Almeno 75 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi da Israele dall’inizio della guerra.
Fonte: English version
Di Ramzy Baroud – 11 dicembre 2023
Ciò che sta accadendo a Gaza è destinato ai libri di storia: il racconto epico di una piccola nazione sottoposta a un lungo e brutale assedio per molti anni, alle prese con una delle più grandi potenze militari del mondo. Eppure rifiuta di essere sconfitta.
Nemmeno la leggendaria tenacia dei personaggi di “Guerra e Pace” di Lev Tolstoj può essere paragonata all’eroismo degli abitanti di Gaza, che vivono in una minuscola landa di terra mentre sopravvivono al limite, da molto prima dell’odierno Genocidio israeliano.
Ma se Gaza è stata effettivamente dichiarata inabitabile dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo già nel 2020, come ha potuto far fronte a tutto ciò che è accaduto da allora, in particolare all’estenuante e senza precedenti guerra israeliana iniziata il 7 ottobre?
“Ho ordinato un assedio totale sulla Striscia di Gaza. Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto è chiuso”, ha dichiarato il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant il 9 ottobre. Infatti, Israele ha commesso Crimini di Guerra ben più gravi che la costrizione di 2,3 milioni di persone.
“Nessun posto è sicuro, nemmeno ospedali e scuole”, ha pubblicato su X (Twitter) l’11 novembre l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari. Le cose sono peggiorate molto da quando è stata fatta quella dichiarazione.
E poiché gli abitanti di Gaza si rifiutano di lasciare la loro terra, i 365 kmq della Striscia sono stati trasformati in un terreno di caccia di esseri umani, che vengono uccisi in ogni modo immaginabile. Coloro che non sono morti sotto le macerie delle proprie case e non sono stati uccisi dagli elicotteri d’attacco mentre tentavano di fuggire da una regione all’altra stanno ora morendo di malattie e di fame.
Non una sola categoria di palestinesi è stata risparmiata da questo orribile destino: bambini, donne, insegnanti, medici, soccorritori e persino artisti e poeti. Ognuno di questi gruppi ha un elenco di vittime in continua crescita, aggiornato quotidianamente.
Pienamente consapevole della portata dei suoi Crimini di Guerra a Gaza, Israele ha sistematicamente preso di mira i narratori della Striscia: i giornalisti e le loro famiglie, i blogger, gli intellettuali e persino gli influencer dei social media.
Mentre i palestinesi insistono affinché il loro dolore collettivo, e la loro Resistenza, debbano essere mostrati in televisione, Israele sta facendo tutto ciò che è in suo potere per eliminare i narratori.
Il Sindacato dei giornalisti palestinesi ha dichiarato in un comunicato della scorsa settimana che almeno 75 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi da Israele dall’inizio del della guerra. Ciò non include i numerosi giornalisti cittadini o scrittori che non operano necessariamente in veste ufficiale. Inoltre non include i familiari, come la famiglia del giornalista Wael Dahdouh o quella di Moamen Al-Sharafi.
Consapevoli che i loro intellettuali sono obiettivi di Israele, gli abitanti di Gaza tentano da anni di produrre sempre più narratori. Nel 2015, un gruppo di giovani giornalisti e studenti ha formato il collettivo We Are Not Numbers (Noi Non Siamo Numeri). Questo gruppo mira a “raccontare le storie dietro il numero di palestinesi nelle notizie” e a difendere i loro diritti umani.
Un co-fondatore di We Are Not Numbers, il Professor Refaat Alareer, era un amato docente universitario palestinese di Gaza. Giovane intellettuale la cui genialità era pari solo alla sua gentilezza, Alareer credeva che la storia della Palestina, e di Gaza in particolare, dovesse essere raccontata dagli stessi palestinesi, coloro il cui rapporto con la questione palestinese è diretto.
“Mentre Gaza continua ad annaspare per sopravvivere, lottiamo perché non venga dimenticata, non abbiamo altra scelta che reagire e raccontare le sue storie. Per la Palestina”, ha scritto Alareer nel suo contributo al volume “Light in Gaza: Writing Born of Fire” (Luce a Gaza: La Scrittura Nata dal Fuoco).
Ha curato diversi libri, tra cui “Gaza Write Back” (Riscrivere Gaza) e “Gaza Unsilenced” (Gaza Sotto Silenzio), che gli hanno anche permesso di portare il messaggio di altri intellettuali palestinesi di Gaza al resto del mondo.
“A volte una Patria diventa un racconto. Amiamo la storia perché parla della nostra Patria e amiamo ancora di più la nostra Patria grazie alla storia”, ha scritto in “Gaza Writes Back”.
Secondo quanto riferito, Alareer si sarebbe rifiutato di lasciare il Nord di Gaza, anche dopo che Israele era riuscita a isolarla dal resto della Striscia, sottoponendola a innumerevoli massacri. Come se fosse consapevole del destino che lo attendeva, Alareer ha twittato questa frase, insieme a una poesia che aveva scritto: “Se devo morire, che sia una storia da raccontare”.
Il 7 dicembre, We Are Not Numbers ha dichiarato che il suo amato co-fondatore era stato ucciso in un attacco aereo israeliano.
Alareer non è l’unico membro del collettivo di scrittori ad essere stato ucciso da Israele. Yousef Dawas è stato ucciso a ottobre e Mohammed Zaher Hamo a novembre, insieme ai membri delle loro famiglie, durante gli attacchi israeliani in varie parti della Striscia di Gaza.
In uno dei seminari che ho tenuto con il gruppo prima della guerra, Dawas si è distinto. Non solo per i suoi capelli insolitamente lunghi, ma per le sue domande intelligenti e argute. Voleva raccontare le storie degli abitanti comuni di Gaza, in modo che altre persone comuni in tutto il mondo potessero apprezzare la lotta quotidiana del popolo palestinese, la loro sacrosanta ricerca di giustizia e la loro speranza per un futuro migliore.
Questi narratori furono tutti uccisi da Israele, che sperava che le storie sarebbero morte con loro. Ma Israele fallirà perché la storia collettiva è più grande di tutti noi. Una nazione che ha prodotto personaggi del calibro di Ghassan Kanafani, Basil Al-Araj e Alareer produrrà sempre grandi intellettuali che svolgeranno il ruolo storico di raccontare la storia della Palestina e della sua liberazione.
Questa è l’ultima poesia condivisa da Alareer: “Se devo morire, devi vivere, per raccontare la mia storia, per vendere le mie cose, per comprare un pezzo di stoffa, e delle funi per fare un aquilone bianco con una lunga coda, così che un bambino, da qualche parte a Gaza, mentre guarda il cielo, aspettando suo padre che se ne è andato tra le fiamme, senza poter dire addio a nessuno, nemmeno alla sua carne, nemmeno a se stesso, vede il mio aquilone, l’aquilone che hai costruito, volare su, in alto, e pensa per un momento che ci sia un angelo che riporta l’amore. Se devo morire, che porti speranza, che sia una storia da raccontare”.
Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Ramzy Baroud è un ricercatore senior non di ruolo presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org