L’armadio della speranza del popolo palestinese è pieno di discorsi, parole e risoluzioni, ma vuoto di fatti. Lo è ora più che mai.
Fonte: Versión española
di Jorge Ramos Tolosa – 5 febbraio 2024
Immagine di copertina: Incontro alla Casa Bianca tra il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin (a sinistra) e il leader dell’OLP Yasser Arafat (a destra) con Bill Clinton (al centro) nel 1993 – La Casa Bianca
Il lessico va cambiato: questo è l’ennesimo capitolo – il più terribile – di una storia di colonizzazione e decolonizzazione.
In molti settori viene ancora aggirato. Vale la pena insistere sul fatto che il lessico deve essere cambiato. La chiave per comprendere e porsi rispetto all’attuale genocidio israeliano in Palestina è che si tratta dell’ennesimo capitolo – il più terribile – di una storia di colonizzazione e decolonizzazione. Una storia di colonizzazione sionista-israeliana che non rappresenta l’ebraismo o le comunità ebraiche e che mira a dominare il maggior territorio possibile con la minor quantità possibile di popolazione palestinese autoctona.
Questo progetto coloniale sionista ottenne una grande vittoria nel 1948 con la creazione dello Stato di Israele e la pulizia etnica della Palestina – la Nakba – ma non si esaurì in quell’anno. La colonizzazione, la pulizia etnica e l’apartheid continuano 76 anni dopo. Come stiamo vedendo con l’attuale episodio di genocidio, il meglio documentato audiovisivamente dalle sue vittime e dai suoi perpetratori, la Nakba continua. Così come i tentativi del popolo palestinese di decolonizzare la propria terra. E nonostante tutto il dolore, il sacrificio e la sofferenza immaginabili e inimmaginabili da parte del popolo palestinese, il progetto coloniale sionista-israeliano, basato sulla sicurezza e la stabilità per i suoi coloni e i loro investimenti capitalistici, diventa ogni giorno più insicuro, instabile e insostenibile.
Per colonizzare e commettere un genocidio, bisogna cercare di disumanizzare il popolo colonizzato dall’inizio alla fine.
Dalla sua nascita, alla fine del XIX secolo, fino ai giorni nostri, i leader del movimento sionista e dello Stato di Israele, come progetto vigente di colonialismo di insediamento, hanno usato e continuano a usare il linguaggio razzista comune ad altre esperienze coloniali europee. Spesso presenta i bianchi come portatori di civiltà e i non bianchi come rappresentanti della barbarie.
Il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, scrisse nel 1896 che il futuro Stato sionista sarebbe stato: “Una parte del muro difensivo europeo in Asia, un avamposto di civiltà contro la barbarie”. Alcuni anni dopo, Herzl volle legittimare il suo progetto coloniale presentando una parte della Palestina in questo modo: “I campi sembravano bruciati e gli abitanti degli anneriti villaggi arabi sembravano banditi”. Nel 1914, l’illustre sionista sedicente “socialista” Moshe Smilansky disse: “Abbiamo a che fare con gente semi-selvaggia che ha concetti estremamente primitivi. E questa è la loro natura. […] Tra gli arabi sono diffusi valori di base […] come la menzogna e l’imbroglio”.
Allo stesso modo, Chaim Weizmann, che tre decenni dopo sarebbe diventato il primo presidente dello Stato di Israele, rispose alla domanda su cosa intendesse fare con la popolazione palestinese: “Gli inglesi ci avevano detto che lì c’erano alcune centinaia di migliaia di “kushim” (negri) che non contavano niente”. Weizmann ha anche commentato che “l’arabo è primitivo e crede a ciò che gli si dice”. In questo quadro, anche se coniato in precedenza, si afferma lo slogan sionista “un popolo senza terra per una terra senza popolo”.
Nel penultimo anno della Prima Guerra Mondiale, dopo aver segretamente spartito con la Francia gran parte dei domini ottomani tra la Persia e il Mediterraneo (Accordo Sykes-Picot del 1916), il Regno Unito annette la Palestina ottomana all’Impero Britannico manifestando una connivenza col movimento sionista, seppur in modo ambiguo, con la Dichiarazione Balfour del 1917. Il potere imperiale britannico fornì un sostegno strutturale determinante alla colonizzazione sionista e alla segregazione (apartheid) della popolazione bianca dei coloni dalla popolazione palestinese autoctona sotto il Mandato Britannico, che durò fino al 1948. La causa sionista era ormai associata all’imperialismo nord-atlantico che, guidato prima dal Regno Unito e dopo la Seconda Guerra Mondiale dagli Stati Uniti, avrebbe utilizzato il territorio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo come piattaforma per il suo dominio e la sua espansione in una regione chiave al crocevia tra Africa, Asia ed Europa.
Ai giorni nostri, con lo storico pronunciamento della Corte internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite lo scorso 26 gennaio 2024, che ha accolto la richiesta sudafricana, dichiarandosi competente a indagare e ha chiesto allo Stato di Israele misure concrete per prevenire il genocidio, è stata fatta menzione dei discorsi razzisti di disumanizzazione utilizzati dalle autorità israeliane. Come in altri episodi storici, la divulgazione di propositi razzisti di disumanizzazione è stata un elemento imprescindibile del genocidio, sia prima che durante la sua attuazione.
Tra le innumerevoli dichiarazioni simili, il 9 ottobre 2023 il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha ordinato la perpetrazione di crimini di guerra a Gaza affermando “stiamo combattendo contro animali umani”. Settimane dopo, il ministro del Patrimonio e degli Affari di Gerusalemme Amihai Eliyahu ha difeso la pulizia etnica della popolazione palestinese di Gaza affermando che “i mostri di Gaza possono andare in Irlanda o nei deserti”, sostenendo che l’uso di armi nucleari da parte di Israele a Gaza era “una delle possibilità”, cosa che ha ribadito nel gennaio 2024.
L’origine della “soluzione dei due Stati”: coloniale, iniqua e una cortina fumogena per nascondere l’obiettivo finale sionista-israeliano di espansione territoriale e di espulsione della popolazione autoctona.
È stato nel contesto del Mandato Britannico della Palestina, tra il 1917-1923 e il 1948, che gli episodi di resistenza palestinese si sono moltiplicati e quella che oggi viene chiamata “soluzione dei due Stati” è stata proposta ufficialmente per la prima volta. Le prime proteste anticoloniali palestinesi risalgono agli anni Ottanta del XIX secolo e contavano già una presenza di donne. Alcune delle prime organizzazioni sociali palestinesi dall’inizio della colonizzazione erano organizzazioni esclusivamente femminili, come la Società di Soccorso Ortodossa, che si riunì per la prima volta nel 1903 ad Acri.
Nel 1929, la creazione dell’Associazione delle Donne Arabe segnò la nascita di un movimento nazionale, consolidato e stabile, di donne palestinesi. Questo movimento è andato di pari passo con il grande fermento politico palestinese degli anni ’30, che ha visto la formazione di partiti di massa come Istiqlal e innumerevoli proteste contro il colonialismo sionista e britannico. La mobilitazione anticoloniale e nazionale raggiunse il suo apice con la Grande Rivolta Palestinese tra il 1936 e il 1939.
Questo storico episodio di resistenza palestinese fu preceduto dalla guerriglia dell’organizzazione al-Kaff al-Aswad, guidata da Izz ad-Din al-Qassam, la cui morte per mano britannica diede origine al primo grande martire della resistenza palestinese e più di mezzo secolo dopo ispirò il nome del braccio armato di Hamas. La Grande Insurrezione Palestinese, coordinata dal Supremo Comitato Arabo, iniziò nella primavera del 1936 con uno sciopero generale che durò sei mesi, diventando il più lungo sciopero generale mai avvenuto in un territorio coloniale. L’obiettivo dei palestinesi era quello di ottenere che il Mandato Britannico fermasse la colonizzazione sionista e indicesse elezioni democratiche per la formazione di un governo nazionale che portasse all’indipendenza del Paese. Quasi novant’anni dopo, il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione è ancora negato.
Fu in questo contesto, in cui le autorità del Mandato Britannico in Palestina non solo respinsero tutte le richieste palestinesi, ma collaborarono con le organizzazioni paramilitari sioniste per reprimere la Grande Insurrezione, che il Regno Unito nominò una commissione per formulare in maniera formale quella che sarebbe poi stata chiamata la “soluzione dei due Stati” o “partizione” della Palestina. Come per la Dichiarazione Balfour, le popolazioni direttamente interessate non furono consultate. La Commissione Peel raccomandò nel 1937 di dividere la Palestina in un cosiddetto Stato “ebraico” e in uno Stato “arabo”, quest’ultimo collegato alla Transgiordania, un’altra colonia britannica la cui massima autorità era un fantoccio del Regno Unito, Amir Abdullah.
Raccomandava inoltre che i britannici rimanessero in diverse località strategiche e menzionava la possibilità di uno “scambio di popolazione”, ossia l’espulsione della popolazione palestinese. Sebbene non sia stata attuata, la sua proposta di spartizione, in seguito chiamata anche “spartizione in due Stati” salì alla ribalta internazionale tra le possibili soluzioni alla colonizzazione della Palestina.
In seguito, abilmente, David Green (leader del movimento sionista nato nella città polacca di Plonsk e che aveva cambiato il suo nome in “David Ben Gurion” per “ebraicizzarlo”), accettò discorsivamente la partizione/due Stati come una strategia di primo passo che non avrebbe mai accettato nella pratica. Green/Ben Gurion dichiarò che se accettava la spartizione era per ottenere la legittimazione di uno Stato dal quale, secondo le sue parole: “Annulleremo la spartizione del Paese e ci espanderemo in tutta la Terra d’Israele”. Allo stesso modo, nel 1937, scrisse: “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto […] e se è necessario usare la forza […] abbiamo la forza necessaria”.
Per Vladimir Yevgenyevich Žabotinskij (che aveva anche lui “ebraicizzato” il suo nome per diventare noto come Ze’ev “lupo” Jabotinsky ed era alla guida del sionismo revisionista-destra-ultradestra, la cultura politica da cui deriva il Likud di Benjamin Netanyahu): “L’anima islamica deve essere spazzata via da Eretz Israel. Essi (arabi e musulmani) sono un’orda vociante vestita di stracci sporchi”. Il movimento sionista si preparò al momento chiave, che sarebbe arrivato con l’intervento dell’ONU a suo favore nel 1947 e la fine del Mandato Britannico nel 1948.
Così, nel 1947, il Regno Unito consegnò il problema della colonizzazione della Palestina alla neonata ONU. Il movimento sionista era riuscito a creare un pre-stato coloniale o uno Stato coloniale parallelo al Mandato Britannico e, nonostante il sostegno ricevuto, dal 1944 aveva attaccato le truppe e le infrastrutture britanniche per indurle a lasciare la Palestina. La partizione/due Stati rimase la proposta strategica del sionismo sedicente “socialista” guidato da Green/Ben Gurion, la maggioranza del movimento sionista. Nel 1947, l’ONU aveva meno di due anni e lo scenario coloniale in Palestina era il primo grande problema internazionale che affrontava in tutta la sua ampiezza.
Dietro la retorica internazionalista di libertà e diritti dell’organizzazione si nascondeva un’alleanza tra le grandi potenze per perpetuare il loro dominio imperiale, il tutto in una forma rinnovata e con una nuova retorica. Come sintetizzò l’intellettuale afroamericano William E. B. Du Bois all’uscita dalla Conferenza di San Francisco in cui fu fondata l’ONU: “Abbiamo vinto la Germania […] ma non le sue idee […] crediamo ancora nella supremazia bianca, nel tenere i neri ‘al loro posto’ e nel mentire sulla democrazia quando ci riferiamo al controllo imperiale di 750.000.000 di persone nelle colonie”. La nuova istituzione internazionale poteva essere il meccanismo perfetto per dare un nuovo volto al dominio mondiale bianco. L’alleanza tra le potenze del Nord Atlantico doveva essere rafforzata e l’impero prolungato col nuovo nome di “cooperazione internazionale”.
In questo contesto e con questi obiettivi occulti, a partire dalla primavera del 1947, l’ONU accolse vari squilibri che favorivano il movimento coloniale sionista. Dopo aver formato un comitato (l’UNSCOP), alcuni dei cui membri “sapevano molto poco della Palestina”, come ammise uno di loro, il 29 novembre 1947 fu approvata la spartizione della Palestina in due Stati con la risoluzione 181. Non avendo consultato e tenuto conto della volontà della popolazione interessata, la risoluzione violava ancora una volta il principio di autodeterminazione dei popoli, contenuto nel primo articolo del trattato che istituiva le Nazioni Unite.
Inoltre, questa risoluzione conteneva numerosi elementi che avvantaggiavano la comunità dei coloni (nonostante il fatto che costituisse un terzo della popolazione e possedesse tra il 6 e l’11% della terra, il piano di spartizione raccomandava di creare il cosiddetto Stato “ebraico” sul 55% del territorio). D’altra parte, la maggioranza necessaria per approvare il piano di spartizione fu raggiunta grazie alle minacce statunitensi alla Liberia, ad Haiti e alle Filippine.
Infine, le risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di questo tipo hanno la natura di raccomandazioni senza valore legale vincolante. Tuttavia, la Risoluzione 181 non fu adottata come suggerimento o come base di negoziazione, ma come un fatto compiuto vincolante. Pertanto, la spartizione ONU del 1947 tra due Stati era ingiusta, violava la Carta delle Nazioni Unite, violava il principio di uguaglianza tra le parti ed era stata adottata sotto costrizione.
L’approvazione del piano di spartizione fu celebrata come una vittoria dalla maggioranza del movimento sionista, che l’aveva auspicata, e respinta dal popolo palestinese. Nel giro di pochi giorni, gli episodi di violenza in Palestina si moltiplicarono e questo era il contesto che le organizzazioni paramilitari sioniste stavano aspettando per ottenere il maggior territorio possibile con la minor popolazione palestinese possibile. Ovvero, l’espulsione in massa della popolazione non ebraica, quella che il popolo palestinese avrebbe conosciuto come la Nakba (la “catastrofe”). Ovviamente, dei due Stati previsti, solo uno fu creato nel maggio 1948, Israele. E fu creato nel pieno di una pulizia etnica che vide circa 750.000 palestinesi diventare rifugiati, tra le 418 e le 615 città distrutte o sfrattate dalle truppe sioniste-israeliane e la Palestina smembrata, eliminando così sul nascere ogni possibilità di uno Stato palestinese.
Il nuovo Stato coloniale israeliano fu costruito sul 78% della Palestina storica e istituì un regime di apartheid che privilegiava legalmente gli ebrei e impediva ai palestinesi non ebrei di tornare, nonostante questo fosse un diritto riconosciuto anche dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella sua Risoluzione 194. Al-Quds-Gerusalemme Est e la Cisgiordania furono annesse dalla Giordania, mentre la Striscia di Gaza, i cui confini furono creati in quel momento storico, mentre era affollata di rifugiati, fu amministrata dall’Egitto.
A sua volta, la “soluzione dei due Stati” continuò solo sulla carta. La guerra di giugno o dei Sei Giorni del 1967, che vide l’occupazione militare sine die e l’endocolonizzazione israeliana del restante 22% della Palestina (Al-Quds-Gerusalemme Est, Cisgiordania e Striscia di Gaza), dimostrò ancora una volta, nonostante la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva il ritiro di Israele, che la “soluzione dei due Stati” era un’invenzione, una fandonia, attraverso la quale l’apartheid israeliano poteva continuare a portare avanti impunemente il suo progetto di colonialismo di insediamento, mentre venivano vantati “sforzi” che non portavano a nulla.
In breve, la “soluzione dei due Stati” è stata ed è utilizzata dai leader sionisti e dai loro complici nordatlantici come paravento per nascondere l’obiettivo finale sionista-israeliano di espansione territoriale e di espulsione della popolazione autoctona.
Questo è il punto cruciale del movimento sionista e della sua creazione 76 anni fa, lo Stato di Israele. L’origine della “soluzione a due Stati” era ed è coloniale e ingiusta. Inoltre, da Green/Ben Gurion a Netanyahu, la stragrande maggioranza dei leader israeliani si è rifiutata di renderla possibile, anzi ha cercato e ottenuto di renderla una chimera. Allo stesso modo, qualsiasi popolo colonizzato ha rifiutato e rifiuta di accettare che tanta parte della sua terra e delle sue case venga assegnata dal potere imperiale a un progetto coloniale che brama di espellerlo e rifiuta di far sentire la sua voce. Questo è stato vero nel 1917 con la Dichiarazione Balfour, nel 1937 con la Commissione Peel, nel 1947 con il Piano di spartizione delle Nazioni Unite e successivamente… ed è ancora vero nel 2024.
Lo abbiamo già visto molte volte in passato e ha fallito. E inoltre, è impraticabile
Il 13 settembre 1993 si svolse una pomposa cerimonia alla Casa Bianca, a Washington. Ospitata dal Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, vide la partecipazione di Yasser Arafat, presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) dal 1969, e di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano per la seconda volta dal 1992. Una storica stretta di mano rappresentò la firma della “Dichiarazione di principi sugli accordi provvisori di autogoverno”, nota come Accordo di Oslo I. Entro il 1995 furono firmati altri tre accordi specifici (Accordo di Oslo II). In alcuni ambienti si diffuse l’ottimismo per l’arrivo di una nuova era di coesistenza e pace, compresa la “soluzione dei due Stati”.
Tuttavia, come dimostrano i titoli stessi dei documenti concordati, Oslo I e II erano solo “dichiarazioni di principio sugli accordi” o “preparatorie”. In altre parole, i negoziati sostanziali e definitivi erano lasciati al futuro. Ciò significa che le questioni più importanti – lo status di Al-Quds-Gerusalemme, gli insediamenti, i confini e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi – erano state lasciate da parte. Gli accordi di Oslo non riconoscevano nemmeno il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.
Né menzionavano il ritiro di Israele da tutti i territori occupati nel 1967. Fu creato un nuovo organismo “ad interim di cinque anni” che in teoria avrebbe dovuto essere il seme di un futuro Stato palestinese: l’Autorità Palestinese (AP). Tuttavia, questa nuova “istituzione” fu imposta dal tandem USA-Israele come un progetto prezzolato privo di competenze. Decennio dopo decennio, il suo prestigio e la sua legittimità tra il popolo palestinese sono crollati.
Inoltre, Oslo II ha diviso la Cisgiordania in tre aree: A, B e C, e solo la A doveva essere completamente amministrata dall’AP. Contrariamente al diritto internazionale, con le aree A, B e C, lo Stato di Israele ha ottenuto il controllo della maggior parte della Cisgiordania, che allo stesso tempo rappresentava circa il 20% della Palestina mandataria britannica. Ciò implicava che i firmatari palestinesi avessero accettato che il regime di apartheid israeliano controllasse circa il 90% della Palestina storica non solo de facto, come era già avvenuto in seguito alla conquista militare del 1967, ma questa volta con la loro firma. Diverse organizzazioni palestinesi, tra cui il FDLP (Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, ndt), la Jihad Islamica, Hamas e figure come Mahmoud Darwish ed Edward Said, criticarono fortemente le modalità e i contenuti di quanto firmato da Arafat. Secondo Said, questi accordi erano “una Versailles palestinese”.
Nonostante il fatto che, teoricamente, una soluzione definitiva dovesse essere raggiunta entro cinque anni (1994-1999), in diversi ambienti israeliani era chiaro che ciò non solo non era auspicabile, ma che non c’era alcuna possibilità che ciò accadesse. Gli israeliani continuavano ad aspirare al maggior territorio possibile con la minor popolazione palestinese possibile e avrebbero combattuto con tutte le loro forze contro l’idea di uno Stato palestinese, anche se su un territorio pari a poco più del 10% della Palestina storica e senza nemmeno continuità territoriale.
Tra questi c’era Benjamin Netanyahu, salito al potere nel 1996, sette mesi dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un sionista israeliano contrario ai negoziati. Così, la “soluzione dei due Stati” è fallita non solo nel 1937 e negli anni chiave del 1947-1948, ma anche con gli accordi di Oslo e negli ultimi tre decenni. E non solo per il contesto o la formulazione concreta, ma anche per la sua implicita idiosincrasia coloniale e iniqua.
Oggi ci sono circa 700.000 coloni israeliani in Cisgiordania e il 2023 è stato l’anno in cui hanno compiuto il maggior numero di attacchi contro i palestinesi. Il 26 febbraio 2023 hanno addirittura perpetrato – secondo le parole del generale israeliano Yehuda Fox – un “pogrom” nella città palestinese di Huwara. Per Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze israeliano che il mese precedente si era pubblicamente definito un “fascista omofobo”, Huwara dovrebbe essere “cancellata dalla mappa”.
Cosa faranno con tutti questi coloni e ministri? Nel 2005 la società ebraica israeliana ha vissuto un grande confronto interno e un trauma nazionale quando circa 8.000 coloni sono stati trasferiti – alcuni con la forza per giorni interi – dagli insediamenti di Gaza a quelli della Cisgiordania. In questo modo, il regime di apartheid israeliano ha potuto dimostrare di aver già concesso tutto ciò che poteva concedere, ha potuto dichiarare Gaza “entità ostile” e ha potuto bloccarla e bombardarla massicciamente, come in effetti è accaduto nel 2008-2009, 2012, 2014, 2018, 2021…. E come sta accadendo ora, con il più scandaloso genocidio in diretta e con la massima complicità di coloro che più inalberano la bandiera della democrazia e dei diritti umani.
Se nel 2005 con 8.000 coloni (che, tra l’altro, hanno ricevuto una media di 200.000 dollari a famiglia come risarcimento) è accaduto quanto detto, ora nessuna autorità israeliana prende in considerazione o accetta ideologicamente di trasferire quasi tre quarti di milione di coloni dalla Cisgiordania. Pertanto, data questa realtà sul campo, uno “Stato palestinese” è assolutamente irrealizzabile.
Allo stesso modo, è assurdo “imporre dall’esterno” la “soluzione dei due Stati”, come ha sostenuto Borrell, mentre si è complici di coloro che distruggono ogni possibilità di attuarla sul terreno e delle loro politiche genocide in corso. Il 18 gennaio 2024, Netanyahu ha nuovamente chiarito che “non accetterà mai uno Stato palestinese” e che “Israele deve controllare tutto il territorio dal fiume al mare”. Dieci giorni dopo, migliaia di israeliani, compresi i ministri, hanno apertamente incitato alla pulizia etnica della Striscia di Gaza e hanno celebrato la propria pretesa di ricolonizzazione di questo territorio palestinese. Quindi, oltre ad essere coloniale e ingiusta, la soluzione dei due Stati è una “soluzione” impraticabile e quindi non è una soluzione. E non si può sprecare né energia né tempo per una cosa del genere.
Allo stesso modo, proposte come il piano in 12 punti di Borrell sono state viste molte volte in passato. E sono fallite. E non si è imparato, o non si vuole imparare, dal fiasco (e a sua volta dalla trappola neocoloniale israelo-statunitense) di Oslo. Si continua a non parlare delle questioni chiave: con quali confini? con le briciole delle briciole di Oslo? con meno del 10% della Palestina storica e circondata da insediamenti, muri, strade per soli israeliani e rapimenti quotidiani di bambini palestinesi? e che ne è di al-Quds-Gerusalemme? e che ne è del diritto al ritorno della popolazione palestinese rifugiata, il più inalienabile dei loro diritti?
Borrell e il resto dei leader del Nord globale, se hanno ancora un po’ di umanità, sanno perfettamente che la cosa più necessaria e urgente è fermare il genocidio israeliano in Palestina. E questo si ottiene facendo pressione su Israele attraverso la fine della vendita di armi, di tutte le relazioni accademiche, culturali, diplomatiche, economiche, istituzionali e di sicurezza, compreso l’accordo di associazione UE-Israele, espellendo Israele dall’Eurovisione come hanno fatto con la Russia in un solo giorno, e sostenendo la denuncia sudafricana per genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite. Misure simili sono state fondamentali, insieme alla resistenza interna, per porre fine all’apartheid in Sudafrica – con il quale, tra l’altro, l’apartheid israeliano ha collaborato.
Poi, che si attuino i tre punti minimi del diritto internazionale che la campagna BDS richiede: la fine dell’occupazione e lo smantellamento del muro, la fine dell’apartheid e il diritto al ritorno per la popolazione palestinese rifugiata. E poi, una volta per tutte, che si tenga conto dell’opinione del popolo palestinese colonizzato. E che si capisca che il futuro deve passare attraverso un percorso di decolonizzazione che potrebbe essere simile a quello del Sudafrica.
L’armadio della speranza del popolo palestinese è pieno di discorsi, parole e risoluzioni, ma vuoto di fatti. Lo è ora più che mai. Come ha scritto il poeta palestinese Mahmoud Darwish, “Non c’è tempo per il domani. Non c’è tempo per il tempo”.
Jorge Ramos Tolosa è Professore di Storia contemporanea presso l’Università di Valencia,
Traduzione di Leila Buongiorno
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