Non Commetterai Genocidio

Opporsi al Genocidio è una scelta morale, non politica.

Fonte: English version

Di Chris Hedges – 16 agosto 2024

C’è solo un modo per porre fine al Genocidio in corso a Gaza. Non è attraverso negoziati bilaterali. Israele ha ampiamente dimostrato, anche con l’assassinio del principale negoziatore di Hamas, Ismail Haniyeh, di non avere alcun interesse in un cessate il fuoco permanente. L’unico modo per fermare il Genocidio dei palestinesi da parte di Israele è che gli Stati Uniti interrompano tutte le spedizioni di armi a Israele. E l’unico modo in cui ciò accadrà è che un numero sufficiente di americani chiarisca di non avere intenzione di sostenere alcun candidato presidenziale o partito politico che appoggi questo Genocidio.

Gli argomenti contro il boicottaggio dei due partiti al governo sono noti: ciò garantirebbe l’elezione di Donald Trump. Kamala Harris ha mostrato retoricamente più compassione di Joe Biden. Non siamo abbastanza per avere un impatto. Possiamo lavorare all’interno del Partito Democratico. La lobby israeliana, in particolare il Comitato Americano per gli Affari Pubblici di Israele (AIPAC), che possiede la maggior parte dei membri del Congresso, è troppo potente. I negoziati alla fine porteranno alla cessazione del Massacro.

In breve, siamo impotenti e dobbiamo rinunciare al nostro libero arbitrio per sostenere un Progetto di Omicidio di Massa. Dobbiamo accettare come normale governo l’invio di centinaia di milioni di dollari in aiuti militari a uno Stato di Apartheid, l’uso del veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per proteggere Israele e l’ostruzione attiva degli sforzi internazionali per porre fine agli Omicidi di Massa. Non abbiamo scelta.

Il Genocidio, il Crimine dei Crimini riconosciuto a livello internazionale, non è una questione politica. Non può essere equiparato ad accordi commerciali, progetti di legge sulle infrastrutture, scuole paritarie o immigrazione. È una questione morale. Si tratta dell’eliminazione di un popolo. Qualsiasi resa al Genocidio ci condanna come nazione e come specie. Fa precipitare la società globale sempre più vicina alla barbarie. Svuota lo Stato di Diritto e si fa beffe di ogni valore fondamentale che pretendiamo di onorare. È in una categoria a sé stante. E non combattere il Genocidio con ogni fibra del nostro essere significa essere complici di ciò che Hannah Arendt definisce “Male Radicale”, il male per cui gli esseri umani, in quanto esseri umani, sono resi superflui.

La moltitudine di studi sull’Olocausto avrebbe dovuto sottolineare questo punto indelebile. Ma gli studi dell’Olocausto furono dirottati dai sionisti. Insistono sul fatto che l’Olocausto è unico, che in qualche modo è separato dalla natura umana e dalla storia umana. Gli ebrei vengono divinizzati come eterne vittime dell’antisemitismo. I nazisti sono dotati di un tipo speciale di disumanità. Israele, come conclude l’istituzione Museo della Memoria dell’Olocausto di Washington, è la soluzione. L’Olocausto fu uno dei numerosi Genocidi compiuti nel 19° e 20° secolo. Ma il contesto storico viene ignorato e con esso la nostra comprensione delle dinamiche dello Sterminio di Massa.

La lezione fondamentale dell’Olocausto, sottolineata da scrittori come Primo Levi, è che tutti possiamo diventare carnefici volontari. Ci vuole pochissimo. Tutti possiamo diventare complici, anche solo attraverso l’indifferenza e l’apatia, nel male.

“Esistono mostri”, scrive Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, “ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi. Più pericolosi sono gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad agire senza porsi domande”.

Affrontare il male, anche se non c’è alcuna possibilità di successo, mantiene viva la nostra Umanità e Dignità. Ci permette, come scrive Vaclav Havel in “Il Potere Degli Impotenti”, di vivere nella verità, una verità che i potenti non vogliono che venga rivelata e cercano di sopprimere. Fornisce una luce guida a coloro che verranno dopo di noi. Dice alle vittime che non sono sole. È “la rivolta dell’Umanità contro una posizione imposta” e un “tentativo di riprendere il controllo sul proprio senso di responsabilità”.

Cosa dice di noi se accettiamo un mondo in cui armiamo e finanziamo una nazione che uccide e ferisce centinaia di innocenti al giorno?

Cosa ci dice di noi se sosteniamo una carestia pianificata e l’avvelenamento delle riserve idriche dove è stato rilevato il virus della poliomielite, il che significa che decine di migliaia di persone si ammaleranno e molte moriranno?

Cosa dice di noi se permettiamo per dieci mesi il bombardamento di campi profughi, ospedali, villaggi e città per sterminare famiglie e costringere i sopravvissuti ad accamparsi all’aperto o a trovare rifugio in tende di fortuna?

Cosa dice di noi il fatto che accettiamo l’omicidio di 16.456 bambini, anche se questa è sicuramente una sottostima?

Cosa dice di noi quando guardiamo Israele intensificare gli attacchi contro le strutture delle Nazioni Unite, le scuole, inclusa la scuola Al-Tabaeen nella città di Gaza, dove oltre 100 palestinesi sono stati uccisi mentre eseguivano il Fajr, la preghiera all’alba, e altri rifugi di emergenza?

Cosa dice di noi quando permettiamo a Israele di usare i palestinesi come Scudi Umani costringendo i civili ammanettati, compresi bambini e anziani, ad entrare in tunnel ed edifici potenzialmente pieni di trappole esplosive prima delle truppe israeliane, a volte vestite con uniformi militari israeliane?

Cosa dice di noi il sostegno ai politici e ai soldati che difendono lo Stupro e la Tortura dei prigionieri?

Sono questi i tipi di alleati che vogliamo potenziare? È questo il comportamento che vogliamo abbracciare? Che messaggio manda questo al resto del mondo?

Se non ci atteniamo agli imperativi morali, siamo condannati. Il male trionferà. Significa che non esiste giusto e sbagliato. Significa che qualsiasi cosa, compreso l’Omicidio di Massa, è ammissibile. I manifestanti fuori dal Congresso Nazionale Democratica presso lo United Center di Chicago chiedono la fine del Genocidio e degli aiuti degli Stati Uniti a Israele, ma all’interno siamo alimentati da un disgustoso conformismo. La speranza è nelle strade.

Una presa di posizione morale ha sempre un costo. Se non ci sono costi, non è morale. È semplicemente una credenza convenzionale.

“Ma quale sarà il prezzo della pace?” il sacerdote cattolico radicale Daniel Berrigan, che è stato mandato in una prigione federale per aver bruciato i documenti di leva durante la Guerra in Vietnam, chiede nel suo libro “No Bars to Manhood” (Nessun Limite al Coraggio):

Penso alle migliaia di persone buone, oneste e amanti della pace che ho conosciuto, e mi interrogo. Quanti di loro sono così afflitti dalla malattia devastante della normalità che, anche mentre dichiarano la pace, le loro mani si protendono con uno spasmo istintivo in direzione delle loro comodità, della loro casa, della loro sicurezza, del loro reddito, del loro futuro, dei loro piani: quel piano quinquennale di studi, quel piano decennale di status professionale, quel piano ventennale di crescita e unità familiare, quel piano cinquantennale di vita dignitosa e di morte naturale onorevole. “Certo, manteniamo la pace”, gridiamo, “ma allo stesso tempo manteniamo la normalità, non perdiamo nulla, lasciamo che le nostre vite restino intatte, non conosciamo né prigione, né cattiva reputazione, né interruzione dei legami”. E perché dobbiamo comprendere questo e proteggere quello, perché a tutti i costi, a qualsiasi costo, le nostre speranze devono marciare secondo programma, e perché è inaudito che in nome della pace cada una spada, spezzando quella rete sottile e astuta che le nostre vite hanno tessuto, perché è inaudito che uomini buoni subiscano ingiustizie o che le famiglie si dividano o che si perda la buona reputazione, per questo gridiamo pace e gridiamo pace, e non c’è pace. Non c’è pace perché non ci sono costruttori di pace. Non ci sono costruttori di pace perché fare la pace è almeno altrettanto costoso quanto fare la guerra, almeno altrettanto impegnativo, almeno altrettanto dirompente, almeno altrettanto suscettibile di portare disgrazia, prigione e morte sulla sua scia.

La questione non è se la Resistenza sia pratica. La questione è se la Resistenza sia giusta. Ci viene detto di amare il nostro prossimo, non la nostra razza. Dobbiamo avere fiducia che il bene attiri a sé il bene, anche se l’evidenza empirica intorno a noi è desolante. Il bene è sempre incarnato nell’azione. Deve essere visto. Non importa se la società nel suo insieme è censoria. Siamo chiamati a sfidare, attraverso atti di disobbedienza civile e non conformità, le leggi dello Stato, quando queste leggi, come spesso accade, sono in conflitto con la Legge Morale. Dobbiamo stare, costi quel che costi, con i perseguitati della terra. Se non riusciamo a prendere questa posizione, sia contro gli abusi della polizia militarizzata, contro la disumanità del nostro vasto sistema carcerario o contro il Genocidio di Gaza, diventiamo i persecutori.

Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’Ufficio per il Medio Oriente e dell’Ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È il conduttore dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On Contact.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org