Eroine, vittime, terroriste: le donne combattenti dell’area del Medio Oriente e Nord Africa non saranno definite dagli stereotipi orientalisti

Sia le donne curde che quelle palestinesi sono pilastri dei movimenti di Resistenza delle loro comunità, ma il loro trattamento nettamente diverso nei media occidentali rivela interessi imperialisti nel decidere chi è degno di solidarietà.
Fonte: English version

Di Clara Diba – 28 luglio 2023

I movimenti vengono classificati di “Resistenza” anziché di “Terrorismo” e “Femminismo” o “Estremismo”, se si astengono dall’opporsi agli interessi dell’imperialismo occidentale?

Rivendicando i principi morali e decidendo chi è un “combattente per la libertà” e chi è un “terrorista”, i media occidentali aiutano e favoriscono gli interessi imperialisti in Medio Oriente. Nel corso della storia recente, i media hanno determinato quale Resistenza glorificare e quale demonizzare.

Questi doppi criteri e queste palesi ipocrisie sono forse meglio illustrati in Medio Oriente con il caso delle donne combattenti curde e palestinesi.

Le donne curde sono state in prima linea nella lotta curda per l’autodeterminazione, utilizzando mezzi violenti di Resistenza principalmente contro lo Stato Islamico (ISIS).

Il ruolo delle militanti curde ha attirato molta attenzione da parte dei media dopo che gli Stati Uniti e altre potenze occidentali sono intervenute nella lotta contro l’ISIS in Iraq e Siria. Gettandosi a capofitto sulla storia, i media occidentali come la BBC e la CNN hanno etichettato questi combattenti come “il cuore della Resistenza curda” e “simboli dell’emancipazione femminile”.

La loro Resistenza è stata elogiata e glorificata in articoli, interviste, speciali video, documentari e servizi fotografici, dove spesso posano in uniforme militare e impugnano mitragliatrici.

Le donne palestinesi hanno ricoperto per decenni ruoli altrettanto importanti nel movimento di Resistenza contro l’Occupazione israeliana, guidando proteste, scioperi, picchetti di protesta, associazioni e organizzazioni della società civile.

Prima dell’esclusione delle donne dalle posizioni militanti, come avviene ora nelle fazioni della Resistenza Palestinese, le donne erano sia militanti che dirigenti in organizzazioni armate come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Ma a differenza delle loro sorelle curde, alle donne militanti palestinesi non viene data la stessa piattaforma per dare voce alle loro storie di Resistenza. Non vengono riconosciute come combattenti femministe.

Invece, sono relegate ai tipici stereotipi orientalisti e islamofobi, e demonizzate come “terroriste” e “estremiste”.

Linguaggio, potere e media

Nelle discussioni e nei media occidentali, il linguaggio usato per descrivere le donne arabe e musulmane è filtrato attraverso una lente orientalista in cui alle donne è consentita solo la posizione di vittima o terrorista. Questa rappresentazione non è casuale o accidentale; aiuta a sostenere un ordine mondiale occidentale e, soprattutto, la continua Occupazione e cancellazione della Palestina da parte di Israele.

Dato il predominio dei media occidentali nell’arena internazionale, questo potere di rappresentazione conferisce agli organi di stampa un’influenza senza precedenti nel plasmare l’opinione pubblica, spesso distorcendo i contesti sociali, politici e storici di una determinata questione.

Nel caso della Palestina, i media occidentali sono stati a lungo complici nell’emarginare le voci che riferivano sulla violenza sistematica di Israele e nel manipolare le informazioni per garantire che Israele fosse al riparo dall’essere ritenuto responsabile.

Di solito, le donne palestinesi sono rappresentate come vittime, con il patriarcato arabo/musulmano mostrato come la forza trainante della loro oppressione. In questo contesto, gli interventi occidentali e l’Occupazione Coloniale israeliana sono “missioni civilizzatrici”, “fari di democrazia” o semplicemente “conflitti”. Poca o nessuna colpa viene attribuita all’Occupazione per l’oppressione che devono affrontare.

Quando le donne palestinesi insorgono contro l’oppressione che subiscono per mano del regime israeliano, perdono il loro status di vittime e i loro atti di Resistenza vengono demonizzati come estremismo. Dov’è l’elogio delle donne palestinesi per la loro emancipazione femminile e femminismo?

Femminismo per alcuni

Questo doppia e riduttiva classificazione è spesso promossa dalle “femministe” occidentali con narrazioni imperialiste come Andrea Dworkin e Mia Bloom. Dworkin usa il termine “sangue per l’onore” per insinuare che le donne palestinesi resistono per liberarsi dai vincoli patriarcali e dalla vergogna dovuta all’abuso.

Bloom denuncia le militanti palestinesi come “attentatori terroristici suicidi irrazionali” che sono guidati dall'”odio per gli ebrei” in gran parte del suo lavoro, uno dei quali è intitolato: Mother. Daughter. Sister. Bomber (Madre. Figlia. Sorella. Terrorista).

Anche quando la Resistenza non è militante, viene etichettata come estremismo e terrorismo. Nel 2021, le proteste scoppiate contro lo sfollamento forzato dei residenti palestinesi di Sheikh Jarrah sono state guidate da donne palestinesi come Mona El Kurd e hanno ottenuto molta attenzione mediatica globale.

Tuttavia, organi di stampa come la CNN e la BBC hanno distorto la realtà: la Pulizia Etnica di una popolazione nativa, in semplici “scontri”, “conflitti” e “sfratti”.

Questi media non si sono concentrati sullo sfollamento forzato, ma sulle reazioni dei palestinesi cacciati dalle loro case. Invece di elogiare queste donne manifestanti come femministe che difendono la loro terra e la loro comunità, sono state etichettate come “rivoltose”.

In tali resoconti, le dinamiche di potere sono oscurate e gli stereotipi orientalisti che si concentrano sull’oppressione culturale sono enfatizzati come giustificazione per la violenza sistemica, e spesso di genere, dell’Occupazione israeliana. Questa decontestualizzazione assolve Israele dalla responsabilità, maschera il più ampio contesto coloniale e criminalizza gli atti di Resistenza.

Questo tipo di femminismo, spesso definito “femminismo bianco”, è stato introdotto da Laura Bush, moglie di George W. Bush. Sostenendo l’invasione dell’Afghanistan, Bush ha essenzializzato le donne musulmane come donne senza voce prive di libertà d’azione e vittime impotenti della loro cultura.

Ha parlato di “liberare” e “salvare” le donne afghane dalle loro culture, descrivendo persino la “guerra al terrorismo” come una “lotta per i diritti e la dignità delle donne”.

La sua attenzione, ovviamente, non era sulla violenza dell’invasione e dell’Occupazione guidate dagli Stati Uniti, ma piuttosto sugli aspetti oppressivi della loro cultura. In questo discorso, il femminismo è utilizzato come arma per promuovere gli interessi imperiali e perpetuare la divisione razziale, di classe e di genere, come nel caso della Palestina.

Feticizzazione

Ma anche le donne curde, a cui è concesso lo status di emancipate, non possono sfuggire all’orientalismo dei media occidentali. La sessualizzazione e la mercificazione delle combattenti curde evidenziano l’ipocrisia in gioco.

Piuttosto che riconoscere il loro impegno e i loro contributi, i media e le riviste si appropriano della loro estetica per scopi commerciali, impegnandosi in servizi fotografici che si concentrano specificamente sulla loro bellezza fisica.

La selezione di soggetti visivamente attraenti per le interviste e l’uso di un linguaggio come “esotico” oggettifica e feticizza queste donne, soddisfacendo i canoni di bellezza occidentali e riducendole a oggetti di fantasia.

Questa rappresentazione umiliante mina l’impegno e l’autonomia delle donne curde, contraddicendo l’etica femminista del loro movimento.

Che la loro Resistenza sia feticizzata o demonizzata, una cosa è chiara: alle donne in Medio Oriente, dal Kurdistan alla Palestina, è negato il diritto di essere agenti della propria causa.

Invece, sono costrette a narrazioni che servono i programmi imperialisti occidentali. In Palestina, questo significa giustificare la violenza contro le donne palestinesi e proteggere Israele dalle critiche.

Per quelli di noi impegnati nel vero femminismo intersezionale, è importante analizzare criticamente queste rappresentazioni in modo da non lasciare che i media occidentali definiscano quale tipo di donne e cause sono degne della nostra solidarietà.

Clara Diba è una scrittrice, studentessa e attivista libanese che sta attualmente conseguendo una laurea di specializzazione in Globalizzazione e Studi sullo Sviluppo presso l’Università di Maastricht.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org