Israele è un’Occupazione con un Paese annesso

Gli israeliani hanno imparato che ogni notizia sull’Occupazione, ogni accenno al fatto che il sangue palestinese è rosso come il loro, ha un costo.

Fonte: English version
Di Zehava Galon – 12 giugno 2023

Non siamo un Paese occupante, siamo un’Occupazione con un Paese. L’Occupazione è il nostro principale progetto nazionale, ed è andata avanti così a lungo che non possiamo immaginarci senza di essa.

Gli abbiamo dato tutto ciò che avevamo, sapendo che vorrà sempre di più. Questo ci è costato l’anima; non ora, quando l’Occupazione sta arrivando ad annettere i resti di democrazia che abbiamo preservato, ma fin dall’inizio, come prezzo da pagare. Sapevamo cosa ci sarebbe costato.

Sapevamo. C’erano persone che ci hanno avvertito. Ne abbiamo accettato comunque le conseguenze, consapevoli e accondiscendenti, insensatamente.

Gli abbiamo dato il sangue dei nostri figli. Era per la sicurezza, dicevamo, quando gli attacchi terroristici e le operazioni militari si susseguivano e i nostri figli pattugliavano strade e campi stranieri e le loro vite venivano sacrificate. L’abbiamo chiamato “gestire il conflitto” e “falciare il prato”. Ci siamo detti che questo era il massimo; in qualche modo è sempre il massimo, e puntualmente “abbiamo cambiato strategia”.

Ci piace cambiare l’equilibrio del potere. Lo abbiamo cambiato a Gaza per decenni. Funziona meravigliosamente. Cicli di combattimento, li chiamiamo, costringendo il nostro popolo e il popolo di Gaza a una celebrazione annuale del sacrificio.

Usiamo la sicurezza anche per spiegare gli insediamenti, come se ci fosse sicurezza nell’inviare civili nel cuore di un territorio ostile, come se poi si potesse parlare con la coscienza pulita dell’altra parte che “usano i civili come scudi umani”, come se le scuole materne fossero armi da guerra. Non lo sono, ma siamo stati i primi a ignorare le regole.

Abbiamo coinvolto eminenti giuristi che si sono umiliati riesumando di leggi di emergenza risalenti al Mandato Britannico per giustificare il furto, per giustificare torture, punizioni collettive e bombardamenti indiscriminati.

C’erano i giuristi quando festeggiavamo il furto, le strade per soli ebrei, la punizione di interi villaggi, città e fasce costiere. Erano presenti quando abbiamo valutato quante calorie pro capite consentire alla popolazione di Gaza, in modo da poterla mantenere perennemente sull’orlo di una crisi umanitaria. (Da allora, per inciso, non abbiamo più avuto bisogno di una formula. La sappiamo quasi intuitivamente.)

Non c’era male in cui i giuristi e i politici non si crogiolassero. Non è un grosso problema sporcarsi un po’ le mani quando è per il crescente Stato Ebraico.

“Un governo completamente di destra sta legiferando una dichiarazione secondo cui ogni insediamento in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) fa parte dello Stato di Israele, e questo è complicato dal punto di vista legale?”, ha dichiarato il deputato Sharren Haskel del Partito di Unità Nazionale di Benny Gantz in una recente riunione della Commissione Finanziaria della Knesset.

Haskel conosce la situazione legale ma fa affidamento sul fatto che gli elettori del suo partito non lo sappiano. Quanto poco sanno. E come possono saperlo? Abbiamo creato una legge che è una cortina fumogena, un castello di carte, e i nostri avvocati si comportano come se fossero i proprietari del posto.

Abbiamo una flotta di avvocati. Fanno di tutto, dal diritto amministrativo al diritto internazionale. Giustificheranno qualsiasi cosa. Sono forti. Il loro lavoro è facile. La Corte Suprema, che funge da Alta Corte di Giustizia, ha approvato l’evacuazione di intere comunità palestinesi dalla regione di Masafer Yatta in Cisgiordania perché l’esercito ha urgente bisogno di un nuovo campo di addestramento proprio dove vivono le persone.

Ecco com’è. Qualcuno ha difeso questa posizione in tribunale e, purtroppo, i giudici hanno deciso a favore dell’esercito. I giudici non sono mai duri con l’esercito. Ma ora difendiamo la Corte, perché è l’ultima linea rimasta a tutela dei nostri diritti.

Abbiamo arruolato i nostri migliori pubblicitari. La macchia deve essere rimossa. Hanno tessuto un arazzo di argomenti: “È complicato”, e “E la Siria?”, che siamo ipocritamente presuntuosi. Inviamo una flotta di addetti alle pubbliche relazioni in battaglia all’estero su ogni mappa che distingua tra la Cisgiordania e Israele, ma non riescono a trovare sulla mappa la semplice cosa per cui stanno combattendo: i confini del Paese.

E poiché è impossibile vendere bugie alle persone di tutto il mondo mentre diciamo la verità in Patria, siamo stati costretti a mentire sia a loro che a noi stessi.

E ci crediamo. In questa campagna, stiamo usando tutti i nostri successi, ogni risultato liberale che è stato raggiunto con sangue e sudore per dimostrare che “in realtà stiamo bene, che viviamo in un Paese progressista, abbiamo donne nell’esercito e razioni di battaglia vegane, quindi non c’è bisogno di parlare troppo di soldati che ogni notte fanno irruzione nelle abitazioni della gente, di falsi arresti, di chiusure e spargimenti di sangue.

All’inizio abbiamo chiamato la propaganda Hasbara, fondamentalmente una campagna di pubbliche relazioni all’estero: non capiamo, non è quello che è successo, e se è successo, non è così terribile, è così. Ma a un certo punto abbiamo ribattezzato la campagna una “battaglia contro la delegittimazione”. Abbiamo investito una fortuna in questa lotta. Ben presto è arrivata al Ministero degli Esteri, all’esercito, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e poi naturalmente è stata diretta a noi stessi.

Per esempio, in nome dell’Hasbara abbiamo interrogato gli attivisti di sinistra all’aeroporto, o in “colloqui amichevoli” con il servizio di sicurezza di Shin Bet. Abbiamo reso illegittima l’opposizione alla politica del governo e nemmeno per un momento abbiamo pensato a quanto fosse pericolosa. Basta tapparsi il naso. Oppure respirare comunque, perché le persone si abituano rapidamente alla puzza.

Tutto sommato, siamo bravi ad ambientarci. Il Pogrom nella città palestinese di Huwara ha portato gli israeliani in piazza. Videro buoni ebrei pregare vicino alle fiamme di una città in fiamme e ne furono inorriditi. L’altra settimana i coloni hanno dato fuoco alle case nel villaggio palestinese di Jalud. Come di consueto, la polizia è arrivata dopo l’evento. Come al solito, nessuno è stato arrestato. Sono arrivate anche le forze dell’Esercito e della Polizia di Frontiera; come sempre si è conclusa con i palestinesi feriti, questa volta tre.

Un anno prima i coloni hanno incendiato cinque auto a Jalud; è stata una vendetta per un attacco armato nella città settentrionale di Hadera, dove due agenti della Polizia di Frontiera sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco. Ma non c’è bisogno di andare fin lassù. Due settimane fa circa 200 beduini palestinesi, residenti nel villaggio di Ein Samiya, hanno lasciato la loro casa. Hanno detto che se ne sono andati a tutela dei bambini; non potevano più lasciarli vivere nella paura. Gli attacchi erano incessanti mentre la polizia guardava dall’altra parte, la migliore di Israele.

Due giorni dopo i coloni hanno dato alle fiamme una casa prefabbricata e diverse abitazioni nel villaggio di Burqa vicino a Nablus. Questa volta la vendetta non era per un attacco terroristico. I residenti hanno peccato ospitando una delegazione dell’Unione Europea. Il nostro vecchio nemico. Niente di tutto ciò ha portato nessuno in piazza. È stato a malapena riportato. Anche i politici non si sono preoccupati di menzionarlo. Hanno fatto i conti e hanno capito che ora non è il momento. Non è mai il momento.

Quando migliaia di giovani hanno preso parte alla Marcia delle Bandiere Nella Giornata di Gerusalemme e hanno gridato “Il Vostro Villaggio Brucierà” nei quartieri musulmani di Gerusalemme Est, quando i palestinesi sono stati picchiati per le strade, i politici israeliani ci hanno detto quanto fossero commossi, quanto è stata importante per loro la città fin dall’infanzia. “Dieci gradi di bellezza sono scesi nel mondo, nove sono stati presi da Gerusalemme, uno dal resto del mondo”, ha scritto su Facebook il Ministro dell’Economia Nir Barkat, citando il Talmud. Ha augurato a tutti “Buona Giornata di Gerusalemme e Shabbat Shalom a tutto il popolo ebraico”.

Non una parola su percosse, sputi sulla gente e canzoni di vendetta. Che cos’è questa vigliaccheria se non la paura di essere percepiti come persone che considerano i palestinesi esseri umani, che credendo che il loro dolore e la loro vita siano importanti. Dopo la Marcia delle Bandiere sono arrivati gli elogi perché un’altra marcia era “trascorsa pacificamente”. Nessun ebreo è stato ferito durante l’evento.

Un giorno dopo, un giorno!, Israele era in subbuglio perché la conduttrice televisiva Galit Gutman ha definito gli ultraortodossi “succhiasangue”. Il mondo politico ha improvvisamente trovato qualcosa da dire.

Abbiamo creato una realtà alternativa, un nostro mondo delirante. Lo ricreiamo ogni giorno mentendo o ignorando le cose. Conduciamo test di lealtà e puniamo coloro che non li superano. Abbiamo imparato che ogni notizia sull’Occupazione, ogni accenno al fatto che il sangue palestinese è rosso come nostro, ha un costo.

I politici e i giornalisti lo sanno e agiscono di conseguenza. Quando ci si abitua a camminare piegati, e in Israele ci abituiamo a tutto, alla fine la schiena si piega da sola.

L’Occupazione compie 56 anni. Buon anniversario.

Zehava Galon è un politico israeliano, membro della Knesset (Parlamento) dal 1999 al 2017. È stata la presidente del partito politico Meretz dal 2012 al 2018, quando aveva da cinque a sei seggi alla Knesset.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org