Il Ministro della Giustizia Lamola se n’è uscito con la prima frase memorabile del caso. I palestinesi hanno subito “75 anni di apartheid, 56 anni di occupazione, 13 anni di blocco”. Un colpo maestro.
di Craig Murray, 11 gennaio 2024
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Giovedì ho assistito all’udienza della causa del Sudafrica contro Israele per genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia. Ho potuto sedere nella tribuna del pubblico e assistere a tutti i lavori. Tuttavia, sono stato ostacolato nella stesura del resoconto dal fatto che non ci sono state concesse penne o matite (anche se ci è stata concessa della carta). Ho chiesto al capo della sicurezza dell’ICJ perché le penne non fossero ammesse nella tribuna del pubblico. Mi ha risposto, con un’espressione perfettamente sincera, che potevano essere usate come arma. Essendo privo della mia micidiale penna a sfera, questo resoconto è meno dettagliato e più impressionistico di quanto vorrei darvi.
Sono arrivato all’Aia mercoledì mattina presto, il 10 gennaio, dopo essere arrivato in aereo dall’Indonesia. Il viaggio era durato quattro voli: Singapore, Milano, Copenaghen e infine Schiphol. Il mercoledì è stato trascorso alla ricerca frenetica di indumenti caldi nei negozi di beneficenza dell’Aia, poiché avevo con me solo abiti da spiaggia, oltre a una vecchia giacca da sci di un amico. Ho telefonato prima all’ICJ per avere informazioni su come partecipare alla sessione di giovedì mattina.
Una giovane signora mi ha informato che dovevo fare la fila fuori dal piccolo cancello ad arco nel muro. Il cancello sarebbe stato aperto alle 6 del mattino e i primi 15 membri del pubblico sarebbero stati ammessi alla galleria. Ho chiesto dove dovevo mettermi in coda esattamente. Mi ha risposto che non era necessario, che sarebbe stato bene arrivare alle 6 del mattino di giovedì.
Avevo preso alloggio in un hotel a cinque minuti a piedi, così alle 22 di mercoledì sera, con una temperatura già di -4°C, sono andato a controllare se si fosse formata una coda. Non c’era nessuno. Sono tornato in albergo, ma ogni ora andavo a controllare se si fosse formata una coda a cui unirmi. A mezzanotte o all’una non c’era nessuno, ma alle due c’erano già 8 persone, sedute in tre piccoli gruppi molto infreddoliti. Tutti sembravano avere un gran freddo, ma tutti quanti erano amichevoli e loquaci.
Il primo gruppo, proprio accanto al cancello, era composto da tre giovani donne olandesi, sedute su una coperta e ben fornite di fiaschette di caffè caldo e scatole di baklavà. Il secondo gruppo era composto da tre giovani studenti di diritto internazionale, tutti arabi, che avevano assistito ad altre cause e conoscevano le regole del gioco. Il terzo gruppo era composto da due giovani donne, una olandese e l’altra araba, sedute su una panchina, con un’aria infreddolita e infelice.
Ben presto abbiamo parlato tutti insieme ed era evidente che ognuno di noi era motivato dal sostegno ai palestinesi nella loro lotta contro l’implacabile occupazione. Poco dopo è arrivato un altro signore arabo, più anziano e autorevole, che un po’ incongruamente aveva studiato in Scozia a Gordonstoun. Un uomo tunisino di alta statura continuava a camminare avanti e indietro facendo telefonate; sembrava preoccupato e piuttosto timido.
A tutti noi erano state date informazioni simili sul numero di persone che sarebbero state ammesse, anche se ad alcuni era stato detto 15, ad altri 14 e ad altri ancora 13. Il nostro numero è rimasto stabile a 12 per diverse ore. Poi, verso le 4.30, un’auto si è fermata e ne è uscita Varsha Gandikota-Nellutla di Progressive International. Era venuta a tenere il posto a Jeremy Corbyn e Jean-Luc Melenchon. Altri membri della sua organizzazione sono arrivati un po’ alla volta. Poi, con l’avvicinarsi delle 6 del mattino, è iniziata una piccola inondazione di persone, molte delle quali con bandiere palestinesi e kefiah.
Faceva davvero molto freddo. Dopo quattro ore le mie dita dei piedi erano passate da essere molto doloranti a non avere più sensibilità e le dita delle mani non rispondevano più. Come spesso accade, dalle 5 del mattino il freddo è diventato sempre più pungente. Melenchon e Corbyn sono arrivati alle 5.30 per prendere posto nella fila, Melenchon più loquace che mai, sveglissimo, felice di incontrare tutti e di tenere lezioni di economia e di organizzazione della società a chiunque volesse ascoltarlo. Poiché il mio cervello si era ormai congelato, questo non includeva me. Anche Jeremy era tipicamente Jeremy, preoccupato di non voler prendere il posto di nessuno in coda.
Poi, quando sono iniziati i preparativi per l’apertura del cancello dall’altra parte, le cose hanno preso una piega sgradevole. Quelli di noi che erano stati lì tutta la notte conoscevano il nostro ordine di arrivo, ma abbiamo cominciato ad essere sommersi dai ritardatari che ci circondavano per scavalcarci e raggiungere il cancello. Ho dovuto impormi per cercare di smistare la fila. Gli attivisti tra la folla hanno contestato il mio atteggiamento, sostenendo che il criterio per entrare non doveva essere l’orario di arrivo, ma che bisognava cedere i posti ai palestinesi.
Il tutto si è fatto stressante. Una signora palestinese svedese che si trovava subito dopo il 14° posto in coda ha cominciato a manifestare una grande angoscia all’idea di non essere ammessa, e un paio di signori palestinesi che erano arrivati dopo le 6 hanno iniziato a spingere con determinazione per scavalcare la coda. Ho fatto un piccolo contro-discorso spiegando che eravamo tutti lì per sostenere i palestinesi, ma nessuno di noi conosceva le storie degli altri e la questione dell’utilità della presenza di qualcuno per la causa palestinese era importante quanto la gratificazione dei sentimenti individuali di chi si sentiva terribilmente offeso.
Il tunisino timido è stato sostituito nella coda dall’ex presidente tunisino a cui aveva tenuto il posto, un uomo molto piacevole e riservato, ma il tempismo non ha aiutato la situazione. Alla fine siamo stati ammessi in gruppi di cinque e controllati. Una delle signore olandesi che era stata la prima ad arrivare ha lasciato il suo posto a un palestinese. Me ne sono andato stringendo il mio pass, il numero 9, sono tornato in albergo e mi sono immerso in un bagno caldo. Il dolore alle dita dei piedi e delle mani mentre si scongelavano è stato davvero sgradevole.
Poi abbiamo fatto rapidamente ritorno alle 9 del mattino per essere sottoposti a un’esagerata serie di controlli di sicurezza e alla rimozione dei micidiali portafogli e penne. Infine siamo stati scortati nella galleria pubblica.
Il Palazzo della Pace fu edificato da Andrew Carnegie, un personaggio di straordinaria complessità morale, un perfido monopolista e capitalista e di incredibile successo che desiderava anche porre fine a tutte le guerre e migliorare la vita dei poveri ovunque. L’aspetto fiabesco del palazzo, con la follia di una torre appollaiata su una altra torre, smentisce la sua struttura in acciaio e cemento, e all’interno potrebbe essere una qualsiasi grande sala comunale in Scozia, con piastrelle in maiolica e solidi arredi Armitage Shanks nei bagni. Sorprendentemente, l’edificio è ancora di proprietà e gestito dalla Carnegie Foundation.
Per essere un edificio costruito come tribunale mondiale, stranamente non sembra contenere un’aula di tribunale. La Grande Aula è solo una grande sala vuota, che occupa un’ala laterale dell’edificio. Una pedana relativamente moderna, semplice e leggermente arcuata, è stata disposta su tutta la lunghezza della sala e ospita un lungo tavolo e diciassette sedie per i giudici, ma sembra una struttura provvisoria, come se potesse essere portata via e l’edificio utilizzato per i matrimoni. Le parti in causa erano sedute su semplici sedie impilabili disposte nel corpo della sala sotto la pedana, anche in questo caso più da matrimonio che da tribunale. Sopra i giudici si estende un’imponente vetrata, dai colori sgargianti e di qualità piuttosto dubbia.
Ho scritto della mia fiducia nella Corte Internazionale di Giustizia, nella sua storia di imparzialità di giudizio e nel suo sistema di elezione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La Corte internazionale di Giustizia è stata ingiustamente offuscata dalla reputazione della sua sorella minore, la Corte Penale Internazionale. La Corte Penale Internazionale viene giustamente derisa come uno strumento dell’Occidente, ma questo non è vero per la Corte Internazionale di Giustizia. Solo per quanto riguarda la Palestina, ha stabilito che il “muro” israeliano in Cisgiordania è illegale e che Israele non ha il diritto di autodifesa nel territorio di cui è la potenza occupante. E ha stabilito che il Regno Unito deve decolonizzare le isole Chagos, una causa che mi sta molto a cuore.
C’erano tutte le ragioni per cui noi che ci opponiamo al genocidio avessimo viaggiato speranzosi fino all’Aia.
Oltre ai normali quindici giudici della corte, ciascuna delle parti in causa – Sudafrica e Israele – aveva esercitato il diritto di nominare un giudice aggiuntivo. Dopo che i giudici si sono presentati in tribunale, il procedimento è iniziato con il giuramento di imparzialità da parte di questi due giudici, che ci hanno fornito la prima bugia israeliana del caso prima ancora che iniziasse.
La nomina di Aharon Barak a giudice israeliano della Corte Internazionale di Giustizia è sorprendente, dal momento che, in qualità di presidente della Corte Suprema di Israele, si è rifiutato di applicare la sentenza della CIG sull’illegalità del muro, affermando di conoscere i fatti meglio della CIG. Barak ha una lunghissima storia di accettazione di tutte le forme di repressione dei palestinesi da parte delle Forze di Difesa Israeliane, considerate legali per la “sicurezza nazionale”, e in particolare si è ripetutamente rifiutato di pronunciarsi contro il programma israeliano di lunga data di demolizioni di case palestinesi come forma di punizione collettiva. Questo si traduce direttamente nella distruzione delle infrastrutture civili a Gaza.
Barak è considerato un “liberale” in Israele nella lotta costituzionale tra potere giudiziario ed esecutivo. Ma questo vale per la possibilità che la corruzione di Netanyahu possa rimanere impunita, non per i diritti dei palestinesi. Nominando il suo apparente avversario Barak alla Corte Internazionale di Giustizia, Netanyahu ha dato prova della sua tipica astuzia. Se Barak si pronuncerà contro Israele, Netanyahu potrà affermare che i suoi avversari interni sono traditori della sicurezza nazionale. Se Barak si pronuncerà a favore di Israele, Netanyahu potrà affermare che i liberali israeliani sostengono la distruzione di Gaza.
Credo che assisteremo a quest’ultima affermazione.
Ero seduto nella galleria del pubblico e l’osservazione dei diciassette giudici ha occupato gran parte del mio tempo durante l’udienza. Sono stati usati fiumi d’inchiostro in supposizioni su chi penderà di qua o di là. Si presume troppo facilmente che saranno influenzati dai loro governi nazionali. La cosa varia da giudice a giudice.
La presidente della corte, Joan Donoghue, è una scribacchina del Dipartimento di Stato americano e di Clinton che non ha mai avuto un’idea originale in vita sua e mi stupirei se iniziasse ora. Mi aspettavo di vedere i fili che la muovono spuntare da dei buchi nel magnifico soffitto in legno della sala rivestito di profondi rilievi. Ma altri sono più enigmatici.
Non c’è stata élite nazionale più rabbiosamente anti-palestinese di quella tedesca. Piuttosto che incanalare gli innati sensi di colpa in un’opposizione al genocidio in generale, sembrano aver concluso che devono promuovere genocidi alternativi per fare ammenda. Inoltre, il giudice tedesco della Corte Internazionale di Giustizia, Nolte, non gode di una reputazione liberale. Ma amici a Monaco mi dicono che Nolte ha un interesse particolare per il diritto dei conflitti armati ed è un fanatico del rigore intellettuale. La loro opinione è che la sua autostima professionale sarà il fattore chiave, e questo punta in un’unica direzione rispetto a ciò che le Forze di Difesa Israeliane hanno fatto in modo così sfacciato alla popolazione civile di Gaza.
D’altra parte, c’è un giudice ugandese alla Corte internazionale di Giustizia di cui si potrebbe supporre che si allinei con il Sudafrica. Ma l’Uganda, per ragioni che francamente non riesco a spiegarmi, si è unita agli Stati Uniti e a Israele nell’opporsi all’adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale, con la motivazione che la Palestina non è un vero Stato. Allo stesso modo, ci si potrebbe aspettare che l’India sostenga il Sudafrica, in quanto membro chiave dei BRICS. Ma l’India ha anche un governo nazionalista indù incline a un’odiosa islamofobia. Non ho trovato nessuna informazione sui provvedimenti del giudice Bhandari nel suo paese in merito a questioni intercomunitarie.
Ma mi è stato suggerito che nel caso presente, ora all’esame della Corte mondiale, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite potrebbe essersi data la zappa sui piedi sostituendo un particolare giudice britannico con un indiano, un’elezione vista all’epoca come un trionfo delle Nazioni Unite per il mondo in via di sviluppo. Il punto è che queste questioni sono molto complicate e molte delle analisi che ho letto, anche da parte di alcuni cari colleghi, le ho trovate semplicistiche.
Non solo la Grande Aula di Giustizia non è attrezzata come aula di tribunale, ma per essere un Tribunale Mondiale la tribuna del pubblico è minuscola. È su un lato della sala, alta abbastanza da uccidere se si cade dal bordo della balconata, e ha solo due file di posti a sedere. Inoltre, le poltrone, di quelle da teatro, hanno cent’anni e sono in uno stato di quasi sfondamento. Ci si ritrova con le natiche a una ventina di centimetri da terra, le poltrone ormai pendono in avanti in modo tale che le cosce si trovino a una decina di centimetri dal pavimento e l’intero aggeggio vi proietta in avanti e oltre il bordo. Invece di riparare le poltrone, la Fondazione Carnegie ha fissato un robusto cavo da una parete all’altra sopra il parapetto della balconata, di fatto un secondo parapetto che offre una quindicina di centimetri di protezione in più.
Con un terzo della galleria del pubblico oscurata per ospitare la proiezione audiovisiva e la trasmissione web in streaming, i posti disponibili erano solo 24. Noi eravamo i 14 in coda e gli altri erano riservati ai rappresentanti delle principali ONG e organizzazioni delle Nazioni Unite, come Human Rights Watch e l’Organizzazione Mondiale della Sanità. A loro sono state concesse delle penne, poiché ritenuti abbastanza rispettabili da non usarle per ucciderci qualcuno. Era possibile che a un certo punto io avessi potuto procurarmi una penna da uno di loro, ovviamente solo per assisterli. O forse no: è molto difficile capire cosa si intenda al giorno d’oggi per terrorismo.
Il Sudafrica ha esordito con le dichiarazioni del suo ambasciatore e del suo ministro della Giustizia Ronald Lamola, e ha esordito con il botto. Mi aspettavo che il Sudafrica iniziasse con un po’ di piaggeria sulla condanna di Hamas e la solidarietà con Israele per il 7 ottobre, ma no. Nei primi trenta secondi il Sudafrica ha lanciato contro Israele sia la parola “Nakba” che l’espressione “Stato di apartheid”. Abbiamo dovuto aggrapparci alle nostre poltrone ondeggianti. Stava per succedere qualcosa.
Il Ministro della Giustizia Lamola se n’è uscito con la prima frase memorabile del caso. I palestinesi hanno subito “75 anni di apartheid, 56 anni di occupazione, 13 anni di blocco”. Un colpo maestro. Prima di passare la parola al team legale, gli “agenti” dello Stato sudafricano, secondo la definizione che ne da lo statuto della Corte, hanno fornito l’impianto dell’argomentazione. Questa ingiustizia, e la storia stessa, non sono iniziate il 7 ottobre. C’è un secondo importante punto di valutazione. Il Sudafrica ha sottolineato che, affinché la richiesta di “misure provvisorie” fosse accolta, in questa fase non era necessario dimostrare che Israele stesse commettendo un genocidio. Bastava dimostrare che le azioni di Israele erano prima facie tali da rientrare nel reato di genocidio secondo i termini della Convenzione sul genocidio.
Il team legale ha quindi iniziato con l’Avvocata Adila Hassim, che ha sottolineato che Israele ha violato l’Articolo 2 della Convenzione sul genocidio: a), b), c) e d).
Articolo 2
Nella presente Convenzione, per genocidio si intende uno dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso:
a) uccidere membri del gruppo
b) causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo;
c) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica, totale o parziale;
d) imporre misure intese a impedire le nascite all’interno del gruppo;
e) trasferire con la forza bambini del gruppo ad un altro gruppo.
Su a), uccisione di palestinesi, ha esposto i semplici fatti, senza fronzoli. 23.200 palestinesi sono stati uccisi, il 70% dei quali donne e bambini. Oltre 7.000 dispersi, presumibilmente morti sotto le macerie. Per oltre 200 volte, Israele aveva sganciato bombe da 2.000 libbre proprio nelle aree residenziali del sud di Gaza in cui era stato ordinato ai palestinesi di evacuare. 60.000 persone rimaste gravemente ferite. 355.000 case danneggiate o distrutte. Ciò che si è potuto osservare è un modello di condotta di fatto consistente con un intento genocida.
L’Avvocata Hassim era particolarmente calma e misurata nelle parole e nella sua esposizione. Ma a volte, quando descriveva le atrocità, in particolare contro i bambini, la sua voce tremava un po’ per l’emozione. I giudici, generalmente insofferenti (su cui ci sarà molto da dire in seguito), hanno alzato gli occhi e prestato maggiore attenzione.
L’avvocato successivo, Tembeka Ngcukaitobi (oggi ha parlato solo il Sudafrica) ha affrontato la questione dell’intento genocida. Il suo compito è stato forse il più facile, perché ha potuto raccontare numerosi casi di ministri, alti funzionari e ufficiali militari israeliani che si sono riferiti ai palestinesi definendoli “animali” e chiedendo la loro completa eliminazione e quella della stessa Gaza, sottolineando che non ci sono civili palestinesi innocenti.
Ciò che Ngcukaitobi ha fatto particolarmente bene è stato sottolineare l’effettiva trasmissione di queste idee genocide dai vertici del governo alle truppe sul campo, che hanno citato le stesse frasi e idee genocide nel filmare se stessi mentre commettevano e giustificavano le atrocità. Sottolinea che il governo israeliano ha ignorato il suo obbligo di prevenire e agire contro l’incitamento al genocidio sia nella cultura ufficiale che in quella popolare.
Si è concentrato in particolare sull’invocazione di Netanyahu del destino di Amalek e sull’effetto dimostrabile di questa mossa sulle opinioni e le azioni dei soldati israeliani. I ministri israeliani, ha detto, non possono più negare l’intento genocida delle loro parole. Se non lo pensavano, non avrebbero dovuto dirlo.
Il venerabile ed eminente professor John Dugard, una figura impressionante nel suo sgargiante camice scarlatto, ha poi affrontato le questioni della giurisdizione della Corte e dello status del Sudafrica per perorare il caso – è probabile che Israele si affiderà molto agli argomenti tecnici per cercare di dare ai giudici una via di fuga. Dugard ha sottolineato gli obblighi di tutti gli Stati firmatari della Convenzione sul genocidio di agire per prevenire il genocidio e la sentenza della Corte.
Dugard ha citato l’articolo VIII della Convenzione sul Genocidio e ha letto per intero il paragrafo 431 della sentenza della Corte nella causa Bosnia contro Serbia.
Questo ovviamente non significa che l’obbligo di prevenire il genocidio sorga solo quando inizia la perpetrazione del genocidio; sarebbe assurdo, poiché l’intero scopo dell’obbligo è quello di prevenire, o tentare di prevenire, il verificarsi dell’atto. Infatti, l’obbligo di prevenzione e il corrispondente dovere di agire sorgono nel momento in cui lo Stato viene a conoscenza, o dovrebbe normalmente venire a conoscenza, dell’esistenza di un serio rischio di genocidio. Da quel momento in poi, se lo Stato ha a disposizione mezzi in grado di avere un effetto deterrente su coloro che sono sospettati di preparare un genocidio, o ragionevolmente sospettati di avere un intento specifico (dolus specialis), ha il dovere di utilizzare tali mezzi nella misura in cui le circostanze lo consentono.
I giudici hanno apprezzato particolarmente i punti di Dugard, sfogliando animatamente i documenti e sottolineandone dei punti. Per loro, avere a che fare con migliaia di bambini morti è stato un po’ difficile, ma con la presentazione di un buon appiglio giuridico si sono ritrovati nel loro elemento.
Poi c’è stato il professor Max du Plessis, il cui modo di parlare particolarmente diretto e semplice ha portato una nuova energia ai lavori. Ha detto che i palestinesi chiedono alla Corte di proteggere il più elementare dei loro diritti: il diritto di esistere.
I palestinesi hanno subito 50 anni di oppressione e Israele per decenni si è considerato al di sopra e al di là della portata della legge, ignorando sia le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia che le risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Questo contesto è importante. Gli individui palestinesi hanno il diritto di esistere tutelati in quanto membri di un gruppo ai sensi della Convenzione sul genocidio.
Il caso del Sudafrica era fondato sul rispetto del diritto internazionale e si basava sul diritto e sui fatti. Il Sudafrica aveva deciso di non mostrare alla corte i video e le foto delle atrocità, che erano molte migliaia. Il loro caso era basato sul diritto e sui fatti, non aveva bisogno di introdurre shock ed emozioni e di trasformare la corte in un teatro.
Questo è stato un colpo accorto di Du Plessis. Le udienze erano state inizialmente programmate per due ore per parte. Ai sudafricani era stato detto, molto tardi, che la durata era stata aumentata a tre perché gli israeliani insistevano nel mostrare il video dell’atrocità del 7 ottobre, della durata di un’ora. Ma in realtà le linee guida della corte riflettono una resistenza di lunga data a questo tipo di materiale di cui deve essere fatto un uso ” ristretto”. Se 23.000 persone sono morte, non aggiunge forza intellettuale mostrarne i corpi, e lo stesso vale per i 1.000 morti del 7 ottobre. Du Plessis ha concluso che la distruzione delle infrastrutture palestinesi che sostengono la vita umana, lo spostamento dell’85% dei residenti in aree sempre più piccole dove vengono ancora bombardati, sono tutti esempi evidenti di intento genocida.
Ma senza dubbio il momento clou dell’intera mattinata è stata la sorprendente presentazione dell’avvocata irlandese KC Blinne Ni Ghràlaigh. Il suo compito è stato quello di dimostrare che se la Corte non avesse ordinato “misure provvisorie”, il danno sarebbe stato irreparabile.
Ci sono momenti in cui uno scrittore deve ammettere la sconfitta. Non riesco a esprimere adeguatamente l’impressione che ha fatto in quell’aula di tribunale. Come il resto della squadra, ha evitato la pornografia delle atrocità e ha esposto i semplici fatti in modo chiaro ed elegante. Ha adottato lo stratagemma usato da tutta la squadra sudafricana, di non usare lei stessa un linguaggio emotivo, ma di citare a lungo il linguaggio profondamente emotivo di alti funzionari delle Nazioni Unite. La sua descrizione dei decessi giornalieri, suddivisi per tipologia, è stata devastante.
Vi invito semplicemente ad ascoltarla. “Ogni giorno a più di dieci palestinesi vengono amputati uno o più arti, molti senza anestesia…”.
Ora dovrei scrivere di più sul tribunale. La delegazione sudafricana sedeva accanto ai propri avvocati sulla destra della Corte, quella israeliana sulla sinistra, ciascuna di circa 40 persone. I sudafricani erano colorati, con sciarpe della bandiera sudafricana e kefiah drappeggiate sulle spalle. C’era un misto di sudafricani e palestinesi, con il viceministro degli Esteri dell’Autorità Palestinese Amaar Hijazi in primo piano, cosa che mi ha fatto piacere vedere. La delegazione sudafricana era vivace e reciprocamente solidale, con un linguaggio del corpo molto inclusivo e un’animazione diffusa.
La delegazione israeliana era l’opposto dell’animazione. Sembrava severa e sdegnosa: era come se i suoi componenti avessero ricevuto l’ordine di andare avanti con qualche occupazione e non si fossero accorti di quanto stava accadendo. Erano generalmente giovani e credo che il termine sicumera ne dia una descrizione corretta. Mentre l’Avv. Blinne parlava, sembravano particolarmente desiderosi di assicurarsi che tutti potessero vedere che non stavano ascoltando.
Dal linguaggio del corpo non si sarebbe detto che fosse Israele ad essere accusato. In realtà, le uniche persone in aula il cui comportamento era particolarmente equivoco e colpevole erano i giudici. Sembrava proprio che non volessero essere lì. Sembravano profondamente a disagio, si agitavano e armeggiavano spesso con i fogli e raramente guardavano direttamente gli avvocati che parlavano.
Mi è venuto in mente che coloro che in realtà non volevano essere presenti nella Corte erano i giudici, perché in realtà sono i giudici e la Corte stessa ad essere sotto processo. Il fatto del genocidio è incontrovertibile ed è stato chiaramente esposto. Ma molti dei giudici cercano disperatamente di trovare un modo per compiacere gli Stati Uniti e Israele ed evitare di contrastare l’attuale narrazione sionista, la cui adozione è necessaria per mantenere i piedi comodamente sotto il tavolo dell’élite. Cosa conta di più per loro, la comodità personale, le sollecitazioni della NATO, le future ricche sinecure? Sono disposti ad abbandonare qualsiasi nozione reale di diritto internazionale per queste cose? Questa è la vera domanda che si pone la Corte. E’ la Corte Internazionale di Giustizia ad essere sotto processo.
Durante l’intervento della Blinne, la Presidente della Corte si è improvvisamente interessata al suo sgargiante iPad rosso, del colore di uno smalto particolarmente brillante. Questo è accaduto più volte durante l’udienza, e non sono mai riuscito a collegare queste apparizioni dell’iPad con ciò che era stato appena discusso: non è che siano stati citati casi o documenti da consultare, per esempio.
L’ultimo oratore per il team legale sudafricano è stato Vaughn Lowe, che ha avuto il delicato compito di controbattere la difesa di Israele, che è stata tenuta segreta alla Corte fino alla sua presentazione. Contrastare argomentazioni che non si sono ancora viste è una sfida insidiosa, e per me questo è stato il tour de force legale dell’intera mattinata. La performance di Vaughn Lowe è stata eccezionale.
Ha iniziato affermando che il Sudafrica era legittimato a presentare il caso, ripetendo i punti di Durand sul dovere degli Stati di agire per prevenire il genocidio ai sensi della Convenzione sul genocidio. Ha detto che c’era una controversia nei termini della Convenzione, sul fatto che si fosse verificato o meno un genocidio. Il Sudafrica aveva inquadrato questa controversia in una serie di Note Diplomatiche Verbali inviate al governo israeliano e alle quali non era stata data una risposta soddisfacente.
Lowe ha detto che è stato riconosciuto che una serie di singoli incidenti sono stati indagati dalla Corte Penale Internazionale come crimini di guerra, ma l’esistenza di altri crimini non preclude la loro appartenenza a un più ampio genocidio. Il genocidio è un crimine che, per sua natura, tende ad accompagnarsi ad altri crimini di guerra commessi a favore del genocidio.
Infine Lowe ha detto che il genocidio non è mai giustificato. È assoluto, un crimine in sé. Per quanto spaventose siano le atrocità commesse da Hamas contro Israele o i cittadini israeliani, una risposta genocida non è appropriata e non potrà mai esserlo.
Vaughn Lowe ha dichiarato che il Sudafrica ha chiesto di agire contro Israele e non contro Hamas, semplicemente perché Hamas non è uno Stato e quindi non è soggetto alla giurisdizione della Corte. Ma il fatto che la Corte non possa agire contro Hamas non deve impedirle di agire contro Israele per prevenire l’attuale e urgente pericolo di genocidio. Né la Corte deve lasciarsi influenzare dalle offerte israeliane di moderazione volontaria. Il mancato riconoscimento da parte di Israele di qualsiasi illecito nelle sue azioni per “ridurre Gaza in polvere” ha dimostrato che non ci si può fidare di alcuna assicurazione di rettifica del comportamento, in quanto Israele ritiene di non aver commesso alcun errore.
La sessione si è conclusa con l’ambasciatore sudafricano che ha ribadito le misure provvisorie che il Sudafrica desiderava fossero imposte dalla Corte. Che sono le seguenti:
(1) Lo Stato di Israele sospenderà immediatamente le sue operazioni militari a Gaza e contro Gaza.
(2) Lo Stato di Israele dovrà garantire che qualsiasi unità armata militare o irregolare che possa essere diretta, sostenuta o influenzata da esso, nonché qualsiasi organizzazione e persona che possa essere soggetta al suo controllo, alla sua direzione o alla sua influenza, non intraprenda alcuna azione a favore delle operazioni militari di cui al punto (1).
(3) La Repubblica del Sudafrica e lo Stato di Israele, in conformità con gli obblighi assunti ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, in relazione al popolo palestinese, adotteranno tutte le ragionevoli misure in loro potere per prevenire il genocidio.
(4) Lo Stato d’Israele, in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, in relazione al popolo palestinese in quanto gruppo protetto dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, desista dal commettere qualsiasi atto che rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo II della Convenzione, in particolare:
(a) uccidere membri del gruppo
(b) causare gravi danni fisici o mentali ai componenti del gruppo;
(c) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale; e
(d) imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo.
(5) Ai sensi del punto (4)(c) di cui sopra, lo Stato di Israele deve, in relazione ai Palestinesi, desistere da, e prendere tutte le misure in suo potere, compresa la revoca di ordini pertinenti, di restrizioni e/o di divieti per prevenire:
(a) l’espulsione e il trasferimento forzato dalle loro case;
(b) la privazione di:
(i) accesso a cibo e acqua adeguati;
(ii) accesso all’assistenza umanitaria, compreso l’accesso a combustibile, riparo, vestiti, igiene e servizi igienici adeguati;
(iii) di forniture e assistenza medica; e
(c) la distruzione della vita palestinese a Gaza.
(6) Lo Stato d’Israele, in relazione ai palestinesi, deve garantire che le sue forze armate, così come le unità armate irregolari o gli individui che possono essere diretti, sostenuti o altrimenti influenzati da esso e le organizzazioni e le persone che possono essere soggette al suo controllo, alla sua direzione o alla sua influenza, non commettano gli atti descritti nei precedenti punti (4) e (5), o si impegnino nell’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, nella cospirazione per commettere genocidio, nel tentativo di commettere genocidio o nella complicità in genocidio, e, nel caso in cui si impegnino in tali atti, che vengano prese misure per la loro punizione ai sensi degli articoli I, II, III e IV della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.
(7) Lo Stato di Israele adotterà misure efficaci per prevenire la distruzione e garantire la conservazione delle prove relative alle accuse di atti che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo II della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio; a tal fine, lo Stato di Israele non agirà per negare o limitare in altro modo l’accesso delle missioni di accertamento dei fatti, dei mandati internazionali e di altri organismi a Gaza per contribuire a garantire la conservazione di tali prove.
(8) Lo Stato d’Israele presenterà alla Corte una relazione su tutte le misure adottate per dare esecuzione alla presente ordinanza entro una settimana dalla data della presente ordinanza e, in seguito, a intervalli regolari come la Corte ordinerà, fino a quando la Corte non avrà emesso una decisione definitiva sul caso.
(9) Lo Stato di Israele si asterrà da qualsiasi azione e farà in modo che non venga intrapresa alcuna azione che possa aggravare o estendere la controversia davanti alla Corte o rendere più difficile la sua risoluzione.
Con questo abbiamo chiuso l’argomentazione. A seguire, la risposta di Israele.
Traduzione: Leila Buongiorno