Il tipo di violenza che vediamo in Palestina si è verificata ovunque le persone rifiutano di essere dominate. Questo Capodanno celebriamo il 220° anniversario dell’indipendenza di Haiti e siamo ispirati da una rivoluzione che ci ricorda che la liberazione è possibile.
Fonte: English version
Michel Degraff e Vivien Sansour – 1 gennaio 2024
Immagine di copertina: Attacco e presa della Crête-à-Pierrot (4 – 24 marzo 1802). Illustrazione originale di Auguste Raffet, incisione di Ernst Hébert. (Immagine: Wikimedia)
Yakoub el Khayat, il poco conosciuto poeta orale palestinese scomparso nel 2022, divenne un rifugiato nel 1948. In quell’anno, lo stato israeliano fu fondato sulla sua terra ancestrale, inclusa la sua casa nel villaggio di Iqrith nell’alta Galilea. Yakoub si unì a circa 750.000 palestinesi nella fuga da tutto ciò che aveva conosciuto e amato. Yakoub, che moderò il suo dolore chiamandolo “l’amata ferita” e le cui parole ispirarono resilienza in ogni persona che le ascoltò, visse per altri 74 anni – i suoi primi giorni a Iqrith ormai un lontano ricordo – e alla fine morì con il cuore profondamente pesante.
Alcuni avrebbero potuto pensare che un dolore come il suo non potesse essere superato. Ma la totale devastazione che Israele ha scatenato sulla popolazione di Gaza e della Cisgiordania dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre rappresenta un nuovo livello di terrore, che in tutto il mondo ha scosso la fiducia delle persone nell’umanità. Mentre assistiamo al genocidio di Gaza che si svolge proprio davanti ai nostri occhi, non siamo i soli a cercare risposte più profonde su come ciò possa ancora accadere ai nostri giorni e nella nostra epoca e proprio davanti ai nostri occhi, in diretta dagli schermi televisivi
Alcuni di noi riconoscono che il tipo di violenza che vediamo oggi nella Palestina occupata si è verificata e continua a verificarsi in tutto il mondo – in forme diverse, a ritmi diversi e su scale diverse – in particolare nei luoghi in cui le persone hanno rifiutato di essere dominate o ridotte in schiavitù. Uno di questi posti è Haiti. Lì, la lotta contro la schiavitù e la colonizzazione iniziò con il primo arrivo dei coloni europei nel 1492 e continuò durante la rivoluzione iniziata nel 1791. E ora, con l’ennesimo “intervento internazionale” in cantiere, ricordiamo che Haiti è ancora occupata, come è ormai da secoli, politicamente, militarmente, finanziariamente, anche culturalmente e linguisticamente. Oggi, gli haitiani vengono ancora puniti per la loro sfida del 1804 nell’aver affermato la loro umanità e sovranità. Come i palestinesi, gli haitiani vengono demonizzati dalle potenze occidentali perché cercano la libertà e lottano per la loro dignità.
Palestinesi e haitiani sono fratelli maltrattati e abbandonati, la cui sottomissione nasce in un grembo di dolore e resistenza.
Palestinesi e haitiani sono fratelli maltrattati e abbandonati, la cui sottomissione nasce in un grembo di dolore e resistenza. Soffriamo della stessa ferita aperta creata dalle potenze del mondo. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno armato e aiutato l’uccisione dei nostri popoli. E mentre questo è il caso in molti altri posti nel mondo, noi, palestinese e haitiani, vogliamo, in questo momento, condividere alcune delle nostre riflessioni attraverso il nostro dolore condiviso.
“Spero di rivederti”, sussurri tremuli di “ti amo” e sospiri lunghi e profondi: questi sono i suoni delle telefonate con i nostri cari in Palestina e ad Haiti nei giorni in cui siamo abbastanza fortunati anche solo da riuscire a raggiungerci. Entrambe le parti nella conversazione sanno che questa potrebbe essere l’ultima volta che sentiranno di nuovo la voce dell’altro. A Gaza le bombe cadono indiscriminatamente su ospedali, case e scuole. In Cisgiordania sono in aumento le incursioni quotidiane e gli attacchi armati dei coloni; più di 152 persone sono state uccise nelle ultime settimane, in un clima di paura senza precedenti. Innumerevoli palestinesi sono stati rapiti, torturati e umiliati davanti alle telecamere per intrattenere coloni e israeliani. Questi video di tortura, trasmessi al mondo dai sadici che li hanno creati, sono spesso l’unica prova che la persona amata di qualcuno possa essere ancora viva.
Lo stesso tipo di cupa incertezza incombe su Haiti, dove circa il 60% della capitale Port-au-Prince è controllata da bande assassine che uccidono, rapiscono, torturano e violentano impunemente. Una scuola su tre è sotto attacco. Più di 1.500 haitiani sono stati uccisi e più di 900 rapiti nella prima metà di quest’anno (2023). Le bande di Haiti sono armate con armi provenienti dallo stesso impero che arma Israele per uccidere civili in Palestina – armi pagate con i soldi delle nostre tasse e approvate dai nostri funzionari eletti.
E ora la “comunità internazionale” sta cercando di inviare un’altra forza armata ad Haiti sotto forma di “peacekeepers” keniani che non parlano né kreyòl né francese e che – la storia ci informa tristemente – probabilmente causeranno più violenza di quanta ne impediranno. Il fatto che questa forza keniana stia prendendo lezioni di francese, parlato da non più del 5% ad Haiti, soprattutto tra le alte sfere della società, suggerisce che il loro obiettivo è quello di proteggere i ricchi, non la popolazione che sopporta il peso della violenza delle bande. Inoltre, abbiamo assistito alle serie di violenze sessuale perpetrata dalle forze di pace delle Nazioni Unite nelle zone di conflitto, dalla Somalia al Sud Sudan, al Congo, e anche ad Haiti durante i precedenti interventi delle Nazioni Unite. Nel 2007, si scoprì che circa 134 membri delle forze di pace dello Sri Lanka gestivano un traffico di pedofilia, depredando le persone più vulnerabili in una popolazione incredibilmente vulnerabile, ma quando l’esercito dello Sri Lanka ne rimpatriò 114, in Sri Lanka nessuno di loro fu nemmeno incarcerato.
Nel mondo accademico non facciamo questi confronti e collegamenti semplicemente per dimostrare un punto. Non è questo il momento per analisi critiche o dibattiti. Ora è il momento di agire. Se vogliamo sopravvivere a questo mondo come palestinesi o haitiani – o come ebrei, musulmani, cristiani o chiunque altro – dobbiamo imparare dalle storie di resistenza di altri popoli oppressi del mondo. Dobbiamo dire forte e chiaro – e poi dimostrare con ulteriori azioni collettive – che non faremo marcia indietro. Non permetteremo che lo spargimento di sangue quotidiano diventi uno spettacolo che ci desensibilizza all’esperienza vissuta dai nostri cari in tutto il mondo. Non rimarremo a guardare nel silenzio e nel dolore mentre i potenti continuano a dominarci e ad opprimerci. “Mai più” deve essere inteso come “mai più” per tutti!
La verità che tutti noi negli Stati Uniti dobbiamo comprendere oggi è che nessuna di queste orribili tragedie sta semplicemente “accadendo laggiù” in qualche terra lontana. Il trauma sta accadendo anche qui, nei cuori e nelle anime delle persone negli Stati Uniti. E l’orrore che vediamo ogni giorno sui nostri schermi è prodotto proprio qui. Gli americani non sono solo spettatori. Siamo complici. Siamo colpevoli.
Solo una volta compresi i meccanismi di oppressione in atto in Palestina, ad Haiti e nel mondo, potremo iniziare a lavorare insieme per spezzarli.
La storia ci spingerà avanti verso la giustizia. Ricordando le nostre storie collettive di occupazione e liberazione e i sogni di libertà e uguaglianza condivisi dai nostri antenati, possiamo coinvolgere nelle nostre lotte coloro che, in precedenza, non avevano pienamente compreso l’avvertimento di Martin Luther King secondo cui “l’ingiustizia ovunque è una minaccia alla giustizia ovunque”. Non è una coincidenza che le proteste di massa in tutto il mondo, e negli Stati Uniti in particolare, non abbiano solo sventolato bandiere palestinesi, ma abbiano anche sventolato simboli di movimenti di liberazione ad Haiti, in Sudan, in Congo e nelle comunità dei nativi americani. Questo urgente incontro è una chiara dimostrazione che l’idea che nessuno è libero finché tutti noi non siamo liberi non è solo uno slogan. È una linea guida reale e tangibile per un nuovo mondo progettato con l’intenzione di rompere i vecchi modelli umani in cui gli oppressi diventano oppressori, sia a Turtle Island che in Medio Oriente. Se Gaza ci sta insegnando qualcosa in questo momento, è che l’illusione della libertà in Europa e negli Stati Uniti è, nella migliore delle ipotesi, fragile. Ciò che la rivoluzione haitiana ha cercato di insegnarci è che non importa quanto dura sia l’oppressione, le persone si solleveranno perché la vita è più forte della morte e perché la volontà di essere liberi è impressa nel nostro DNA di esseri umani. Come lo manifestiamo, come lo affrontiamo e anche come lo comprendiamo sono le domande fondamentali che dobbiamo porci in questo nuovo anno. Che tipo di esseri umani vogliamo essere? E quali vecchi paradigmi siamo disposti a rompere?
Pertanto, e come minimo in questo momento immediato, dobbiamo chiedere la fine del flusso di armi verso le bande haitiane e la fine delle ingerenze statunitensi e internazionali nell’isola. E dobbiamo chiedere un cessate il fuoco immediato a Gaza – e la fine dell’occupazione israeliana in Palestina, così come la fine di tutti gli aiuti militari statunitensi a Israele. Queste richieste fondamentali sono quelle che ogni persona libera nel mondo dovrebbe avanzare in questo momento.
In questo giorno e a cavallo di un altro anno brutale nella storia umana, lasciamoci ispirare dallo spirito della rivoluzione haitiana che continua a dichiarare: “Tout moun se moun”.
Ogni persona è una persona.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org