Le continue incursioni israeliane nel campo profughi di Jenin dal 7 ottobre hanno ucciso quasi 100 palestinesi, tra cui molti civili. Ma mentre la repressione aumenta, i figli della Seconda Intifada stanno imbracciando le armi.
Fonte: English version
Di Mariam Barghouti 27 febbraio 2024
Nelle prime ore del 23 febbraio, le forze israeliane hanno colpito un veicolo nel campo profughi di Jenin, uccidendo tre residenti palestinesi del campo. L’obiettivo dell’attacco dei droni era il 27enne Yasser Mustafa Hanoun, comandante sul campo della Brigata Jenin – apparentemente il braccio armato della Jihad islamica palestinese (PIJ), ma che negli ultimi anni ha operato come gruppo ombrello per una varietà di giovani palestinesi che vanno dal PIJ, a Hamas, a Fatah e persino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), laico e di sinistra. Hanoun è stato ucciso sul colpo, in un attentato che ha ucciso anche Saeed Jaradat, 17 anni, e Majdi Nabhan, 20 anni, e ha ferito altre 15 persone.
Negli ultimi mesi, e in concomitanza con il continuo bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, la Cisgiordania ha subito una forte intensificazione delle violente incursioni da parte delle forze israeliane. Il 2023 era stato fino ad ora l’anno più mortale della Cisgiordania da circa due decenni, con più di 500 vittime, di cui almeno un quinto proveniente dalla sola Jenin.
Con una tendenza simile, dal 7 ottobre soldati e coloni israeliani hanno ucciso 410 palestinesi nel territorio, di cui 93 solo a Jenin. L’anno scorso, la città ha dovuto approntare un appezzamento di terreno appena fuori dal campo profughi per farne un nuovo cimitero, poiché il cimitero comunale era ormai pieno
Il campo profughi di Jenin funge da microcosmo degli attacchi israeliani ai palestinesi che osano resistere alle sue politiche di esproprio e sfollamento. Mentre l’esercito israeliano sta pianificando un’operazione di “controinsurrezione” a lungo termine a Gaza come fase successiva della sua guerra, Jenin offre una finestra su ciò che potrebbe esserci in serbo.
Il punto è il palestinese, non il palestinese che resiste
Le incursioni dell’esercito israeliano a Jenin e nel suo campo profughi sono state quasi ininterrotte dal 7 ottobre. L’invasione di gran lunga più grande si è verificata tra il 12 e il 15 dicembre, quando i soldati israeliani hanno assediato l’intero campo per 60 ore: il raid più lungo e violento da quando il campo fu quasi distrutto durante l’“Operazione Scudo Difensivo” nel 2002, nel mezzo della Seconda Intifada.
Dopo aver portato a termine l’offensiva, il portavoce dell’esercito israeliano affermò di aver arrestato 14 persone ricercate e di aver “eliminato 10 terroristi” nel campo. Ma secondo testimoni oculari e residenti, almeno 12 palestinesi furono uccisi – 10 dei quali erano civili e non combattenti, compreso un bambino – mentre almeno altri 42 rimasero feriti da colpi di arma da fuoco, gas lacrimogeni e droni d’attacco israeliani.
“Non esiste una cosa come ‘questo è un combattente e questo no’”, ha detto a +972 Sami, un uomo sulla trentina, che ha scelto di usare uno pseudonimo per paura di misure punitive da parte dell’esercito israeliano. “Siamo tutti un bersaglio”, ha aggiunto, mentre le jeep militari pattugliavano le strade appena fuori dal campo profughi.
Alcune ore dopo il ritiro dell’esercito, la mattina del 15 dicembre, Umm Imad Ghrayeb, 72 anni, ha camminato per le strade fangose e rovinate del campo per la prima volta in tre giorni. Non sapeva da dove cominciare per spiegare le ore di orrore che aveva dovuto sopportare.
“Eravamo solo noi anziani e mio marito non riusciva nemmeno ad alzarsi”, ha raccontato Ghrayeb a +972. “[L’esercito] ha sfondato le porte di casa nostra, anche se l’avevamo lasciata aperta per dimostrare che non avevamo nulla da nascondere”.
Come è successo a dozzine di altre famiglie, i soldati hanno chiuso Ghrayeb e suo marito in una stanza mentre l’esercito ha trasformato la casa in una base militare. Nel frattempo, intorno alle loro case continuavano spari e bombardamenti. “Tutto quello che potevamo sentire erano forti colpi, uno dopo l’altro”, ha ricordato Ghrayeb.
L’attacco di dicembre non è stata una semplice operazione di ricerca e arresto, e nemmeno un’operazione contro i combattenti della resistenza, come affermato dall’esercito israeliano. Secondo quanto riferito, almeno 1.000 palestinesi – tutti uomini e ragazzi, per lo più giovani, comprese persone con malattie croniche – sono stati detenuti nel corso delle 60 ore di invasione. La maggior parte è stata infine rilasciata, ma non prima di essere portata al campo militare di Salem a nord-ovest di Jenin o sottoposta a brutali interrogatori sul campo.
Coloro che sono stati sottoposti a quest’ultima pratica venivano spesso bendati, spogliati e lasciati in faticose posizioni sedute, spesso all’aperto al freddo e alla pioggia. Alcuni detenuti hanno riferito che i soldati hanno legato loro addosso la bandiera israeliana mentre erano in custodia; i video successivamente hanno confermato queste testimonianze.
Da una casa del campo, i soldati hanno pubblicato video sui loro account TikTok e sui social media in cui si mostravano mentre in un soggiorno fumavano allegramente il narghilè, mentre uomini palestinesi bendati erano seduti sul pavimento.
Più che voler descrivere gli abusi subiti, gli abitanti del campo continuavano a porre la stessa domanda: “Perché?” Tenendo i palmi uniti e riuscendo comunque a mantenere un sorriso, Ghrayeb ha ricordato con voce tremante: “Tutto quello che abbiamo fatto è stato pregare: ‘Oh caro Dio, aiutaci’. Cos’altro avremmo potuto fare, caro?”
“Se ce ne andiamo, chi resta?”
Mentre i residenti del campo di Jenin stavano subendo una campagna terroristica, i combattenti della resistenza palestinese hanno affrontato i soldati israeliani dall’esterno del campo. Si sono radunati anche giovani disarmati provenienti dalle zone vicine, alcuni lanciando pietre, altri facendo la guardia e alcuni imprecando ad alta voce contro i soldati.
Quando ho chiesto ad alcuni giovani palestinesi perché fossero in strada durante l’invasione, pur sapendo che non sarebbero stati in grado di entrare nel campo assediato, molti hanno risposto nello stesso modo: “Almeno ci stiamo provando” e , “Potremmo attirare l’attenzione dei soldati su di noi, per contribuire ad alleviare la forza della violenza nel campo”.
Poiché i combattenti della resistenza armata non erano più all’interno del campo, la popolazione rifugiata è lasciata senza protezione e alla mercé dei soldati israeliani. L’esercito ha assediato la zona, bloccando la circolazione delle merci e tagliando la fornitura di elettricità e acqua. “Non è consentito l’ingresso di beni di prima necessità per un essere umano”, ha detto Eli, che ha scelto anche lui di usare uno pseudonimo, a +972 mentre osservava da lontano le jeep militari.
“Guarda il campo”, ha detto Sami mentre la sera del 13 dicembre diventava più fredda, con i militari che avanzavano più vicini a un gruppo di giovani riuniti vicino a una clinica adiacente al campo. “Nessuno può entrare. Nessuna ambulanza. Niente latte per i neonati. Nemmeno il pane”, ha detto.
Oltre a tutto ciò, i soldati israeliani, compresi i cecchini, hanno ostacolato l’ingresso dei giornalisti e delle ambulanze nel campo. Qualsiasi tentativo di avvicinarsi al campo è stato accolto con l’aggressione israeliana, incluso lo sparo di proiettili veri contro il personale medico e i giornalisti.
All’interno del campo, nel frattempo, le forze israeliane hanno danneggiato gravemente numerosi edifici mentre imperversavano di strada in strada. Nash’at Samara, insieme alla moglie e ai figli, si trovava a casa di suo fratello fuori dal campo quando iniziò l’invasione; ha potuto rientrare nel suo quartiere solo dopo il ritiro dell’esercito. Non è tornato a casa, ma alle rovine della sua casa: era stata fatta saltare in aria, le piastrelle della sua cucina staccate dai muri e gli averi della sua famiglia saccheggiati.
“Perché hanno distrutto la nostra casa?” aveva chiesto al +972 mentre camminava tra i rottami della sua cucina. Guardando il cibo, ora sul pavimento, ha detto con voce dolorosa: “La resistenza si combatte nelle strade, o fuori, non nelle case, e certamente non nel frigorifero”.
“Il punto è l’umiliazione”, ha detto Walid Abu el-Fahed, 45 anni, il giorno in cui le forze israeliane si sono ritirate, mentre attraversava la scia di distruzione che avevano lasciato nel campo.
Più che umiliazione, tuttavia, queste pratiche servono a cacciare i palestinesi. Per l’esercito israeliano, le invasioni e le operazioni militari nelle case civili, negli ospedali o nelle scuole, oltre alle demolizioni di case e ai pogrom dei coloni, sono diventate una pratica sempre più comune, contribuendo all’espropriazione deliberata e allo sfollamento dei palestinesi.
Nell’arco di 116 giorni tra ottobre 2023 e gennaio di quest’anno, Israele ha sfollato 2.792 palestinesi in Cisgiordania. Si tratta di un aumento del 775% delle persone rimaste senza casa rispetto al numero di palestinesi sfollati nell’insieme dei primi nove mesi del 2023. Inoltre, come a Gaza, la maggioranza dei palestinesi uccisi in Cisgiordania non sono combattenti della resistenza. ma civili, di cui quasi un terzo sono bambini e minori.
Tuttavia, nonostante le difficoltà, molte famiglie scelgono ancora di rimanere nelle proprie case. “Restiamo perché dobbiamo restare nella nostra patria”, ha spiegato Abu el-Fahed mentre i suoi figli giocavano sul sedile posteriore dell’auto, guidando per le strade demolite dai bulldozer del campo profughi di Jenin. “Se io me ne vado con i miei figli, e lei se ne va con i suoi figli, e lui se ne va con i suoi figli”, comincia a chiedere Abu el-Fahed, “allora chi rimane?”
Resistenza dalla nascita
“Sono nato nell’occupazione e in mezzo soldati, e morirò nell’occupazione e in mezzo soldati”, ha detto Eli mentre l’invasione e l’assedio continuavano per l a terza notte. “Sparare, uccidere, sangue: questa è la vita dell’intera popolazione palestinese”, ha continuato frustrato.
L’ultima volta che Israele ha condotto un’operazione così massiccia, tuttavia, è stato al culmine della Seconda Intifada, nel 2002. Quell’incursione – parte dell’“Operazione Scudo Difensivo”, durante la quale le forze israeliane invasero diverse città palestinesi in Cisgiordania; secondo la Banca Mondiale, la distruzione delle infrastrutture e delle istituzioni palestinesi richiese un costo stimato in 361 milioni di dollari.
Oltre alla perdita materiale, l’invasione ha creato una generazione di palestinesi traumatizzati che non solo sono stati profondamente scossi dagli eventi di quell’anno, ma da allora hanno dovuto crescere in mezzo a un’ ulteriore violenza militare israeliana. All’epoca, i gruppi per i diritti umani avevano avvertito dell’impatto negativo che l’invasione del 2002 avrebbe avuto su quei bambini.
Più di due decenni dopo, l’esercito israeliano continua ancora a effettuare raid regolari e intensificati nelle città palestinesi della Cisgiordania. Anche la crescita degli insediamenti è in aumento, e con ciò il tasso e la gravità degli attacchi dei coloni contro i palestinesi, che continuano a godere di un’impunità quasi totale sotto il sistema giudiziario israeliano. Gli arresti arbitrari e le umiliazioni ai posti di blocco militari israeliani sono rimasti la norma, e gli omicidi extragiudiziali sono diventati il modus operandi negli ultimi anni.
Per i Palestinesi in Cisgiordania, l’intensificazione degli attacchi israeliani è avvenuta soprattutto all’indomani dell’“Intifada dell’Unità” del maggio 2021, durante la quale i palestinesi tra il fiume e il mare si sono ribellati contro il governo israeliano e le forze di occupazione. Successivamente Israele lanciò l’“Operazione Break the Wave”, una serie di operazioni militari in tutta la Cisgiordania che videro l’uso della forza letale contro i civili e missioni di assassinio extragiudiziale, illegali secondo il diritto internazionale.
Non sorprende, quindi, che la determinazione dei giovani palestinesi ad unirsi allo scontro militare con l’esercito israeliano non abbia fatto altro che crescere. Dopo l’Intifada dell’Unità, un gran numero di palestinesi iniziarono a impegnarsi nella resistenza armata, spesso unendosi a battaglioni locali che non erano allineati con i tradizionali partiti politici palestinesi.
“Ricordate, i ragazzi del 2002 ora sono la resistenza”, ha detto Abu el-Fahed, residente a Jenin, a +972 ore dopo il ritiro dei militari durante l’invasione di dicembre. Ricorda ancora la brutalità e la paura di quelle settimane. “[Israele] ha cercato di spostarci nel 2002”, ha ricordato. “Hanno distrutto le case sopra le nostre teste, ci hanno detenuti in massa e ci hanno ucciso”.
Questa inevitabile realtà non è né segreta né inaspettata per i palestinesi in generale, e per quelli di Jenin in particolare. “Ciò che distruggono lo ricostruiremo e i nostri figli saranno dei leader”, ha detto Abu el-Fahed.
Tuttavia, per poter crescere dei leader, i bambini devono rimanere in vita. Mentre Israele ha portato avanti l’operazione di dicembre con il pretesto di prendere di mira sospetti combattenti palestinesi, usando gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele come scusa per giustificare l’incursione letale, almeno un quinto delle persone uccise a Jenin erano bambini e minorenni.
“Verremmo uccisi comunque”
Continuando sulla stessa strada, il 30 gennaio, forze israeliane sotto copertura hanno effettuato un’operazione di omicidio nell’ospedale Ibn Sina di Jenin. Poco dopo l’alba, i soldati della famigerata unità Duvdevan – travestiti da personale medico e pazienti palestinesi – sono entrati nell’ospedale, hanno estratto le armi davanti al vero personale e ai pazienti e hanno marciato verso il terzo piano dell’ospedale.
Lì, le forze sotto copertura hanno assassinato extragiudizialmente Basel al-Ghazzawi, un combattente di 18 anni della Brigata Jenin, che stava ricevendo cure per le ferite riportate in un precedente assalto a Jenin da parte dell’esercito israeliano. Era da un anno e mezzo che Israele cercava di ucciderlo.
Sono stati uccisi anche altri due uomini che erano in visita ad al-Ghazzawi: suo fratello, Mohammed al-Ghazzawi, di 23 anni, uno dei cofondatori della Brigata Jenin, e il loro amico, Mohammad Jalamnah, 27 anni, che è un combattente senior della Brigata. Secondo i giornalisti locali, l’unità israeliana sotto copertura ha ucciso i tre uomini con pistole con il silenziatore.
Nonostante gli uomini fossero combattenti attivi nella Brigata Jenin, il loro assassinio all’ospedale Ibn Sina non solo era illegale in quanto omicidio extragiudiziale, ma violava anche la Convenzione di Ginevra. In modo ancora più allarmante, questo attacco segnala un’escalation dei crimini sfrontati di Israele in Cisgiordania.
Nell’ottobre 2022 intervistai l’eminente combattente della resistenza palestinese Nidal Khazem, chiedendogli perché avesse scelto di imbracciare le armi nonostante il rischio che ciò rappresentava per la sua vita. Khazem disse con molta calma: “[L’esercito israeliano] viene qui, uccide i nostri amici e la nostra famiglia, abusa e umilia le donne e ci nega l’accesso [al culto] ad Al-Aqsa”. Questo sentimento è stato condiviso dalla maggior parte dei combattenti della resistenza che ho intervistato negli ultimi due anni in Cisgiordania, e tutti riecheggiavano la stessa opinione: “Verremo uccisi comunque”.
Khazem è stato ucciso diversi mesi dopo, nel marzo 2023, in un assassinio extragiudiziale compiuto dalle forze israeliane sotto copertura di Duvdevan. Anche Yousef Shriem, un altro combattente della resistenza e amico intimo di Khazem, è stato ucciso. Anche un terzo ragazzo di 13 anni è stato ucciso mentre, durante l’operazione, attraversava Jenin in bicicletta.
Nel luglio 2023, appena tre mesi dopo l’uccisione di Khazem e Shreim, Israele ha effettuato un’altra invasione distruttiva nel campo di Jenin utilizzando droni, un elicottero armato e artiglieria pesante a terra. Nel corso di due giorni, l’esercito israeliano ha tentato, senza riuscirci, di mantenere il pieno controllo del campo profughi, trovandosi sotto il fuoco dei combattenti della resistenza con una frazione delle loro capacità e risorse militari.
Durante i loro raid letali contro campi profughi, paesi, città e villaggi palestinesi, l’esercito israeliano ha ucciso più civili che militanti palestinesi. Israele non solo non è stato in grado di fermare la crescita dei gruppi di resistenza armata nel campo profughi di Jenin, ma ha provocato l’ascesa di una maggiore resistenza armata in diversi distretti tra cui Tulkarem, Nablus, Ramallah, Hebron, Tubas e Gerico.
L’unica protezione che i Palestinesi sembrano avere sono i gruppi di resistenza armata, nonostante le loro piccole dimensioni e la mancanza di armi. Nel tentativo di sradicarli, Israele sta aprendo la strada alla creazione di una comunità palestinese completamente non protetta – composta da anziani, giovani e malati – lasciando facili scelte a uno degli eserciti più avanzati del mondo. Incapace di limitare la resistenza o di prendere di mira efficacemente i combattenti, tuttavia, l’esercito israeliano è ricorso a tentativi di omicidio extragiudiziale nei momenti in cui i combattenti sono più vulnerabili e non impegnati in battaglia.
“Quello che hanno fatto nel campo è una imitazione di Gaza: dall’umiliazione degli uomini fino al denudamento, all’attacco alla moschea e alla distruzione delle case”, ha riassunto Abu El-Fahed, indicando gli edifici grigi che un tempo erano case.
“L’obiettivo è uno: liberare la Palestina”
A differenza di Gaza, tuttavia, i gruppi armati palestinesi in Cisgiordania non dispongono di un unico organismo organizzato per lo scontro armato. Sono invece gruppi di uomini della comunità, vicini di casa, parenti e amici d’infanzia che si ritrovano ad affrontare non solo un esercito potente, ma anche un esercito che opera con politiche discriminatorie che impongono persecuzioni e apartheid.
“Cosa pensi che significhi essere [affiliato a] Hamas o alla Jihad islamica palestinese?” un combattente di Hamas sulla trentina, che qui chiameremo “A”, ha chiesto, seduto in un piccolo soggiorno nel campo profughi di Jenin a metà ottobre. “Significa poter acquistare una pistola”, ha detto mentre un altro combattente accanto a lui annuiva in segno di approvazione.
FOTO Uomini armati palestinesi camminano lungo una strada nella città occupata di Jenin, nella Cisgiordania, 10 novembre 2023. (Nasser Ishtayeh/Flash90)
L’altro uomo, “B.”, aveva disertato dalle forze di sicurezza palestinesi dell’Autorità Palestinese – di cui era ufficiale – all’inizio dell’anno scorso. Sebbene i due appartenessero a fazioni politiche rivali, uno di Fatah e l’altro di Hamas, stavano insieme come un unico battaglione sotto l’egida della Brigata Jenin.
“Per PIJ, non è una questione di potere o denaro”, ha detto a +972 un terzo combattente, “C.”, che ha appena 20 anni ed è il più giovane del gruppo, mentre si sedeva accanto ai due uomini. “L’obiettivo è uno: liberare la Palestina per poter vivere liberamente. Ecco perché combatto con [PIJ], ma non è per loro.
Gli uomini hanno sottolineato collettivamente che, sia che si tratti di Hamas, Fatah, PIJ o di qualsiasi altra fazione, alla fine fanno parte della stessa comunità che cerca protezione dall’assalto continuo e intensificato alle loro vite da parte delle autorità, dell’esercito e dei coloni israeliani.
“Capite che per noi queste sono strade di confronto”, ha spiegato A.. “Siamo persone umili, quindi dobbiamo racimolare i soldi per permetterci un’arma con cui reagire”.
Per i combattenti della resistenza palestinese a Jenin e altrove in Cisgiordania, l’affiliazione politica come meccanismo per tracciare linee di divisione è una cosa del passato. Non si tratta più di una sezione di Hamas contro Israele o di attacchi di lupi solitari, ma di tutti , riuniti sotto l’ombrello del confronto con l’occupazione israeliana che ha raggiunto l’apice delle sue pratiche aggressive nel genocidio in corso dei palestinesi.
Anche se la linea politica varia da Gaza a Gaza, alla fine Israele tratta i Palestinesi ovunque allo stesso modo. “Siamo un bersaglio per [il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar] Ben Gvir e [il primo ministro Benjamin] Netanyahu”, ha spiegato “D.”, un combattente sulla quarantina, mentre teneva d’occhio le due jeep israeliane nelle vicinanze, pronte a carica verso il centro città in qualsiasi momento.
“L’esercito israeliano sta fallendo a Gaza ed è arrivato a ottenere risultati a Jenin”, ha continuato. “È così che i media israeliani possono mostrare alla gente che stanno raggiungendo gli obiettivi”.
Per i Palestinesi in Cisgiordania, così come a Gaza, la lotta per la giustizia e la libertà persiste. Quanto più Israele intensifica le sue operazioni militari violente con il pretesto di reprimere la resistenza, tanto più sembra provocare.
“Questa occupazione non ha alcun impatto su di noi e sulla nostra volontà di affrontare [Israele]”, ha detto a +972 “E.”, 18 anni, mentre si riuniva con i suoi amici e vicini per mantenere la presenza nelle strade nel mezzo della campagna terroristica israeliana a Jenin nelle violente serate di metà dicembre.
“Pensano che siamo rami spezzati, ma se continuano a spingerci siamo bombe a orologeria che esploderanno”, ha detto.
Mariam Barghouti è una scrittrice palestinese con sede a Ramallah.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org