I leader israeliani non nascondono di riutilizzare oggi a Gaza i metodi del 1948. Ma ciò che non riuscì a reprimere i palestinesi allora, non lo farà oggi.
Fonte: English version
Di Meron Rapoport – 2 gennaio 2024
Immagine di copertina: Soldati israeliani dell’8717° Battaglione della Brigata Givati che opera a Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale, durante un’operazione militare, il 28 dicembre 2023. (Yonatan Sindel/Flash90)
All’inizio di dicembre 2022, poco prima che il governo di estrema destra israeliano prestasse giuramento e molto prima degli orrendi eventi del 7 ottobre e del brutale attacco israeliano alla Striscia di Gaza, Ameer Fakhoury e io abbiamo pubblicato un articolo su queste pagine intitolato: “Perché il Governo Della ‘Seconda Nakba’ Vuole Rimodellare lo Stato Israeliano”.
La nostra preoccupazione che questo governo potesse effettuare un’espulsione sul modello dell’espropriazione di massa della Nakba del 1948 era basata sul fatto che a Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir erano stati assegnati ruoli centrali nel governo: Smotrich come Ministro delle Finanze e governatore di fatto della Cisgiordania e Ben Gvir come Ministro della Sicurezza Nazionale. Questo duo, abbiamo scritto, vuole il caos, credendo che questo “porterà al momento decisivo in cui i palestinesi si arrenderanno o verranno espulsi”.
Un anno dopo, i nostri peggiori timori si sono concretizzati: 1,9 milioni dei 2,2 milioni di residenti palestinesi della Striscia di Gaza sono attualmente sfollati dalle loro case, che in molti casi sono state completamente distrutte, e alti esponenti del governo israeliano stanno apertamente sollecitando e lavorando attivamente per l’espulsione di massa dall’enclave assediata.
Nei giorni scorsi Smotrich ha esposto in termini chiari la sua visione per la Striscia. “La mia richiesta è che Gaza non continui ad essere un focolaio dove 2 milioni di persone si crogiolano nell’odio e aspirano a distruggere lo Stato di Israele”, ha detto in un’intervista alla radio militare la settimana scorsa. “Se a Gaza ci fossero 100.000 o 200.000 arabi e non 2 milioni, l’intera discussione sul da farsi sarebbe diversa”.
In una riunione del suo partito Otzma Yehudit (Potere Ebraico) alla Knesset (Parlamento) il 1 º gennaio, Ben Gvir ha chiesto di “incoraggiare la migrazione dei residenti di Gaza” come “soluzione corretta, giusta, morale e umana”, e fatto eco all’appello di Smotrich a ristabilire gli insediamenti ebraici nella Striscia. Ciò avviene dopo che due parlamentari del Partito Likud di Netanyahu hanno pubblicato un articolo sul Wall Street Journal a novembre intitolato: “L’Occidente Dovrebbe Accogliere i Profughi di Gaza”.
Lo stesso Netanyahu ha detto il mese scorso ai membri del suo partito che Israele sta “lavorando” per facilitare la cosiddetta “migrazione volontaria” dei palestinesi di Gaza, mentre un altro membro del partito, il Ministro dell’Agricoltura e dello Sviluppo Rurale Avi Dichter, ha descritto esplicitamente l’attuale operazione dell’esercito nella Striscia come “Nakba 2023”.
E, come +972 Magazine e Local Call hanno rivelato integralmente alla fine di ottobre, il Ministero dell’Intelligence israeliano ha raccomandato il trasferimento forzato e permanente dell’intera popolazione palestinese di Gaza nella penisola del Sinai. L’Egitto, da parte sua, continua a sostenere che non acconsentirà ad alcun trasferimento di palestinesi nel suo territorio.
Non c’è nulla di nuovo nel fatto che i politici israeliani utilizzino la minaccia della Nakba come strumento politico; infatti, Fakhoury e io abbiamo pubblicato un altro articolo nel giugno 2022 intitolato: “Come le Minacce di Una Seconda Nabka Sono Diventate Esplicite”, che descriveva dettagliatamente come la destra israeliana sia passata negli ultimi anni dal negare la Nakba al giustificarla e ad utilizzarla come una rinnovata minaccia contro i palestinesi. Ora, però, questa minaccia si è trasformata da strategia retorica in una realtà devastante.
Un’arma strategica, e una soluzione finale
L’obiettivo dichiarato dell’esercito israeliano a Gaza è di mettere fuori gioco Hamas e altri gruppi armati palestinesi. Le sue azioni negli ultimi tre mesi, tuttavia, attestano una campagna molto più ampia che ricorda le politiche della Nakba: espellere i civili in massa e rendere inabitabili le loro case e i loro quartieri.
Pochi giorni dopo la furia guidata da Hamas nel Sud di Israele, l’esercito israeliano ha ordinato a 1,1 milioni di palestinesi residenti nella metà settentrionale della Striscia di abbandonare le loro case e di spostarsi a Sud di Wadi Gaza fino a nuovo avviso, mentre continuava a bombardare le aree in cui gli è stato detto di fuggire. Più recentemente, l’esercito ha emesso ulteriori ordini di espulsione di palestinesi in varie parti del Sud di Gaza, spingendo centinaia di migliaia verso la costa e il confine di Gaza con l’Egitto.
Il caporedattore del quotidiano liberale israeliano Haaretz, Aluf Benn, ha sostenuto che l’espulsione è “la principale mossa strategica di Israele” nella guerra, e che la capacità dell’esercito di uccidere i civili che tentano di tornare a casa sarà la chiave per la vittoria di Israele. L’analista del quotidiano sugli affari mediorientali, Zvi Bar’el, ha descritto in modo simile la crisi umanitaria che Israele ha provocato a Gaza come “un’arma strategica progettata per imprimere nella coscienza palestinese la punizione apocalittica che deve affrontare chiunque d’ora in poi oserà sfidare Israele”.
Israele non solo vede lo sfollamento forzato come uno strumento, ma sembra anche considerarlo un fine in sé. Testimonianze e documenti che sono trapelati da Gaza durante questo periodo, oltre all’analisi delle immagini satellitari, suggeriscono che l’esercito israeliano si sta assicurando che molte delle persone sfollate non abbiano una casa in cui tornare.
L’esercito ha raso al suolo interi quartieri, danneggiando o distruggendo circa il 70% delle abitazioni di Gaza. Ha distrutto biblioteche e archivi, edifici comunali, università, scuole, siti archeologici, moschee e chiese. Anche se Israele alla fine non imporrà un’espulsione di massa dei palestinesi fuori dalla Striscia, resterà ben poco della loro vita prima di questa guerra.
“Israele non ha alcun interesse che Gaza risorga”, ha detto Giora Eiland, ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano, all’emittente nazionale israeliana, Kan, a novembre. “La situazione di caos continuo a Gaza, simile a quella della Somalia, è una situazione con cui Israele può convivere? Israele può conviverci. Chi vuole cambiare la situazione, può farlo alle nostre condizioni”.
Al di là della depravazione morale dell’idea stessa di deportare o uccidere 2 milioni di persone, il fiorire dell’ipotesi di una “seconda Nakba” nella politica israeliana testimonia la povertà ideologica della società israeliana. Settantacinque anni dopo la fondazione dello Stato, l’unica cosa che la politica ebraico-israeliana ha da offrire è una seconda Nakba.
Ritornare alla strategia militare e politica fondativa del 1948, a quello stesso metodo di deportazione di massa di un intero popolo, dimostra l’instabilità e la debolezza degli altri metodi suggeriti da Israele per affrontare la “Questione Palestinese” nel corso degli anni: annessione, mantenimento dello status quo, disimpegno unilaterale, “riduzione del conflitto” e persino proposte di Soluzione a Due Stati incentrate principalmente sugli interessi ebraici.
Inoltre, l’importanza data all'”opzione Nakba” nel dibattito politico ebraico-israeliano contemporaneo testimonia ulteriormente l’eccezionalità di Israele nel mondo di oggi. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, e nonostante alcuni casi contrari, il consenso internazionale ha ampiamente ritenuto che i trasferimenti forzati di popolazione e le espulsioni di massa non fossero più legittimi, definendoli addirittura gravi crimini internazionali.
Anche quando queste tattiche sono state messe alla prova più recentemente, come in Bosnia o in Ruanda, quasi nessuno Stato ha osato dichiararle come politica ufficiale, e la comunità internazionale, anche se a volte agendo in modo atrocemente tardivo, ha generalmente lavorato per porre fine all’uso di queste tattiche. Ma espellere i palestinesi dalle loro case e impedirne il ritorno è la più antica politica di Israele, e i suoi leader sono pronti a metterla in atto ancora una volta.
Sull’orlo dell’abisso
Il 7 ottobre è stato un momento di crisi diverso da qualsiasi cosa Israele abbia visto negli ultimi mezzo secolo, o forse addirittura dal 1948. La sicurezza nazionale di Israele è crollata, insieme al senso di sicurezza personale di molti dei suoi cittadini. La brutalità degli attacchi guidati da Hamas ha suscitato un profondo desiderio di vendetta; infatti, la maggior parte dell’opinione pubblica ebraica ritiene che vivere soggiogando i palestinesi sia l’opzione più ragionevole.
Ma vale comunque la pena ricordare che la Nakba del 1948 non ha risolto il conflitto tra ebrei e palestinesi. Settantacinque anni dopo, Israele sta combattendo i nipoti e i pronipoti dei profughi palestinesi che fuggirono o furono espulsi a Gaza nel 1948 dalle loro terre all’interno di quello che divenne lo Stato di Israele.
Ora, Israele sta trasformando in realtà la sua fantasia di mettere in atto una seconda Nakba, inebriato dal proprio potere e vantaggio militare su Hamas, e di fatto incoraggiato dalla legittimità che la comunità internazionale ha concesso a Israele di “rispondere” dopo il 7 ottobre. Ma Israele potrebbe tornare alla realtà prima del previsto.
Una completa “pulizia” dell’intera Striscia di Gaza sembra essere una missione impossibile: Hamas non si arrenderà, i palestinesi non alzeranno bandiera bianca e la crisi umanitaria porterebbe probabilmente all’intervento arabo, americano ed europeo. La questione del destino degli ostaggi israeliani rimasti a Gaza può anche complicare una linea d’azione inequivocabile, mentre la politica interna israeliana è molto meno coesa di quanto le onnipresenti manifestazioni di patriottismo possano suggerire.
Se Israele alla fine dovesse tornare alla realtà, come cambierà rotta? Si può sperare che, a differenza dei casi precedenti, forse questa volta la società israeliana non ritorni semplicemente all’idea assurda di “gestire il conflitto”. Si può sperare che, soprattutto dopo aver vissuto un trauma così terribile, la società israeliana cominci a capire che un futuro sicuro in questa terra può essere garantito solo raggiungendo una sorta di accordo con i palestinesi, e che la coercizione, la violenza e la supremazia non raggiungeranno mai questo obiettivo.
Ebrei e palestinesi sono oggi più vicini all’abisso di quanto lo siano stati negli ultimi 75 anni, e l’adozione da parte di Israele come soluzione di una nuova Nakba potrebbe travolgere e far sprofondare entrambi. Ma è anche importante ricordare che quando ci si trova sull’orlo dell’abisso è ancora possibile intravedere l’altra sponda.
Meron Rapoport è un editore di Local Call.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org