Come la politica israeliana sui permessi di lavoro per i Palestinesi aiuta a mantenere l’occupazione

Ci sono circa 150.000 palestinesi che attualmente lavorano in Israele, ma Israele sta usando le relazioni economiche come strumento per mantenere il controllo sui Territori Occupati e sui palestinesi?

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Di Adam Sella – 26 maggio 2023

Durante il recente scontro tra Israele e lo Jihad Islamico palestinese nella Striscia di Gaza, Israele si è chiesto se Hamas avrebbe intensificato il conflitto.

In una recente analisi di Amos Harel, la decisione dell’ex Primo Ministro Naftali Bennett di concedere 20.000 permessi di lavoro agli abitanti di Gaza è stata vista come un possibile fattore nella decisione di Hamas di rimanere in disparte.

Dal giugno 1967, quando prese il controllo di Gaza e della Cisgiordania dopo la Guerra dei Sei Giorni, i critici accusano Israele di aver usato le sue relazioni economiche con i Territori Palestinesi Occupati come strumento per mantenere il controllo.

Amal Jamal, professoressa palestinese-israeliana di scienze politiche all’Università di Tel Aviv, afferma che mentre questa relazione “ha consentito una certa uniformità del tenore di vita nei Territori Occupati, ha soffocato l’economia palestinese al punto che i palestinesi non possono avere una propria economia”.

Un modo in cui questo si manifesta, dice, è attraverso i permessi di lavoro che Israele concede e revoca ai palestinesi che vogliono lavorare in Israele. Con così tanti palestinesi che lavorano in Israele, sono diventati “dipendenti dai datori di lavoro israeliani”, aggiunge Jamal.

Dal 1967 ad oggi

Nel 2017, il governo israeliano ha declassificato migliaia di pagine di trascrizioni di riunioni del 1967, quando Israele dovette affrontare la questione di cosa fare dei territori appena conquistati. Il dottor Omri Shafer Raviv, che ha scritto la sua tesi di dottorato sull’amministrazione israeliana dei Territori Occupati tra il 1967 e il 1973, dice che una cosa che è stato sorpreso di scoprire è che l’Occupazione era “molto più pianificata e organizzata di quanto si pensi”.

Subito dopo la fine della guerra del 1967, dice Shafer Raviv, leader israeliani come Moshe Dayan, Golda Meir e Levi Eshkol volevano trovare un modo per “mantenere il controllo dei Territori per lungo tempo senza che sorgesse troppa Resistenza”.

Il governo ha deciso, per la prima volta, di portare i lavoratori palestinesi in Israele, dove potevano ricevere salari più alti che nei Territori Occupati. Shafer Raviv dice che questo ha giovato doppiamente a Israele: ora aveva qualcosa con cui fare leva sui palestinesi se cercavano di resistere all’Occupazione; e approfittava della manodopera a buon mercato.

Dal 1967, ci sono stati alti e bassi nelle relazioni economiche tra Israele e i palestinesi che coincidono con gli sviluppi politici nella regione.

Secondo Jamal, il numero di lavoratori palestinesi impiegati in Israele ha raggiunto il suo apice negli anni ’90 durante il processo di pace di Oslo, che ha visto l’istituzione dell’Autorità Palestinese.

In tempi di attrito tra le due parti, il numero di palestinesi impiegati in Israele diminuisce. Ad esempio, durante la Seconda Intifada, nel 2002 Israele ridusse il numero di palestinesi impiegati in Israele e stabilì posti di blocco in tutti i Territori Occupati.

Da allora, Jamal stima che il numero di palestinesi impiegati in Israele non abbia superato il 20% del numero di occupati negli anni ’90. Secondo un recente articolo del Globes, circa 150.000 palestinesi della Cisgiordania e di Gaza lavorano in Israele, la maggior parte impiegati nell’edilizia.

Walid Habbas, dottorando palestinese presso l’Università Ebraica, ha affrontato l’ultimo capitolo delle relazioni economiche israelo-palestinesi in una recente conferenza organizzata dall’Istituto Van Leer di Gerusalemme. Ha detto che dopo la Seconda Intifada, Israele ha intensificato quella che ha definito una “struttura di dominio” limitando la mobilità palestinese con posti di blocco tra Israele e la Cisgiordania, così come all’interno dei Territori Occupati.

Oltre a controllare i permessi di lavoro palestinesi, Israele ha anche stabilito una supervisione sul commercio palestinese attraverso i numerosi posti di blocco israeliani tra Israele e i Territori palestinesi. “Il 100% del commercio estero palestinese passa attraverso i confini di Israele, indipendentemente dal fatto che si tratti di un commercio con Israele o con il mondo esterno”, ha detto Habbas alla conferenza.

Ciò ha avuto un effetto dannoso sull’economia palestinese. Nella sua presentazione, Habbas ha affermato che 12.000 aziende palestinesi hanno chiuso a causa dell’aumento dei costi di logistica. Ha detto che anche imprenditori palestinesi e israeliani hanno fatto ricorso al contrabbando per trovare alternative ai meccanismi economici di controllo di Israele.

Burocrazia da entrambe le parti

Jamiel Qassas, un palestinese di 52 anni del campo profughi di Deheisheh vicino a Betlemme, lavora come operaio edile in Israele da quasi 30 anni. Oggi è un imprenditore indipendente.

Quando la famiglia si trovò ad affrontare difficoltà economiche dopo la morte del padre, Qassas dovette interrompere gli studi e diventare il capofamiglia. Uno dei motivi per cui ha scelto di lavorare in Israele è perché lì la paga era migliore, dice.

Ogni mattina, Qassas aspetta “da un minimo di un’ora fino a un’ora e mezza al posto di blocco”. Egli stima che da 60.000 a 70.000 lavoratori palestinesi cerchino di attraversare il posto di blocco di Betlemme tra le 5 e le 6 del mattino. Nelle brutte giornate, dice, gli ingorghi ai posti di blocco possono durare fino a tre ore.

Per gli israeliani che vogliono assumere lavoratori palestinesi, devono richiedere i permessi al governo israeliano. Amit Sidi, proprietario di Aloha e della filiale di Mexicana nel mercato Sarona di Tel Aviv, attualmente impiega due palestinesi.

Negli ultimi due anni, dice Sidi, ci sono molti più palestinesi che lavorano nei ristoranti israeliani perché le società di risorse umane di terze parti hanno iniziato a portare la maggior parte dei loro lavoratori dalla Cisgiordania. All’inizio, Sidi ammette di essere stato “un po’ timoroso e sospettoso” di assumere palestinesi. Tuttavia, la mancanza di scelta ha imposto la decisione.

La maggior parte dei proprietari di ristoranti assumono avvocati per il procedimento di permesso, ma Sidi ha deciso di completare lui stesso il lungo processo dopo aver deciso di assumere in modo permanente lavoratori palestinesi. Dopo aver presentato numerosi documenti all’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione (parte del Ministero dell’Interno) per diversi mesi, Sidi ha finalmente ottenuto i permessi.

Tuttavia, la burocrazia non finisce qui. Deve tenere sotto stretto controllo i suoi dipendenti palestinesi e riferire le loro ore all’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione. Quindi la busta paga, che viene emessa dal governo israeliano piuttosto che dall’azienda di Sidi, deve ottenere un’approvazione speciale prima che il denaro possa essere trasferito sul conto bancario palestinese del dipendente.

Nonostante i problemi burocratici, Sidi dice che ne è valsa la pena. Uno dei palestinesi che impiega Sidi ha iniziato come lavapiatti e ora gestisce la cucina. È “un buon amico e il dipendente più affidabile che ho avuto negli ultimi sette anni”, afferma il ristoratore.

Qassas spiega che mentre alcune aziende, come i ristoranti di Sidi, forniscono permessi ai dipendenti, altri lavoratori palestinesi preferiscono acquistare un permesso per 2.500 shekel (625 euro) al mese in modo da poter lavorare in modo indipendente. Questi permessi vengono acquistati illegalmente tramite intermediari.

In entrambi i casi, Qassas afferma che i palestinesi affrontano il rischio di sfruttamento. Dice che negli ultimi sette anni i datori di lavoro israeliani si sono rifiutati di pagarlo tre volte.

Spiega che “in quanto palestinese, non c’è ricorso legale. Anche se si decide di fare causa al datore di lavoro, quando si sarà in grado di dimostrarlo, sarà già prescritto”.

I datori di lavoro possono anche chiamare la polizia e accusare i lavoratori palestinesi di minacciarli o creare problemi. “Nello stesso caso, la polizia, senza controllare, aggiungerà il nome del lavoratore palestinese al sistema e successivamente al palestinese non sarà permesso entrare in Israele”, dice Qassas.

La necessità di una vera cooperazione economica

I palestinesi hanno trovato il modo di considerare la loro partecipazione all’economia israeliana come una forma di Resistenza. Ciò coincide con il valore palestinese di Sumud, o Fermezza, emerso nei primi anni dell’Occupazione. Secondo Shafer Raviv, lavorare in Israele è una forma di Sumud perché i soldi che i palestinesi guadagnano in Israele permettono loro di rimanere in Palestina.

Senza opportunità economiche, molti palestinesi sono stati costretti a lasciare la loro Patria. Nel 2018, più di 30.000 persone si sono precipitate a lasciare Gaza non appena il valico di frontiera egiziano è stato riaperto dopo essere stato chiuso per un decennio. Haaretz ha riferito che questo esodo era dovuto alla “terribile situazione economica di Gaza”.

Alla suddetta conferenza dell’Istituto Van Leer, lo storico e autore israeliano Efraim Davidi ha parlato della necessità di un cambio di modello nella relazione economica tra le due parti.

“Dobbiamo creare una vera cooperazione economica tra Israele e Palestina”, ha detto. Tuttavia, Davidi ha avvertito che “se non ci sarà una soluzione politica che preservi i diritti dei palestinesi, non ci potrà essere una vera cooperazione paritaria tra Israele e Palestina”.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org