Durante lo scorso fine settimana, Israele ha celebrato lo Yom Kippur quando dovrebbe espiare i suoi peccati collettivi. Eppure Israele non pensa mai di chiedere perdono alle sue più grandi vittime: i palestinesi
Fonte: Engish version
Di Gideon Levy – 26 settembre 2023
Immagine di copertina: Un parente del palestinese Youssef Radwan, ucciso dalle forze israeliane durante una protesta alla barriera di confine tra Israele e Gaza, in lacrime durante il suo funerale a Khan Younis, nel Sud della Striscia di Gaza, il 20 settembre 2023 (Reuters)
Queste righe vengono scritte a Tel Aviv nel giorno dello Yom Kippur, il giorno più sacro del calendario ebraico.
Questa volta, la giornata è oscurata dal 50º anniversario della guerra del 1973 conosciuta come Guerra dello Yom Kippur. Di tutte le guerre israeliane, questa è stata la più traumatica per gli israeliani, e il vecchio Israele sta ora cercando la propria anima sotto quell’ombra.
Il significato religioso e tradizionale più ampio dello Yom Kippur e i giorni che lo precedono sono sempre un momento di introspezione e, soprattutto, un momento in cui cerchiamo il perdono per i peccati che abbiamo commesso.
I rituali cerimoniali sono pervasi di usanze, inclusa la benedizione di augurare agli altri “una buona annata”, che è il modo in cui le persone si salutano per strada, invece di dire “shalom” (pace) all’avvicinarsi della festa.
Si suppone che Israele espii i suoi peccati collettivi durante lo Yom Kippur e che gli ebrei israeliani dovrebbero espiare i loro peccati individuali, eppure questo non è mai successo in nessun anno, e quest’anno meno che mai.
Israele non ha mai pensato di chiedere il perdono più significativo di tutti, quello che dovrebbe cercare: cioè chiedere perdono al popolo palestinese. Israele non ha mai chiesto perdono per i peccati commessi nei confronti dei palestinesi nel 1948, né per quelli commessi contro di loro ininterrottamente dal 1948, e nemmeno per i peccati che ha commesso contro di loro durante quest’ultimo anno, come richiesto ogni anno dalla legge e dalla tradizione ebraica.
Inoltre, l’anno trascorso è stato un anno molto difficile per Israele e i palestinesi, un anno in cui Israele è stato governato dal governo più di estrema destra della sua storia.
Senza alcun ritegno
Questo è l’anno in cui non solo non c’è nulla da dire sul chiedere perdono ai palestinesi, ma è anche l’anno in cui Israele ha perso ogni ritegno per i crimini che ha commesso contro di loro.
Questo è l’anno in cui i ministri del governo, riferendosi a un criminale ebreo condannato per aver bruciato viva una famiglia palestinese mentre dormivano nella loro casa, hanno definito l’autore del reato un santo e una vittima. La campagna per chiedere il rilascio di Amiram Ben-Uliel è diventata virale in Israele e in pochi giorni ha raccolto più di 400.000 dollari (380.000 euro) attraverso una raccolta fondi per sostenere l’azione a suo favore.
Questo è il perdono che molti israeliani stanno cercando, per un uomo che ha volontariamente dato fuoco a una casa nel cuore della notte ed è stato condannato in un tribunale, una rarità nell’Israele del 2023 dove gli ebrei non vengono quasi mai consegnati alla giustizia , siano essi soldati o civili, per i loro crimini contro i palestinesi.
Alcuni israeliani hanno già fatto un passo avanti e stanno cercando il perdono dell’assassino piuttosto che il perdono dalle sue vittime. Non solo negano che sia un assassino; alcuni credono che, poiché i palestinesi che ha ucciso erano innocenti, compreso un bambino, sia stato santificato da questo atto. Questo è ciò che accade quando si è completamente senza ritegno.
Un vero autoesame spirituale per ogni israeliano, come comporta lo Yom Kippur, o in qualsiasi altro periodo dell’anno, implicherebbe necessariamente una rendicontazione delle azioni intraprese nei confronti del popolo palestinese. A livello nazionale una tale rendicontazione non è nemmeno iniziata.
Anche quando Israele firmava accordi come gli Accordi di Oslo, esattamente 30 anni fa, non si parlava di assunzione di responsabilità né di richiesta di perdono: queste cose non erano nemmeno in discussione.
Una commissione per la verità e la riconciliazione secondo il modello sudafricano post-Apartheid è del tutto inverosimile nel caso di Israele; niente più che una fantasia, completamente staccata dalla realtà. Non è difficile immaginare il potenziale impatto positivo sulle relazioni tra Israele e il popolo palestinese di una mossa da parte di Israele ad assumersi la responsabilità dei propri crimini.
Regime crudele e discriminatorio
Dopo oltre 100 anni di sionismo, che per i palestinesi hanno significato 100 anni di espropriazione, oppressione, uccisione, distruzione, umiliazione, perdita di diritti e dignità, in Israele non si pensa minimamente di assumersi la responsabilità e cercare di espiare, come gli ebrei sono tenuti a fare secondo la legge ebraica nel giorno sacro dell’espiazione in cui vengono scritte queste righe.
Al contrario, proprio come l’assassino Ben-Uliel è la vittima agli occhi degli estremisti israeliani, la maggior parte degli israeliani vede se stesso come la vittima, e solo come la vittima, nel contesto dei loro rapporti con le loro vere vittime, i palestinesi.
Solo posizionandosi falsamente come vittime gli israeliani possono affrontare il proprio passato, negandolo e reprimendolo come poche nazioni sono riuscite a negare il proprio passato insieme al presente. Una nazione di immigrati prese il controllo di una terra già abitata da centinaia di anni, soggiogò i suoi abitanti, li privò delle loro terre e dei loro averi, ne espulse alcuni e oppresse il resto, prese il controllo della terra e stabilì uno Stato che è per definizione uno Stato in cui vige la supremazia ebraica.
Quest’anno, Israele ha perso ogni ritegno anche nel definire il sionismo come supremazia ebraica. Mentre Israele viene messo all’angolo da un governo di estrema destra, un impressionante movimento di protesta è sceso in piazza mese dopo mese per lottare per la democrazia.
Eppure questa imponente protesta ignora la questione dell’intrinseca supremazia ebraica della società, e chiede solo un ritorno allo status quo precedente, ovvero la democrazia per gli ebrei nello Stato Ebraico che controlla una terra in cui vivono due nazioni di uguali dimensioni.
Una nazione vive sotto un regime democratico attualmente in pericolo, e l’altra vive sotto una delle peggiori dittature militari del mondo. Poche nazioni vivono sotto un regime così crudele, predatorio e discriminatorio. Eppure tutto questo viene ignorato dal movimento di protesta democratica tanto ammirato da quasi tutti.
Un’intera nazione vive nella negazione
Da più di 100 anni priviamo i palestinesi della loro terra, delle loro proprietà, del loro modo di vivere, della loro cultura e della loro dignità. Sebbene le modalità operative siano cambiate nel corso degli anni, l’intenzione rimane costante. L’obiettivo era e continua ad essere quello di cercare di far sì che il minor numero possibile di palestinesi restino qui, se non addirittura che non ne restino affatto.
Questo è il vero significato di uno Stato “ebraico e democratico”. Questo è l’unico modo per risolvere la contraddizione tra ebraicità e democrazia nella realtà di uno Stato binazionale. Nel 1948, Israele espulse centinaia di migliaia di palestinesi e, anche se alcuni di loro tecnicamente fuggirono terrorizzati, in entrambi i casi non fu mai data loro l’opportunità di tornare. Israele ha poi imposto un governo militare sui restanti palestinesi residenti nel suo dominio, definendoli “arabi israeliani”.
Pochi mesi dopo la fine del regime militare in Israele, nel 1966, venne sostituito da un’Occupazione militare dei Territori Palestinesi che da allora è continuata. Quasi sette milioni di palestinesi vivono sotto il controllo israeliano in vari modi, in Israele, Cisgiordania e Gaza.
Condizioni di deprivazione in tutti gli ambiti della vita per i cittadini palestinesi dello Stato; tirannia militare per i sudditi palestinesi apolidi in Cisgiordania e Gerusalemme Est; e condizioni carcerarie dei palestinesi nella Striscia di Gaza, la più grande gabbia per esseri umani al mondo.
La brutalità è l’unico mezzo per preservare tutto questo. Non esiste un modo nonviolento per preservare una realtà così violenta.
Il regime militare impiega quotidianamente una violenza brutale. I crimini di guerra vengono perpetrati ogni ora in collaborazione con le milizie armate dei coloni. E gli israeliani vedono tutto ciò con negazione e repressione. Mentono a se stessi e rimangono compiacenti, o morbosamente indifferenti. La maggior parte non sa e soprattutto non vuole conoscere la realtà, mentre la maggior parte dei media israeliani fa la propria parte non disturbando gli israeliani con una reale rappresentazione dell’immoralità regnante che si rifiutano di vedere.
È così che siamo arrivati a questo stato di cose, in cui un’intera nazione vive nella negazione. È così che siamo arrivati dove siamo adesso, così che quando si avvicina il giorno dell’espiazione, nessuno pensa a chiedere perdono alla più grande vittima di Israele: i palestinesi.
Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org