Perché dobbiamo fare il paragone con il Ghetto Ebraico

L’orrore del passato è tornato in una nuova veste, e il paragone tra il ghetto ebraico sotto il nazismo e il ghetto di Gaza sotto l’attuale autorità fascista di Israele deve cessare di essere considerato un sacrilegio.

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Michelle Weinroth – 7 gennaio 2024

Immagine di copertina: Il Ghetto di Varsavia (Foto: PICRYL)

I confronti non riguardano le identità esatte. Si può sempre criticare un paragone e affermare che è imperfetto. Ma un simile giudizio è intrinsecamente errato, poiché i confronti non sono intesi a marcare l’identità, ma a sottolineare alcune caratteristiche condivise – caratteristiche critiche, certo, non incidentali o accessorie.

Paragonare il ghetto ebraico sotto il nazismo con il ghetto di Gaza può essere profondamente inquietante; ma dovremmo distogliere lo sguardo da quella similitudine per distogliere lo sguardo dall’orrore che si sta manifestando oggi e che, secondo diversi commentatori esperti, non ha precedenti nella storia moderna? Consideriamo l’enormità e la velocità con cui sta avvenendo il massacro di civili innocenti. Al di là degli orrendi omicidi ottenuti attraverso implacabili attacchi aerei, c’è l’atto premeditato di privare una popolazione assediata dei suoi beni di prima necessità: cibo, carburante, medicine e acqua. C’è l’umiliazione sia dei vecchi che dei giovani, denudati e uccisi in via extragiudiziale. Questi atti intenzionali di genocidio non ricordano il nazismo? Gaza, come l’hanno definita alcuni, non è più un campo di concentramento; è un campo di sterminio.

Un confronto tra il ghetto di Gaza e il ghetto ebraico sotto il nazismo potrebbe benissimo innescare un dibattito sui diversi programmi genocidari. Ma la discussione si discosta dal punto centrale. Differenze e variazioni a parte, ciò che accomuna tutti i tipi di genocidi è la loro insondabile crudeltà, la loro vertiginosa disumanità. Questi atti di annientamento sono così aberranti che sfidano il linguaggio. La parola e la ragione sono ostacolate, disabilitate e paralizzate dal carattere apocalittico di questa cancellazione di massa dell’umanità.

 Palestinesi in viaggio verso sud dal distretto di Zeitoun, alla periferia meridionale di Gaza City, il 26 novembre 2023, il terzo giorno di tregua tra Israele e Hamas. (Foto: Ahmed Ibrahim / Immagini APA)

È naturale voler distogliere lo sguardo da tutto questo – (e con “questo” intendo tutto ciò che è troppo osceno e ripugnante per rifletterci più di un momento fugace). Ma lo sconforto in questo paragone “sacrilego” impallidisce di fronte alla agonia delle vittime attuali: i palestinesi assediati. La loro agonia non scomparirà solo perché distogliamo lo sguardo e ci rifiutiamo di affrontare il confronto. Il disagio derivante dal confronto potrebbe essere attenuato se ciò significasse che articolarlo pubblicamente e con forza potrebbe generare speranza, contribuire a fermare la carneficina e prevenire un genocidio in piena regola?

Direi che c’è un significativo valore politico e morale nel rafforzare il confronto, poiché la fitta viscerale che tale analogia provoca può diventare una forma salutare di auto-interrogazione in un pubblico altrimenti conflittuale, compiacente o indifferente. L’effetto shock derivante da questo confronto ha il potere di scuotere il pubblico dal suo compiacimento, negazione e puro senso di disperazione. In effetti, ricordare la soglia dell’”indicibile” che segnò l’Olocausto degli ebrei, e tracciare una linea da quell’episodio del XX secolo al presente, significa ricordare al mondo che la guerra contro gli abitanti di Gaza di oggi (e, in effetti, sui palestinesi in Cisgiordania) ha raggiunto quella terribile soglia di vittimismo accelerata dalla violenza nazista. Per anni, questa soglia ha evocato un’idea di vittimismo assoluto esclusivo degli ebrei. Non più. L’orrore del passato è tornato in una nuova veste; la vittima di Ur non è l’ebreo, ma il palestinese.

Se vogliamo sottolineare la gravità della crisi attuale, dobbiamo affrontarla con urgenza. Il paragone inquietante, che ho articolato sopra, può potenzialmente galvanizzare il grande pubblico all’azione, al discorso politico e alla protesta efficace. Non fare il paragone significa permettere che il panorama apocalittico di Gaza e il massacro peggiorino. Alcuni (in particolare gli apologeti di Israele) potrebbero dire: non è così terribile come Auschwitz, quindi possiamo permetterci (almeno moralmente) di continuare a bombardare a morte la Striscia.

Il valore politico non è l’unico merito nel sottolineare questo inquietante confronto. L’analogia inquietante è anche un mezzo cruciale per sfatare miti di vecchia data: in altre parole, che il vittimismo ebraico è senza paragoni, esaltato e singolare nella sua gravità. In effetti, è proprio l’eccezionalismo con cui Israele si avvolge che ha permesso all’élite politica sionista (dovunque si trovi – negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Europa o in Israele) di farsi beffe del diritto internazionale ripetutamente per più di 75 anni. È questo senso coltivato di sublimità trascendente (derivante dall’uso militare dell’Olocausto e dall’uso manipolativo della Bibbia) che eleva lo status di Israele a attore arrogante sulla scena mondiale, indifferente a tutte le linee rosse (cioè a praticamente tutte le convenzioni di Ginevra e le risoluzioni delle Nazioni Unite).

Con questa identità sovraumana autoassegnata, l’espansionismo di Israele e il suo massacro di palestinesi innocenti sono rafforzati da un senso di potere illimitato dato da Dio. La morte di oltre 21.000 palestinesi non soddisfa la sete di vendetta di Israele in risposta al 7 ottobre. Per Israele, le risoluzioni delle Nazioni Unite appartengono ai “semplici” affari mondiali; e così li respinge come meschini, esprimendo le sue pretese nel linguaggio dell’autorità divina. Con questo atteggiamento retorico arrogante, si fa beffe del giudizio morale e delle critiche rivoltegli da altri. Ripudia il diritto internazionale con sfrontata noncuranza perché sa che, con il sostegno degli Stati Uniti, può trasgredire la ragione e il diritto con infinita impunità. Un tempo compatito come vittima collettiva del genocidio, Israele è ora il perpetratore, lo Stato che, paradossalmente, fa del vittimismo la sua quintessenza della ragion d’essere.

Se vogliamo chiedere conto a Israele dei suoi crimini, dobbiamo esercitare il diritto democratico di dire apertamente e sfacciatamente che gli ebrei non hanno il monopolio sulle vittime del genocidio. Gli ebrei non sono le eterne vittime della storia. Al contrario, gli ebrei progressisti hanno il dovere morale di contribuire ad allentare la presa sionista su quel senso di singolare vittimismo. Quest’ultima è una prerogativa autoassegnata che consente a Israele (insieme ai suoi sostenitori) di sfruttare tale privilegio con conseguenze disastrose – genocide. È imperativo contribuire a porre fine a questa carneficina.

Il paragone tra il ghetto ebraico sotto il nazismo e il ghetto di Gaza sotto l’(attuale) autorità fascista di Israele deve cessare di essere sacrilego. In effetti, è essenziale che il paragone, per quanto scomodo, sia espresso apertamente, anche solo per costringere Israele e i suoi apologeti a vedere il riflesso dello Stato “ebraico” nello specchio del passato nazista e, si spera, a riflettere con repulsione sulla sua propria realtà fascista. Se ciò potesse accadere, segnerebbe una svolta significativa nella storia.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org