L’operazione Al-Aqsa Flood e il genocidio di Israele a Gaza hanno messo in discussione le narrazioni tradizionali, dalla presunta invincibilità dell’esercito israeliano al ruolo dell’Occidente come “bastione” dei diritti umani.
Fonte: English version
Tariq Dana – 29 ottobre 2023
Immagine di copertina Dalle strade del Cairo alle piazze di Amman, in Marocco e non solo, le persone si sono radunate in massa per esprimere la loro opposizione al riallineamento dei loro governi con Israele
Sulla scia dei recenti e dirompenti eventi provenienti dalla Palestina, è doveroso fare un consuntivo. L’operazione “Al-Aqsa Flood”, e il successivo genocidio israeliano trasmesso in live streaming da Gaza, hanno frantumato miti di vecchia data, smantellato la narrazione convenzionale e ci hanno messo di fronte alle agghiaccianti realtà della politica del potere e dell’ipocrisia sistemica. Sfidano narrazioni fuorvianti che sono state a lungo prese come vangelo, come la presunta minore rilevanza della causa palestinese, il mito dell’invincibile potenza militare di Israele e la vacua pretesa dell’Occidente come autoproclamato guardiano dei diritti umani e del diritto internazionale.
Mentre a Gaza si compie il genocidio israeliano e la consapevolezza pubblica globale aumenta sempre più, diventa sempre più chiaro che i miti che circondano il conflitto coloniale in Palestina non servono come guide alla comprensione, ma come barriere. Questi miti, perpetuati dai propagandisti filo-israeliani, dalle potenze occidentali e dai regimi arabi, hanno avuto conseguenze disastrose, misurate in vite perdute, speranze infrante e una regione perennemente destabilizzata. Ora è il momento di smantellarli, approfondire la loro genesi e svelare le realtà inquietanti che sono serviti a mascherare.
Il dispiegamento degli arsenali militari più sofisticati del mondo per combattere un piccolo contingente di combattenti palestinesi in un territorio che è sotto un assedio paralizzante da oltre un decennio è allo stesso tempo rivelatore e sconcertante. Non si tratta solo di una grave discrepanza in termini di potenza di fuoco, è un esempio illuminante di quanto un apparato militare avanzato è disposto a spingersi per sopprimere una popolazione assediata.
Minare la lotta palestinese
Per oltre un decennio, i commentatori e i politici tradizionali hanno relegato la causa palestinese alla periferia della geopolitica del Medio Oriente. Mentre la competizione per il potere regionale tra attori come Iran, Arabia Saudita e Turchia aumentava di importanza, e mentre questioni come le guerre civili in Siria, Yemen e Libia dominavano i titoli dei giornali, la lotta palestinese è stata spesso vista come uno spettacolo collaterale anacronistico – importante per ragioni simboliche, forse, ma meno per i calcoli geopolitici pratici.
Questa falsa percezione è stata rafforzata dalle azioni deliberate di alcuni regimi arabi per prendere le distanze dalla lotta palestinese. Gli Emirati Arabi Uniti in particolare, insieme ad altri firmatari degli Accordi di Abraham, rappresentano un chiaro esempio. Normalizzando le relazioni con Israele, questi regimi hanno trasmesso il messaggio politico che la Palestina non era più al centro dell’agenda araba o della pace in Medio Oriente. A ciò si aggiunge la complicità dell’Autorità Palestinese, un organismo corrotto che spesso serve a far rispettare l’agenda di Israele. La sua passività e i suoi fallimenti nella governance hanno inavvertitamente rafforzato il mito dell’irrilevanza della lotta palestinese, consolidando il suo status di ostacolo istituzionale piuttosto che di organo rappresentativo.
L’operazione Al-Aqsa Flood ribalta radicalmente questa narrazione convenzionale. Ha dimostrato che la resistenza palestinese può sostanzialmente mettere alla prova le capacità militari israeliane, imponendo una rivalutazione della geopolitica regionale. Le conseguenze sono significative. I governi occidentali hanno ciecamente fornito sostegno materiale e vocale al genocidio israeliano, una testimonianza del loro interesse nel garantire che questo bastione del colonialismo in Medio Oriente resti saldo, qualunque cosa accada. Eppure, milioni di persone hanno marciato in segno di protesta per le strade europee e americane a sostegno della giustizia per la Palestina.
Lo spettacolo delle proteste diffuse che sono scoppiate nel mondo arabo dipinge un quadro vivido del divario che esiste tra le scelte dei regimi e i sentimenti delle loro popolazioni. Dalle strade del Cairo alle piazze di Amman, in Marocco e oltre, le persone si sono radunate in massa per esprimere la loro opposizione al riallineamento dei loro governi con Israele. Questa ondata di attivismo pubblico non solo sottolinea la dissonanza tra i regimi e il popolo arabo, ma segnala anche un crescente impegno della base per la causa palestinese, sfidando la narrazione dall’alto che ha cercato di emarginarla.
Ma la solidarietà popolare araba e mondiale nei confronti della Palestina indica qualcosa di più di un semplice divario tra la politica ufficiale e il sentimento pubblico. Mette in netto rilievo una battaglia più universale che viene combattuta su scala globale. Gaza, in questo contesto, funge da toccante microcosmo di questioni sistemiche più ampie: un’arena sorprendente in cui le forze della libertà si confrontano con il fascismo, dove la genuina umanità si confronta con l’agghiacciante spietatezza e dove le aspirazioni rivoluzionarie incontrano il muro dell’oppressione sistemica.
Il mito dell’esercito invincibile di Israele
Per decenni, il mito dell’invincibilità militare di Israele ha prevalso, modellando la geopolitica del Medio Oriente e gonfiando le capacità di deterrenza di Israele. Supportato da una tecnologia all’avanguardia, da una potenza di fuoco schiacciante e dall’incrollabile sostegno occidentale, l’esercito israeliano è stato visto come una forza insormontabile.
Tuttavia, l’operazione Al-Aqsa Flood ha messo in discussione questa narrazione ben radicata. Ha messo in luce le gravi vulnerabilità dell’apparato militare israeliano, dal collasso strategico e dalla caduta della dottrina della deterrenza alle limitazioni nelle sue capacità di intelligence. Inoltre, l’incapacità di Israele di raggiungere i suoi obiettivi militari a Gaza – aggravata dalla terribile campagna genocida sostenuta dall’Occidente – non fa altro che mettere a nudo questi fallimenti.
Significativamente, la decisione degli Stati Uniti di inviare urgentemente navi e aerei militari a sostegno del genocidio in corso a Gaza costituisce una tacita ammissione della fragilità di Israele. Il dispiegamento degli arsenali militari più sofisticati del mondo per combattere un piccolo contingente di combattenti palestinesi in un territorio che è sotto un paralizzante assedio da oltre un decennio è allo stesso tempo rivelatore e sconcertante. Non si tratta solo di una grave discrepanza in termini di potenza di fuoco, è un’illustrazione illuminante di quanto un apparato militare avanzato è disposto a spingersi per sopprimere una popolazione assediata.
Questa asimmetria evidenzia non solo le misure estreme intraprese per riprendere il controllo coloniale, ma sottolinea le fragilità e i limiti anche dei sistemi militari più avanzati quando si scontrano con una resistenza determinata e piena di risorse.
“Bastioni” dei diritti umani
L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti e dai principali alleati europei, spesso si pone come esempio dei diritti umani e del diritto internazionale, manipolando questi principi come criteri per emanare sanzioni economiche o addirittura interventi militari. Questa tutela autoproclamata si disintegra ulteriormente in un’evidente ipocrisia se analizzata nel contesto della dominazione coloniale israeliana in Palestina.
L’evidente disconnessione tra la retorica e l’azione occidentale è stata ripetutamente messa in luce in modo drammatico dalla sua complicità nel genocidio di Gaza. Con uno sbalorditivo bilancio delle vittime civili palestinesi che finora ha superato le 8.000 persone, metà delle quali bambini, gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese a porre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva pause umanitarie a Gaza per la consegna di forniture essenziali. Inoltre, insieme agli Stati europei, gli Stati Uniti hanno bloccato numerose proposte di cessate il fuoco, intensificando di fatto la macchina israeliana del genocidio a Gaza.
Tali azioni mettono in luce la bancarotta morale dell’Occidente. Sono in diretta violazione delle loro stesse leggi internazionali, compresi i principi stabiliti nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e nella Quarta Convenzione di Ginevra, che tutelano i civili nelle zone di conflitto.
Inoltre, venerdì l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato per una “tregua umanitaria immediata” a Gaza. Tra i paesi membri dell’ONU, 120 si sono espressi a favore, 14 contro e 45 si sono astenuti. Gli Stati Uniti sono stati tra coloro che hanno votato contro la risoluzione.
Questa incongruenza tra i principi dichiarati e le ambizioni imperialiste solleva una domanda sconcertante: può l’Occidente, con tale bancarotta morale, ancora rivendicare il primato della gestione globale dei diritti umani e del diritto internazionale? Le prove disponibili suggeriscono che questi principi sono, in realtà, strumenti malleabili dell’imperialismo, del neocolonialismo e degli interessi geopolitici.
Questi miti sono stati messi alla prova e sono falliti miseramente, lasciando dietro di sé una scia di distruzione e sofferenza umana. Ora abbiamo un disperato bisogno è di onestà intellettuale e chiarezza morale, elementi notevolmente assenti nelle narrazioni tradizionali, ma essenziali per percorrere la strada verso la giustizia e la liberazione della Palestina.
Tariq Dana è professore associato di studi umanitari e sui conflitti presso il Doha Institute for Graduate Studies. È redattore associato di Middle East Critica. È consulente politico per Al-Shabaka: The Palestine Policy Network.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestian.org