l’attenzione e perdono la capacità di mobilitarsi. D’altra parte, questa non è una comunità normale e gli arresti arbitrari non sono l’unica ingiustizia da combattere. Dopo tutto, per l’intera loro vita, i palestinesi sono soggetti al potere assoluto e all’arbitrarietà del regime israeliano, e continuano a soffrire per il fatto che loro e il loro sistema politico sono incapaci di mantenere una costante lotta popolare di massa per ricordare al mondo che la loro realtà è anormale.
Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolte dei suoi articoli.
Traduzione di Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org