Nel mezzo della battaglia interna sulla copertura del New York Times riguardo la guerra di Israele, i principali redattori hanno emanato una serie di direttive.
Fonte: English version
Di Jeremy Scahill e Ryan Grim – 15 aprile 2024
Immagine di copertina: Manifestanti filo-palestinesi invadono l’atrio degli uffici del New York Times e bloccano gli ingressi di sicurezza durante una manifestazione contro la copertura del giornale sulla guerra di Israele a Gaza il 14 marzo 2024, a New York City. Foto: Michael Nigro/Sipa tramite AP Images
Il New York Times ha dato istruzioni ai giornalisti che si occupavano della guerra di Israele nella Striscia di Gaza di limitare l’uso dei termini “Genocidio” e “Pulizia Etnica” e di “evitare” di usare l’espressione “Territorio Occupato” nel descrivere la terra palestinese, secondo una copia trapelata di un documento interno.
La circolare interna dà inoltre istruzioni ai giornalisti di non usare la parola Palestina “tranne in casi molto rari” e di evitare il termine “Campi Profughi” per descrivere le aree di Gaza storicamente abitate da palestinesi sfollati espulsi da altre parti della Palestina durante le precedenti guerre arabo-israeliane. Le aree sono riconosciute dalle Nazioni Unite come campi profughi e ospitano centinaia di migliaia di rifugiati registrati.
Il documento, scritto dal principale editore del Times Susan Wessling, dall’editore internazionale Philip Pan e dai loro delegati, “offre indicazioni su alcuni termini e altre questioni con cui ci siamo confrontati dall’inizio del conflitto in ottobre”.
Sebbene il documento sia presentato come uno schema per mantenere principi giornalistici oggettivi nel riferire sulla guerra di Gaza, diversi membri del personale del Times hanno dichiarato che alcuni dei suoi contenuti mostrano prove della passività del giornale nei confronti delle narrazioni israeliane.
“Penso che sia il genere di cose che sembrano professionali e logiche se non si ha conoscenza del contesto storico del conflitto israelo-palestinese”, ha detto un giornalista della redazione del Times, che ha chiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, riguardo il documento su Gaza. “Ma se lo sai, sarà chiaro quanto sia dispiaciuto per Israele”.
Inviata per la prima volta ai giornalisti del Times a novembre, la guida, che raccoglieva e ampliava le precedenti direttive sul conflitto israelo-palestinese, è stata regolarmente aggiornata nei mesi successivi. Presenta una finestra interna sul pensiero degli editori internazionali del Times mentre affrontano gli sconvolgimenti all’interno della redazione che circondano la copertura del giornale sulla guerra di Gaza.
“Emanare linee guida come questa per garantire accuratezza, coerenza e sfumatura nel modo in cui copriamo le notizie è una pratica normale”, ha affermato Charlie Stadtlander, portavoce del Times. “In tutti i nostri servizi, compresi eventi complessi come questo, ci preoccupiamo di garantire che le nostre scelte linguistiche siano sensibili, attuali e chiare per il nostro pubblico”.
Le questioni relative alle linee guida sono state tra una serie di spaccature interne al Times sulla sua copertura su Gaza. A gennaio, è stato riferito di controversie nella redazione del Times su questioni relative a un articolo investigativo sulla violenza sessuale sistematica del 7 ottobre. La fuga di notizie ha dato origine a un’indagine interna molto insolita. L’azienda ha dovuto affrontare aspre critiche per aver presumibilmente preso di mira i dipendenti del Times di origine mediorientale e nordafricana, cosa che i vertici del Times hanno negato. Lunedì il direttore esecutivo Joe Kahn ha detto al personale che l’indagine sulla fuga di notizie si era conclusa senza successo.
Dibattiti su WhatsApp
Quasi immediatamente dopo gli attacchi del 7 ottobre e il lancio della campagna di terra bruciata da parte di Israele contro Gaza, le tensioni hanno cominciato ad accentuarsi all’interno della redazione per la copertura del Times. Alcuni membri del personale hanno affermato di ritenere che il giornale stesse facendo di tutto per rimettersi alla narrazione di Israele sugli eventi e non stesse applicando i suoi consueti criteri nella copertura. Le discussioni iniziarono a fomentarsi sull’app di messaggistica interna Slack e su altri gruppi di messaggistica.
I dibattiti tra i giornalisti del gruppo WhatsApp guidato dall’ufficio di Gerusalemme, che a un certo punto comprendeva 90 giornalisti ed editori, sono diventati così intensi che Pan, l’editore internazionale, è intervenuto.
“Dobbiamo fare un lavoro migliore comunicando tra noi mentre riportiamo le notizie, così le nostre discussioni sono più produttive e i nostri disaccordi meno distraenti”, ha scritto Pan in un messaggio WhatsApp del 28 novembre e riportato per la prima volta da Wall Street Journal. “Nella migliore delle ipotesi, questo canale è stato uno spazio rapido, trasparente e produttivo per collaborare a una storia complessa e in rapida evoluzione. Nel peggiore dei casi, è una discussione difficile in cui le domande e i commenti possono sembrare accusatori e personali”.
Pan ha dichiarato senza mezzi termini “di non utilizzare questo canale per sollevare dubbi circa la copertura”.
Tra gli argomenti di dibattito nel gruppo WhatsApp dell’ufficio di Gerusalemme e negli scambi su Slack, esaminati e verificati con molteplici fonti giornalistiche, c’erano gli attacchi israeliani all’Ospedale Al-Shifa, le statistiche sulle morti civili palestinesi, le accuse di Condotta Genocida da parte di Israele, e la consuetudine del Presidente Joe Biden di promuovere come fatti le accuse non verificate del governo israeliano. (Pan non ha risposto a una richiesta di commento.)
Molti degli stessi dibattiti sono stati affrontati nelle linee guida specifiche per Gaza del Times e sono stati oggetto di un intenso esame pubblico.
“Non è insolito che le società di informazione stabiliscano linee guida specifiche”, ha detto un’altra fonte della redazione del Times, che ha chiesto l’anonimato. “Ma ci sono parametri unici applicati alla violenza perpetrata da Israele. I lettori se ne sono accorti ed è comprensibile la loro frustrazione”.
“Parole come ‘Massacro'”
L’informativa del Times fornisce indicazioni su una serie di frasi e termini. “La natura del conflitto ha portato ad un linguaggio esasperato e ad accuse incendiarie da tutte le parti. Dovremmo essere molto cauti nell’usare questo linguaggio, anche tra virgolette. Il nostro obiettivo è fornire informazioni chiare e accurate, e un linguaggio acceso può spesso oscurare anziché chiarire il fatto”, si legge nel documento.
“Parole come ‘Massacro’, ‘Strage’ e ‘Carneficina’ spesso trasmettono più emozioni che informazioni. Pensaci bene prima di usarli”, si legge nel documento. “Possiamo spiegare perché applichiamo queste parole a una particolare situazione e non a un’altra? Come sempre, dovremmo concentrarci sulla chiarezza e la precisione: descrivere cosa è successo piuttosto che usare un’etichetta”.
Nonostante la circolare sia stata inquadrata come un tentativo di non usare un linguaggio incendiario per descrivere gli omicidi “da tutte le parti”, nel Times che riportava la guerra di Gaza, tale linguaggio è stato usato ripetutamente per descrivere gli attacchi contro gli israeliani da parte dei palestinesi e quasi mai nel caso dell’uccisione su larga scala dei palestinesi da parte di Israele.
A gennaio, The Intercept ha pubblicato un’analisi della copertura della guerra del New York Times, del Washington Post e del Los Angeles Times dal 7 ottobre al 24 novembre 2023, un periodo per lo più precedente alla pubblicazione delle nuove linee guida del Times. L’analisi di The Intercept ha mostrato che i principali giornali riservavano termini come “Massacro”, “Carneficina” e “Orribile” quasi esclusivamente ai civili israeliani uccisi dai palestinesi, piuttosto che ai civili palestinesi uccisi negli attacchi israeliani.
Dall’analisi è emerso che, al 24 novembre, il New York Times aveva descritto le morti israeliane come un “Massacro” in 53 occasioni e solo 1 volta nel caso dei palestinesi. Il rapporto per l’uso della parola “Massacro” era di 22 a 1, anche se il numero documentato di palestinesi uccisi saliva a circa 15.000.
L’ultimo bilancio delle vittime palestinesi ammonta a oltre 33.000, tra cui almeno 15.000 bambini, probabilmente sottostimate a causa del collasso delle infrastrutture sanitarie di Gaza e delle persone scomparse, molte delle quali si ritiene siano morte tra le macerie dei palazzi rasi al suolo dagli attacchi israeliani negli ultimi sei mesi.
Discussioni sensibili
La circolare interna del Times tocca alcuni dei termini più accesi, e controversi, sul conflitto israelo-palestinese. La guida precisa, ad esempio, l’uso del termine “Terrorista”, che a nostro avviso era al centro di un vivace dibattito in redazione.
“È corretto usare i termini ‘Terrorismo’ e ‘Terrorista’ nel descrivere gli attacchi del 7 ottobre, che includevano il prendere deliberatamente di mira i civili con omicidi e rapimenti”, secondo il documento trapelato del Times. “Non dovremmo rifuggire da questa descrizione degli eventi o degli aggressori, in particolare quando forniamo contesto e spiegazione”.
La guida inoltre istruisce i giornalisti a “Evitare la definizione ‘Combattenti’ quando si fa riferimento all’attacco del 7 ottobre; il termine suggerisce una guerra convenzionale piuttosto che un attacco deliberato contro i civili. E ad essere cauti nell’usare la definizione ‘Militanti’, che può essere interpretato in modi diversi e può creare confusione per i lettori”.
Nel documento, i redattori dicono ai giornalisti del Times: “Non abbiamo bisogno di assegnare una singola etichetta o di fare riferimento all’assalto del 7 ottobre come a un’attacco terroristico’ in ogni riferimento; la parola è usata al meglio quando si descrivono specificamente attacchi contro civili. Dovremmo esercitare moderazione e variare il linguaggio con altri termini e descrizioni accurati: un attacco, un assalto, un’incursione, l’attacco più letale contro Israele negli ultimi decenni, ecc. Allo stesso modo, oltre a ‘Terroristi’, possiamo variare i termini utilizzati per descrivere i membri di Hamas che hanno compiuto l’assalto: Aggressori, Assalitori, Uomini Armati”.
Il Times non caratterizza i ripetuti attacchi di Israele contro i civili palestinesi come “Terrorismo”, anche quando i civili sono stati presi di mira. Ciò vale anche per gli assalti di Israele contro siti civili protetti, compresi gli ospedali.
In una sezione intitolata: “Genocidio e altro linguaggio incendiario”, la guida afferma che “il ‘Genocidio’ ha una definizione specifica nel Diritto Internazionale. A nostro avviso, dovremmo generalmente utilizzarlo solo nel contesto di tali parametri giuridici. Dovremmo anche stabilire un livello elevato per consentire ad altri di usarlo come un’accusa, tra virgolette o meno, tranne che non stiano sostenendo un’argomentazione sostanziale basata sulla definizione legale”.
Per quanto riguarda la “Pulizia Etnica”, il documento la definisce “un altro termine storicamente carico”, istruendo i giornalisti: “Se qualcuno sta facendo una tale accusa, dovremmo insistere per i dettagli o fornire il contesto adeguato”.
In contrasto con le norme internazionali
Nei casi in cui si descrive il “Territorio Occupato” e lo status dei rifugiati a Gaza, le linee guida come quelle del Times vanno contro le norme stabilite dalle Nazioni Unite e dal Diritto Umanitario Internazionale.
Sul termine “Palestina”, un nome ampiamente usato sia per il Territorio che per lo Stato riconosciuto dalle Nazioni Unite, il documento del Times contiene istruzioni precise: “Non utilizzare nelle date, nei testi o nei titoli, tranne in casi molto rari come quando il l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha elevato la Palestina a Stato osservatore non membro, riferimenti alla Palestina storica”. La guida del Times assomiglia a quella dell’Associated Press.
Il documento invita i giornalisti a non usare l’espressione “Campi Profughi” per descrivere gli insediamenti di lunga data dei Rifugiati a Gaza. “Anche se chiamati campi profughi, i centri profughi a Gaza sono quartieri sviluppati e densamente popolati risalenti alla guerra del 1948. Fare riferimento a loro come quartieri, o aree e, se è necessario un ulteriore contesto, spiegate come storicamente sono stati chiamati campi profughi”.
Le Nazioni Unite riconoscono otto campi profughi nella Striscia di Gaza. L’anno scorso, prima dell’inizio della guerra, queste aree ospitavano più di 600.000 Rifugiati registrati. Molti sono discendenti di coloro che fuggirono a Gaza dopo essere stati espulsi con la forza dalle loro case durante la guerra arabo-israeliana del 1948, che segnò la fondazione dello Stato Ebraico e l’espropriazione di massa di centinaia di migliaia di palestinesi.
Il governo israeliano è da tempo ostile al fatto storico che i palestinesi mantengano lo status di rifugiati, perché ciò significa che sono stati sfollati da terre alle quali hanno il diritto di tornare.
Dal 7 ottobre, Israele ha ripetutamente bombardato i campi profughi a Gaza, tra cui Jabaliya, Al Shati, Al Maghazi e Nuseirat.
Le istruzioni del documento sull’uso del termine “Territori Occupati” recitano: “Quando possibile, evitare il termine e essere specifici (ad esempio Gaza, Cisgiordania, ecc.) poiché ciascuno ha uno status leggermente diverso”. Le Nazioni Unite, insieme a gran parte del mondo, considerano Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est Territori Palestinesi Occupati, conquistati da Israele nella guerra arabo-israeliana del 1967.
L’ammonimento contro l’uso del termine “Territori Occupati”, ha detto un membro del personale del Times, oscura la realtà del conflitto, alimentando l’insistenza di Stati Uniti e Israele sul fatto che il conflitto sia iniziato il 7 ottobre.
“In pratica si sta eliminando l’Occupazione dalla copertura giornalistica, che è il vero nocciolo del conflitto”, ha detto la fonte della redazione. “È come, ‘Oh non diciamo Occupazione perché potrebbe far sembrare che stiamo giustificando un attacco terroristico’”.
Jeremy Scahill è Corrispondente veterano e redattore generale presso The Intercept. È uno dei tre redattori fondatori. È un giornalista investigativo, corrispondente di guerra e autore dei best-seller internazionali “Guerre Sporche: Il Mondo è un Campo di Battaglia” e “Blackwater: L’ascesa del Mercenario più Potente del Mondo”. È stato corrispondente dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Somalia, dallo Yemen, dalla Nigeria, dall’ex Jugoslavia e da altre parti del mondo. Scahill è stato corrispondente per la sicurezza nazionale per The Nation e Democracy Now!. Il lavoro di Scahill ha dato il via a diverse indagini del Congresso e ha vinto alcuni dei più alti riconoscimenti del giornalismo. Ha ricevuto due volte il prestigioso Premio George Polk, nel 1998 per i servizi giornalistici esteri e nel 2008 per “Blackwater”. Scahill è un produttore e scrittore del pluripremiato film “Guerre Sporche”, che è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel 2013 ed è stato nominato all’Oscar.
Ryan Grim è il capo dell’ufficio di The Intercept a Washington D.C. e il conduttore del programma radio web (podcast) Deconstructed. È autore della newsletter Politics With Ryan Grim e in precedenza è stato capo dell’ufficio di Washington per HuffPost, dove ha guidato una squadra che è stata due volte finalista per il Premio Pulitzer e lo ha vinto una volta. Ha curato e contribuito a un reportage innovativo sul trattamento dell’eroina che non solo ha cambiato le leggi federali e statali, ma ha anche cambiato la cultura dell’industria del recupero. Il racconto, di Jason Cherkis, è stato finalista al Pulitzer e ha vinto un Premio Polk. È stato corrispondente della redazione di Politico e del Washington City Paper ed è co-conduttore dello spettacolo Counter Points. È autore dei libri “Abbiamo Delle Persone” (We’ve Got People – 2019) e “Questo è il Tuo Paese in Droga” (This Is Your Country on Drugs – 2009). Il suo terzo libro, pubblicato nel dicembre 2023, è “La Squadra: AOC e la Speranza di Una Rvoluzione Politica” (The Squad: AOC and the Hope of a Political Revolution).
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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