Nel suo ultimo film, l’acclamato regista recupera e svela un archivio palestinese, rubato e nascosto per decenni da Israele, in un processo che descrive come “la fotocamera dei diseredati”.
Fonte:English version
Di Hamid Dabashi – 6 ottobre 2023
Ho seguito molto da vicino il modo unico di fare cinema di Kamal Aljafari sin dal suo esordio all’inizio degli anni 2000. Sono stato introdotto per la prima volta al suo lavoro da Elia Suleiman, l’altro grande regista palestinese di cui ho seguito la carriera con molto piacere e ammirazione.
Sulla base di questa conoscenza iniziale, nel 2016 i miei colleghi e io abbiamo invitato Aljafari al nostro Centro di Studi sulla Palestina presso l’Università Columbia per una conversazione dettagliata sul suo lavoro. In un contesto cinematografico più ampio, l’opera di Aljafari ha attirato un’importante attenzione critica. È un regista di enorme creatività con un tocco particolarmente sovversivo nella sua macchina da presa.
Da Michel Khleifi e Mai Masri, a Nizar Hassan e Rashid Masharawi, da Annemarie Jacir a Hany Abu-Assad e Najwa Najjar, e tutta una serie di altri in mezzo, non esistono due registi palestinesi che siano abbastanza simili. In ciascuno dei loro film, lavorano singolarmente su una visione della loro Patria Occupata che si rifiutano di abbandonare.
Tuttavia, ciò che accomuna questi registi è la loro preoccupazione comune di trovare una svolta cinematografica su come rivendicare la loro terra. Aljafari ha la sua versione di questa svolta estetica su queste politiche rivoluzionarie.
Anni fa, quando pubblicai il mio libro sul cinema palestinese, basato su un importante festival cinematografico organizzato dalla Columbia, chiamai questa inclinazione politica dei cineasti palestinesi come prova di un “realismo traumatico”, basato sul trauma nazionale dell’espropriazione che tutti I palestinesi condividono.
Come tutti gli altri registi palestinesi, Aljafari ha impresso la sua impronta filmica su questo trauma.
Il palestinese
Nato nel 1972 e cresciuto nella Palestina Occupata, a Ramla, Aljafari si è stabilito a Berlino e ha viaggiato molto sia negli Stati Uniti che nel mondo arabo, studiando e insegnando cinema e coltivando la propria carriera con un modo unico e sovversivo di fare cinema.
Oggi, nella sua filmografia, siamo testimoni di un percorso che inizia con Visit Iraq (Visita in Iraq – 2003) e prosegue con The Roof (La Terrazza – 2006), Balconies (Balconi – 2007), Port of Memory (Porto della Memoria – 2009), Recollection (Rievocazioni – 2015), It’s a Long Way from Amphioxus (La Lunga Strada da Amphioxus – 2019), An Unusual Summer (Un’insolita estate – 2020), Paradiso, XXXI, 108 (2022), e ora A Fidai Film (Un Film è Un Atto di Devozione – 2023).
Anche se si dovesse rimuovere il nome di Aljafari dai titoli di coda del film, si identifica comunque la mano questo regista palestinese, che presenta una visione d’autore distinta non solo sulla sua terra natale, ma anche per quanto riguarda l’arte del cinema.
In quanto regista palestinese, Aljafari mette in scena una ribellione cinematografica contro un’intera storia di espropriazione visiva. Infatti, il furto israeliano si estende fino a negare ai palestinesi la capacità di raccontare le proprie storie. Israele ha rubato gli archivi palestinesi, li ha nascosti e li ha resi disponibili solo agli israeliani, siano essi funzionari della propaganda o storici, studiosi, professori universitari e curatori d’arte, di ogni orientamento politico.
Per Aljafari si tratta quindi di una battaglia di archivi, e cosa deve fare un palestinese quando viene sistematicamente negato l’accesso a quegli archivi? Beh, improvvisa!
Aljafari è un regista di improvvisazione. Come spiega in un’intervista in arabo con l’Istituto di Studi sulla Palestina (ISP), tutti i suoi film sono, infatti, collegati da un’unica missione: presentare visivamente un’immagine nuova della Palestina, un compito che è inseparabile dal suo rinnovamento fisico.
Cos’è più importante: la visione della Palestina o la realtà della Palestina? E come dobbiamo esattamente distinguere la differenza? Aljafari racconta all’ISP: “Per me l’unica via d’uscita è lavorare sull’idea di recuperare l’immagine, recuperare il luogo, recuperare la memoria nel suo insieme, non solo materiali specifici o un periodo specifico. Per questo lavoro con i materiali trovati negli archivi e tutto ciò che riesco a trovare. Per me questa è la fotocamera dei diseredati”.
La fotocamera dei diseredati è un fenomeno unicamente palestinese che ha molto in comune con il cinema politico più potente del mondo.
Il regista
Il progetto cinematografico di Aljafari è determinato da fatti storici. Condivide con il suo interlocutore: “Nei materiali fotografati subito dopo l’Occupazione della Palestina, in Galilea, Haifa, Jaffa e Tiberiade, si trovano i soggetti delle raffigurazioni dei combattenti ebrei e del luogo che divenne loro. In queste scene, figure palestinesi si insinuano per caso nel contesto”.
Queste sono le reliquie visive che recupera nel suo cinema, che presenta come parte di un inventario visivo unico: “Questi individui sono quelli che sono rimasti nel Paese e non sono stati sfollati. Raccolgo queste riprese e costruisco un nuovo archivio. I palestinesi non avevano la capacità di scattare fotografie o tenere alcun registro, mentre gli israeliani erano gli unici ad avere tali capacità all’epoca. Attraverso questo lavoro, ho scoperto la natura, i luoghi e la storia emozionante di tutta la Palestina, dal Negev alla Galilea”.
Infatti, Aljafari sta usando il potere dei suoi occupanti contro di loro. Gli israeliani avevano il potere di fotografare, raffigurare, dipingere, visualizzare e appropriarsi della terra che avevano rubato e colonizzato. Aljafari utilizza lo stesso archivio della propaganda israeliana per tirar fuori le prove della Palestina che volevano nascondere ma che paradossalmente hanno rivelato.
È l’arte della lettura inversa: un atto di gesto decostruttivo. Questa la chiama giustamente “la fotocamera dei diseredati”. Ma nel frattempo ha fatto qualcos’altro: ha anche documentato non solo le prove della sua Patria rubata, ma anche un modo innovativo di girare un tipo di cinema completamente nuovo: il cinema dei negativi. Ottiene gli stessi negativi e ne inverte luci e ombre, per così dire. Ciò che gli israeliani hanno evidenziato, lo oscura, e ciò che hanno relegato in secondo piano, lo porta in primo piano; e così, dove si mostrano, nasconde, e dove si nascondono, li mostra.
Il suo film più recente, A Fidai Film, si basa quindi sull’idea di perdita, concentrandosi su un evidente atto di espropriazione. Come si legge nella sinossi del film:
“Nell’estate del 1982, l’esercito israeliano occupò Beirut, e subito dopo, razziò il Centro di Ricerca Palestinese, devastandolo e portando via la sua biblioteca, contenente 25.000 volumi sulla Palestina. Una delle più grandi collezioni al mondo sulla storia palestinese, questa biblioteca era ospitato nell’edificio di otto piani del Centro a Beirut. Il materiale fu caricato su camion e portato in Israele. Non era la prima volta che simili saccheggi avvenivano. Dal 1948, e con ogni nuova terra occupata, archivi, immagini, film e documenti sono stati saccheggiati. Questo film è un film di sabotaggio che crea una controimmagine in risposta al saccheggio della memoria”.
La memoria, ovviamente, non può essere saccheggiata; al contrario, se attivata e minacciata, si scatena. Come regista, Aljafari è il maestro nel recuperare questa memoria attiva.
Il sabotatore
Aljafari spiega la difficoltà di accedere al materiale di cui aveva bisogno per realizzare il suo ultimo film. Il suo obiettivo, spiega all’ISP, è “la creazione di una contro-immagine e di un contro-archivio rispetto all’archivio coloniale prevalente”. Si riferisce a studiosi e curatori israeliani contemporanei che, sulla base degli stessi materiali d’archivio, mettono in scena le proprie storie di palestinesi. Li paragona agli ufficiali militari che inizialmente hanno rubato quegli archivi.
Aljafari cerca di rivoltare contro se stessa questa assenza di archivio rubato e quindi di reimmaginare l’intera questione dell’archivio. Anni fa, quando stavo lavorando sulle prove combinate dei manifesti rivoluzionari iraniani e dei dispersi archivi cinematografici palestinesi nel mio libro In Search of Lost Causes (Alla Ricerca di Cause Perse – 2014), ho concluso che nessun archivio è un archivio completo; sono tutti frammentari e qualsiasi pretesa di un archivio completo è semplicemente una prova di forza. A Fidai Film di Aljafari è un esempio calzante, anche se alza la posta e rivolta contro se stessa la pretesa di completare gli archivi.
Le colonie di coloni come Israele hanno un’innata e implacabile ansia per la propria legittimità, che si rivela nella loro eccessiva insistenza sul loro enorme archivio, da quello biblico e archeologico al possesso della terra che hanno rubato alla luce della storia.
Con enormi risorse a sua disposizione, Israele basa questa falsa affermazione su un archivio completo. Espropriati e derubati della loro Patria, i palestinesi non potrebbero mai avanzare tali affermazioni, il che è proprio la prova della verità della loro narrazione.
Quanto più enfatica è l’affermazione di un archivio completo, tanto più serve come prova di per sé per dubitare di quella stessa affermazione; e viceversa, più l’archivio è fragile e frammentario, più dimostra la veridicità delle sue affermazioni.
Attraverso l’obiettivo della “fotocamera dei diseredati”, Aljafari ha trasformato quel fatto d’archivio in un’estetica cinematografica. Ciò che persiste nel suo cinema quindi non è solo il potere politico della sua estetica, ma le implicazioni estetiche della sua politica.
Hamid Dabashi è Professore di Studi Iraniani e Letteratura Comparata presso il Centro Hagop Kevorkian dell’Università Columbia di New York, dove insegna Letteratura Comparata, Cinema Mondiale e Teoria Postcoloniale. I suoi ultimi libri includono The Future of Two Illusions: Islam after the West (Il Futuro Delle Due Illusioni: l’Islam Dopo l’Occidente – 2022); The Last Muslim Intellectual: The Life and Legacy of Jalal Al-e Ahmad (L’ultimo Intellettuale Musulmano: La Vita e l’Eredità di Jalal Al-e Ahmad – 2021); Reversing the Colonial Gaze: Persian Travelers Abroad (Ribaltare la Visione Coloniale: Viaggiatori Persiani all’Estero – 2020) e The Emperor is Naked: On the Inevitable Demise of the Nation-State (L’imperatore è Nudo: sull’Inevitabile Scomparsa Dello Stato-Nazione – 2020). I suoi libri e saggi sono stati tradotti in molte lingue.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org