Spettatori impotenti dei massacri di Gaza, i profughi palestinesi nel campo alla periferia sud di Beirut moltiplicano le iniziative per alleviare la tristezza e sostenere “la resistenza”.
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OLJ / Di Emmanuel Haddad, 22 novembre 2023
Immagine di copertina: La strada principale del campo di Bourj el-Brajné, 11 ottobre 2023. Foto João Sousa/“L’OLJ”
Una trentina di bambini dai 3 ai 6 anni, emozionati e ridenti, vestiti con la loro piccola divisa blu, ripetono dopo gli insegnanti Rawan e Roula: “Palestina araba, araba”, “Palestina a noi, a noi”, “Sionisti, via, via. ” Quella che segue è una versione gioiosa e caotica di My Homeland, la poesia del palestinese Ibrahim Touqan. Poi Rawan chiede loro cosa sta succedendo a Gaza. Una bambina con grandi occhi neri si alza. “Stanno uccidendo i bambini!” ” Cos’altro? “Rompono i giocattoli…” La serietà sul suo volto dice molto più delle sue parole infantili.
Venerdì 17 novembre, al primo piano dell’asilo Fleur bleue, come ovunque nel campo profughi palestinese di Bourj el-Brajné, il più popoloso della regione di Beirut con più di 20.000 abitanti, nessuno è insensibile al destino degli abitanti di Gaza. Chiacchiere o silenzi, risate o lacrime, tutti reagiscono come possono, ma tutti seguono con profonda attenzione la controffensiva israeliana a Gaza che ha già causato più di 13.300 morti, secondo le autorità locali gestite da Hamas. Per due giorni abbiamo ascoltato le reazioni di queste persone all’ultimo tragico episodio di un conflitto che, basti la loro esistenza a ricordarcelo, non è iniziato il 7 ottobre.
Nella sala insegnanti la direttrice dell’asilo, Oum Bissan, appare pallida mentre parla dei bambini le cui grida risuonano in sottofondo: “I bambini sono molto colpiti psicologicamente. Perché in modo indiretto vivono quotidianamente l’orrore: sullo schermo televisivo di casa, sul telefono o ascoltando le conversazioni dei genitori… e sono terrorizzati. Attraverso canti, grida e danze, cerchiamo di incanalare questa energia negativa”, spiega davanti a un caffè.
“Vieni al confine!”
Assicura che, se le insegnanti insegnano la resistenza ai bambini, lo fanno “con le lacrime nel cuore”. Ma nonostante il dolore, per colei la cui figlia, Bissan, porta il nome della sua città d’origine in Palestina , occorre non perdere di vista l’essenziale: “Di fronte a questi orrori, l’infanzia è un lusso a loro inaccessibile. D’altro canto, il massacro che si svolge davanti ai nostri occhi sta accelerando la consapevolezza dei nostri figli sull’importanza della causa palestinese.»
Perché per Oum Bissan e i suoi colleghi l’idea di un ritorno in Palestina, persistente barlume di speranza in una quotidianità monotona e angusta, è stata improvvisamente ravvivata con il sanguinoso attacco sferrato il 7 ottobre da Hamas sotto il nome di “Alluvione Al Aqsa”. “Il primo giorno ho preparato subito la borsa. Mia sorella, che vive a Ramallah, mi ha detto: “Vieni al confine!”» dice Aïda, una delle maestre. Per Oum Bissan, “se i Paesi arabi avessero aperto le frontiere in quel momento, la situazione sarebbe stata risolta”. La cinquantenne non ha parole abbastanza forti contro questi ultimi: “Da Sisi al re di Giordania, ci hanno abbandonato tutti.» Inoltre critica i paesi occidentali, «che dicono di difendere i diritti umani, ma sostengono il genocidio di Gaza». Una situazione che, secondo lei, è meglio compresa in Libano, “l’unico che si sta muovendo, anche se è un paese povero”, dice, accogliendo con favore le operazioni di Hezbollah contro Israele. Accanto a lei, la collega Roula annuisce: “Mio marito viene da Meiss el-Jabal, nel sud del Libano. Quindi so benissimo che anche molti libanesi vivono in guerra»
Colpita al cuore
I palestinesi di Bourj el-Brajné sanno anche quanto l’attuale conflitto stia ravvivando ferite ancora aperte. “Qui abbiamo vissuto la guerra del 2006, così come l’esplosione del 4 agosto 2020, accogliendo ogni volta feriti di tutte le nazionalità”, ricorda il chirurgo Mohammad Dib dell’ospedale di Haifa, supervisionato dalla Mezzaluna Rossa palestinese. “Ma non ha paragoni con Gaza”, continua. “Le condizioni in cui lavorano i medici in quella prigione a cielo aperto sono impossibili da descrivere a parole”, dice, aggiungendo di aver studiato in Russia con cinque medici di Gaza con i quali ha perso i contatti. “Sto impazzando”, dice Lyana Khatib, medico d’urgenza dell’ospedale di Haifa. Con uno stetoscopio al collo, la sua carnagione è pallida come la sua camicetta. Trascorre il poco tempo libero a disposizione cercando di contattare i suoi amici a Gaza. “Li ho conosciuti a Cuba dove ho studiato. Da quando i bombardamenti si sono intensificati, la maggior parte difficilmente risponde e, quando lo fa, i messaggi dicono molto sulla loro condizione: “Se muoio, dite loro che Tamer ama la vita”, mi ha inviato di recente uno di loro.»
La guerra di Gaza provoca anche a Bourj el-Brajné la sua parte di vittime indirette. “La settimana scorsa, un uomo sulla cinquantina è arrivato al pronto soccorso e quando gli ho chiesto di cosa soffrisse, è scoppiato in lacrime”, ricorda. Mi ha detto che stava seguendo la situazione a Gaza in televisione e non poteva sopportarlo. Lo stress gli aveva fatto male al cuore»
Mercoledì scorso, quando l’esercito israeliano ha lanciato un raid nel complesso ospedaliero di al-Shifa, dove si erano rifugiati migliaia di abitanti di Gaza, dalla moschea al-Fourqan, situata all’ingresso del campo, a tarda sera è partito un appello alla manifestazione. Lyana non ha esitato: “Sono incinta di quattro mesi e non dovrei camminare. Ma anche se so che la situazione lì non cambia, ho ascoltato il mio cuore e ho passato tre ore a protestare”, dice. Un modo per contrastare ciò che lei odia sopra ogni cosa, «l’impotenza, soprattutto quando vedo bambini prematuri tra la vita e la morte per mancanza di un’incubatrice».
Seduto nel suo negozio di ferramenta davanti a una rappresentazione della moschea di al-Aqsa e a una bandiera della Palestina, di cui si è tatuato il nome sull’avambraccio, Abou Mohammad ripercorre la sua biografia scandita da ogni episodio di un conflitto durato sette decenni. Ricorda i suoi genitori espulsi da Haifa nel 1948, la sua vita da “fedayyn” iniziata all’età di undici anni con Fateh, quando Israele invase il Libano nel 1982. Poi il suo insediamento a Bourj el-Brajné, dove è diventato padre di due figli con le difficoltà nel trovare un lavoro a causa soprattutto del divieto imposto ai palestinesi di esercitare un certo numero di professioni in Libano. Quindi per Abou Mohammad il 7 ottobre è soprattutto “un momento di rottura per la causa palestinese”. Con questo attacco, assicura questo esponente di Fateh-Intifada (fazione divisa da Fateh nel 1983 e vicina al regime siriano), Hamas ha raggiunto due obiettivi: “Primo, ricordare alla gente che la causa palestinese resta fondamentale e che la si difende con la pistola. Poi liberare i prigionieri dalle carceri israeliane”, ha detto, convinto che “grazie alla presa di ostaggi, le carte sono nelle mani della resistenza”.
“Bourj el-Brajné è la nostra piccola nazione e la Palestina è quella grande”, dice l’uomo dalla carnagione pallida. “Al minimo segnale, i giovani del campo sono pronti a unirsi alla lotta”, assicura con la luce negli occhi. Ma il veterano è sensibile anche ad altri impegni: “Ieri una ragazza ha cominciato addirittura a dipingere un ritratto di Abou Obeida sul muro della strada di fronte. Anche questo è un atto di resistenza.»
“Abbiamo riso un giorno e da allora abbiamo pianto”
Armata di una tavolozza di colori, un pennello, barattoli di vernice e una piccola scaletta di legno, Nihaye Ibrahim, la giovane ragazza in questione, sta completando la kefiah del portavoce delle Brigate Ezzedine al-Qassam. La giovane artista 24enne è al suo secondo giorno di lavoro su questo murale, che alla fine conterrà anche il ritratto di Abu Hamza, la sua controparte nelle Brigate al-Quds, il braccio armato della Jihad islamica. “Devo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Il mio modo di esprimermi è attraverso il disegno» Gli altri suoi murales raffigurano donne palestinesi in abiti ricamati o la mappa della Palestina storica dipinta in calligrafia araba. Quando le viene chiesto quale sia la sua posizione sui massacri commessi quel giorno da Hamas, fa riferimento al silenzio della comunità internazionale sulle uccisioni dei palestinesi da parte di Israele da decenni. “Non siamo terroristi e non ci piace la violenza, ma occhio per occhio e dente per dente”, dice perdendo la pazienza.
Ma questo sentimento di vendetta è di breve durata. “Abbiamo riso un giorno e abbiamo pianto per 41 giorni”, riassume Nour, che lavora nel ristorante Soufra, situato in una strada adiacente. “Il primo giorno abbiamo ballato la dabké e c’erano distribuzioni di baklawa per strada. Ma da allora non abbiamo più cuore per niente. Nel ristorante, le feste di matrimonio hanno lasciato il posto a serate di solidarietà in cui ai residenti del campo viene insegnato a utilizzare i social network per conoscere la Palestina e a boicottare i prodotti che sostengono l’occupazione”, dice la giovane donna di 24 anni. Vivendo al ritmo del conflitto di Gaza, il campo è paralizzato anche dalla paura che si estenda al Libano: “Temiamo che i campi palestinesi possano essere tra i primi obiettivi”, dice, assicurando che “molte persone hanno già preparato la valigia”.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictpalestina.org