Perché i giornalisti palestinesi non sono considerati dai loro colleghi occidentali

I giornalisti occidentali stanno chiudendo  gli occhi davanti al deliberato attacco e all’uccisione da parte di Israele dei loro colleghi palestinesi, un attacco alla libertà di stampa senza precedenti nella storia.

Fonte: English version

Azad Essa – 10 novembre 2023

Immagine di copertina: Un parente piange il giornalista televisivo palestinese Mohamed Abu Hatab e 11 membri della famiglia il giorno dopo essere stati uccisi nel bombardamento israeliano di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, il 3 novembre 2023 (AFP)

Sta succedendo di nuovo.

Tra la gestione dei calcoli politici e la percezione di sé come avanguardia dell’ordine liberale, l’integrità tra i giornalisti mainstream occidentali sta rapidamente precipitando a nuovi livelli.

Come dice quel vecchio e abusato detto giornalistico? Se due persone si contraddicono perché fuori piove, basta guardare fuori dalla finestra.

Ebbene, stanno piovendo bombe israeliane sulle case palestinesi, sugli ospedali, sulle scuole, sui grattacieli residenziali, sulle infrastrutture idriche e fognarie, sui campi profughi e sui campi profughi all’interno dei campi profughi in tutta Gaza – e tutto sotto gli occhi del mondo.

La stampa occidentale, tuttavia, sembra piuttosto contenta di abbassare le tende.

E mentre questa campagna genocida raggiunge il culmine, con il bilancio delle vittime palestinesi che supera gli 11.000, di cui quasi 5.000 bambini, e 1,2 milioni di sfollati con la forza a causa di alcuni degli attacchi aerei più intensi degli ultimi 100 anni, ogni giorno che passa la necessità di misure professionali, morali ed etiche e la chiarezza nel coprire questa tragedia sta diventando sempre più urgente

Ma la copertura mediatica è rimasta nel complesso spaventosa. Ampie fasce della stampa mainstream sono cadute nel pozzo nero di ciò che il giornalista palestinese Mohammed el-Kurd descrive come una raffica di “negazionismo dei crimini di guerra, stenografia di stato, omissione e falsa fabbricazione di fatti, voce passiva e deliberato indebolimento degli intervistati palestinesi”.

Ma al di là della contorta copertura mediatica, si sta svolgendo un’altra guerra.

Una guerra narrativa che prevede montagne di disinformazione, bugie e offuscamento, provenienti dallo stato israeliano. E intrinseco a questa campagna di disinformazione c’è il noto tentativo di prendere di mira ed eliminare la libertà di parola e il dissenso in Israele, soprattutto nel giornalismo, e in particolare da Gaza.

In effetti, il deliberato attacco ai giornalisti palestinesi rappresenta un altro livello di crimini di guerra che la stampa mainstream occidentale non sembra prendere sul serio.

Perché i giornalisti occidentali, che presumibilmente difendono la libertà di stampa a livello globale, tacciono quando si tratta dei giornalisti in prima linea a Gaza?

Mostrare disprezzo

Negli ultimi 30 giorni, 34 giornalisti palestinesi a Gaza sono stati uccisi negli attacchi aerei israeliani in quello che molti osservatori hanno descritto come un attacco alla stampa senza precedenti nella storia.

Sebbene molti siano stati massacrati insieme alle loro famiglie, almeno un terzo dei giornalisti uccisi lavoravano visibilmente come membri della stampa, spesso indossando giubbotti antiproiettile con la scritta “stampa”  nel momento in cui sono stati uccisi.

È particolarmente agghiacciante osservare il totale disprezzo che i giornalisti occidentali hanno mostrato verso i loro colleghi di Gaza

In Libano, il 13 ottobre, l’attacco deliberato contro giornalisti ha provocato l’uccisione di un giornalista e il ferimento di altri sei.

Alcuni giornalisti di Gaza, come Wael Dahdouh di Al Jazeera, hanno perso le loro famiglie mentre erano sul campo. Senza alcuna possibilità di piangere mentre decine di altri civili a Gaza continuavano a essere uccisi, Dahdouh ha immediatamente ripreso il suo reportage.

Mohammad Abu Hasira della Wafa News Agency è stato ucciso insieme a 42 membri della sua famiglia,mentre dormivano nei loro letti.

Altri hanno ricevuto telefonate mirate che informavano che le loro case stavano per essere incenerite.

Anche quattro giornalisti israeliani sono stati uccisi quando i combattenti di Hamas sono evasi da Gaza il 7 ottobre, e almeno due di questi giornalisti sarebbero stati uccisi durante il rave.

Ma tra una manciata di articoli e qualche petizione,  risulta difficile sapere se la guerra sistematica di Israele contro i giornalisti ha in qualche modo toccato la coscienza dei giornalisti mainstream occidentali.

Mentre i cadaveri dei giornalisti cominciavano ad accumularsi, l’Associazione della stampa estera, ad esempio, è riuscita solo a rilasciare una debole dichiarazione nella quale sembrava che i giornalisti si  fossero trovati nel mezzo di un disastro naturale.

“L’Associazione della Stampa Estera chiede a tutti i partiti, Israele e Hamas, di garantire la sicurezza e la libertà di informare dei nostri membri palestinesi sul campo a Gaza, che stanno riportando le notizie nonostante circostanze estremamente pericolose”, si legge.

In effetti, la grottesca violenza contro i giornalisti palestinesi, condannati come “terroristi” e condannati a morte dal governo israeliano, non ha suscitato nemmeno una lieve protesta da parte dei giornalisti occidentali.

Come giornalista del Sud del mondo, è irritante.

Per quelli di noi che lavorano con giornalisti palestinesi e hanno una finestra sui molti ostacoli che devono superare solo per fare il loro lavoro – per non parlare del dover dimostrare continuamente di non essere antisemiti – è stato particolarmente agghiacciante osservare il totale disprezzo che i giornalisti occidentali hanno mostrato ai loro colleghi di Gaza.

Eppure, anche se rimane scioccante, sapendo tutto quello che so sui media mainstream occidentali, non è poi così sorprendente.

La mancanza di attenzione, preoccupazione o, francamente, indignazione, per l’omicidio dei giornalisti palestinesi è indissolubilmente legata alla loro stessa disumanizzazione da parte degli stessi media occidentali, oggi, ieri e decenni prima.

Soli

In quanto interlocutori chiave dell’ordine liberale, è noto che i giornalisti custodiscono gelosamente la propria libertà di parola. La capacità di denunciare, porre domande, parlare contro i potenti e poi tornare a casa sani e salvi sono esempi dei “nostri” diritti che loro difendono strenuamente.

Non è così, tuttavia, quando si tratta di persone di colore che operano in “luoghi lontani” dove accadono naturalmente “cose brutte”.

Sono gli stessi media che hanno suonato i tamburi di guerra prima delle invasioni dell’Afghanistan e della guerra in Iraq; che hanno amplificato l’islamofobia durante la guerra globale al terrorismo; hanno descritto in maniera errata le devastanti guerre israeliane contro Gaza tra il 2008 e il 2014; minato le proteste della Grande Marcia del Ritorno nel 2018-2019; distorto la verità sull’uccisione di Shireen Abu Akleh nel 2021 e solennemente sottoscritto il genocidio in corso dei palestinesi a Gaza.

Sono gli stessi media che poi presumibilmente ritrattano e poi hanno offrono un editoriale qua e una storia là per illustrare un’opinione diversa, solo per ritornare allo stesso ciclo di assurdità.

Se sei un giornalista palestinese che lavora per un media arabo nella Cisgiordania occupata o a Gaza, il messaggio è chiaro: sei sicuramente solo.

Perché altrimenti i principali media americani, sapendo che i palestinesi di Gaza vivono sotto assedio da 17 anni, senza elettricità fino a 14 ore al giorno o senza accesso all’acqua pulita (più del 90% è inquinata), con una carenza cronica di forniture mediche, senza libertà di movimento, senza infrastrutture funzionanti e avendo subito quattro devastanti campagne di bombardamenti dal 2008, perché altrimenti i media mainstream americani avrebbero pubblicato storie come “La Repubblica Palestinese della paura e della disinformazione”, quando gli strati di disinformazione e offuscamento sono proprio la politica israeliana?

In quale altro modo possiamo spiegare perché The Atlantic pubblichi un articolo intitolato “Comprendere l’ideologia genocida di Hamas” mentre Israele è costruito sul sionismo, un’ideologia coloniale-colonialista che ha esercitato intenti genocidi fin dal suo inizio?

Anche se una manciata di funzionari di alto rango del Dipartimento di Stato e dell’ONU si dimettono, e numerosi cablogrammi di dissenso vengono presentati da diplomatici preoccupati che sollecitano il governo a cambiare rotta, c’è poca tregua.

Se sei un giornalista palestinese che lavora per un media arabo nella Cisgiordania occupata o a Gaza, il messaggio è chiaro: sei sicuramente solo

Consideriamo questa newsletter del 30 ottobre del New York Times in cui gli autori alludono ad affermazioni non verificate e infondate secondo cui ospedali, moschee e scuole sarebbero invase dai combattenti di Hamas. Il disprezzo è così palese che rimanda sfacciatamente a un articolo di otto anni fa che si basa esclusivamente su fonti israeliane e sul Washington Institute for Near East Policy, un think tank istituito dall’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), un noto gruppo di pressione filo-israeliano.

In altre parole, il meglio che il New York Times ha potuto fare per giustificare la sua affermazione, proveniva da un articolo con un’affermazione simile del 2014. L’8 novembre, questa nuova affermazione è diventata una vile vignetta sul Washington Post.

La vignetta, creata da Michael Ramirez, vincitore del Premio Pulitzer, mostrava una famiglia palestinese legata a quello che sembrava essere un leader di Hamas, che poneva la domanda: “Come osa Israele attaccare i civili?”

Dopo le pressioni, il Post ha cancellato la vignetta, affermando  di aver cancellato una vignetta criticata come razzista. Ha aggiunto che avrebbe dovuto “caricaturare uno specifico portavoce di Hamas”, ma che era stata  rimossa dopo che la reazione negativa aveva convinto l’editore del Post di aver “perso qualcosa di profondo e divisivo”.

Mentre il Post avrebbe potuto sfruttare l’opportunità per riconoscere come questa vignetta fosse una manifestazione di una palese disumanizzazione e umiliazione della vita palestinese che ora era scivolata nell’osceno e che richiedeva una profonda introspezione, il giornale si è limitato a trascurarla.

Non ha offerto scuse. Ha insinuato invece di aver sentito le grida e di aver agito.

Certamente non ha collegato la sua vignetta alla generosità di parole, immagini e insinuazioni disumanizzanti che accusavano e manifestavano sfiducia nei confronti della narrativa palestinese nei circoli occidentali.

Infatti, l’articolo che annunciava la cancellazione della vignetta  chiariva che, laddove l’immagine potesse essere indecente, non era necessariamente imprecisa.

Nel corso dell’articolo si fa riferimento al Ministero della Sanità palestinese a Gaza come “gestito da Hamas”.

Perché cosa può esserci di più importante, che ricordare al lettore che il bilancio delle vittime era controllato dallo stesso uomo cattivo che si legava i bambini intorno alla pancia come scudi umani?

Copertura distorta

L’incapacità o il rifiuto intenzionale applicare la dovuta diligenza di giornalisti per comprendere il contesto prima di ripetere a pappagallo i punti di discussione di Stati Uniti e Israele, lascia perplessi.

Che dire delle montagne di testi, delle risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e dei rapporti del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che hanno descritto le orrende condizioni di Gaza nel corso degli anni? I giornalisti mainstream non leggono? Fanno fatica a comprender? È incredulità?

Settimane fa, in un’intervista ad Al Jazeera, a Jodie Ginsberg, presidente del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), è stato chiesto perché i giornalisti palestinesi continuano a essere uccisi da Israele. “Non so perché continui a succedere… ma dobbiamo assumerci le responsabilità”, ha risposto.

La risposta di Ginsberg è sorprendente.

Israele prende di mira i giornalisti palestinesi come mezzo per punire, scoraggiare e soffocare il giornalismo. È in grado di farlo perché gode dell’impunità grazie al sostegno senza pari della macchina da guerra americana, del mondo degli affari americano, dei produttori culturali americani come Hollywood e dei media americani.

Se il CPJ, il bastione della protezione dei giornalisti sul pianeta, ha una lingua biforcuta nel momento in cui ha esso stesso documentato l’omicidio senza precedenti di giornalisti a Gaza, allora il CPJ è solo un altro ingranaggio nella disumanizzazione dei giornalisti palestinesi.

Inoltre, come illustrano i grotteschi articoli del New York Times, del New Yorker e di altri, i media nazionali non sono cambiati, nonostante i loro tentativi di “diversificare” le proprie redazioni.

Come possono tranquillamente testimoniare,i giornalisti arabo-americani e musulmani sono stati deliberatamente messi da parte su questo tema o costretti a camminare sulle uova nelle redazioni di tutto il Paese.

E molto di questo ha a che fare con il razzismo e il campanilismo.

Proprio come Joe Biden non ha bisogno di vedere foto di bambini decapitati per credere che esistano, data la testimonianza dei media o dei funzionari israeliani e americani (la Casa Bianca ha dovuto chiarire di non aver visto alcuna foto), i media mainstream si ritengono  sufficientemente autorizzati aa sospendere la fede nelle testimonianze palestinesi – siano esse di uomini, donne, bambini, combattenti, medici, insegnanti, predicatori o giornalisti, sia interne che sul campo – finché non verranno verificate.

Come potremmo altrimenti comprendere la copertura distorta, la mancanza di attenzione per i giornalisti palestinesi che sono stati presi di mira e la disumanizzazione dei palestinesi su tutta la linea, quando la CNN decide di incorporarsi nell’esercito israeliano, accettando le condizioni dei militari di far controllare il loro materiale da parte dell’esercito prima che vada in onda?

In altre parole, i giornalisti stranieri si siederanno nella compagnia protetta dei genocidari e lo chiameranno giornalismo?

Se la CNN o qualsiasi altro organo di informazione che scegliesse di integrarsi con l’esercito israeliano avesse un briciolo di integrità, spingerebbe Israele a proteggere i giornalisti all’interno di Gaza stessa, non a vendere la propria indipendenza nel tentativo di presentarsi come arbitro della verità e delle informazioni che escono dalla Striscia assediata.

Ma ovviamente non può farlo.

Farlo affermerebbe l’umanità palestinese. E chi lo vuole?

 

Azad Essa è un reporter senior di Middle East Eye con sede a New York City. Ha lavorato per Al Jazeera English tra il 2010 e il 2018 coprendo l’Africa meridionale e centrale per la rete. È l’autore di “Hostile Homelands: The New Alliance Between India and Israel” (Pluto Press, febbraio 2023)

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org