Lo shock di essere sfollata e di sapere che la mia casa è stata semidistrutta non ha intaccato il mio desiderio di tornare.
Fonte: English version
di Anonima -7 agosto 2024
Immagine di copertina: La casa della scrittrice e le rose curate dal padre. Foto fornita dalla scrittrice.
Mentre stavamo festeggiando il compleanno di mia sorella maggiore Laila, il 28 maggio 2024, tutto si è capovolto: il suono dei bombardamenti di artiglieria, degli attacchi aerei e del fuoco dei droni ha riempito l’aria. I notiziari non offrivano alcuna spiegazione e tutti si chiedevano quale fosse l’origine di questi suoni.
Il mio telefono squillò, era la mia amica: “Fatima, dov’è tutto questo? È vicino a te? Senti anche tu quello che sentiamo noi? Abbiate cura di voi! Che Dio ti protegga, habibti!”.
Io e la mia famiglia ci siamo riuniti nel salotto al primo piano della nostra casa. Gli unici suoni erano le preghiere sussurrate di mia madre e la raffica incessante di esplosioni che ci rendeva impossibile anche solo battere le palpebre.
Abbiamo cercato di trovare aggiornamenti dai notiziari, ma non c’era nulla di chiaro finché, dopo un po’, le notizie hanno iniziato ad arrivare:
“L’esercito israeliano stava avanzando sul corridoio di Philadelphi e su Tal Zourob, dirigendosi rapidamente verso il centro di Rafah!”
Mio padre decise che dovevamo evacuare nella zona di Mawasi, a Khan Younis. Andò a cercare un veicolo per trasportare ciò che ci sarebbe servito, ma tornò a mani vuote a causa dell’elevato numero di persone in fuga. Abbiamo quindi deciso di partire il giorno seguente. Abbiamo impacchettato ciò che ci serviva e ciò che volevamo tenere, lasciando la nostra casa a un destino incerto.
Il nostro luogo sacro
La nostra casa è stata a lungo un luogo sacro per la nostra famiglia. Pensavamo che sarebbe stato il nostro luogo di stabilità, dove saremmo sempre potuti tornare quando la vita si fosse fatta dura, e che ci avrebbe aspettato.
Mio padre comprò questa casa con giardino nel 2014, dopo aver vissuto un lungo sfollamento perché la sua casa nel 2004 era stata demolita dall’occupazione israeliana. Aveva già vissuto lo sfollamento a Rafah, Khan Younis e Gaza, e vedeva questa casa come un investimento e un tesoro, un luogo dove raccogliere tutti i ricordi importanti della vita.
Mio padre scelse con cura la posizione della casa. Era vicina alle scuole medie e superiori, non lontana dal mercato e nemmeno dal mare, e in una zona tranquilla e nuova con un grande giardino dove poter piantare fiori. Decorò l’ingresso con fiori rosa e scelse meticolosamente i mobili, i colori e il design.
La nostra casa non era solo muri e tetto. Era l’età di mio fratello minore Ahmed, che aspettavamo con ansia. Ahmed ha mosso i suoi primi passi in questa casa, ha pronunciato le sue prime parole, ha riso e pianto qui e qui ha provato le sue prime emozioni. Abbiamo festeggiato ogni suo compleanno in questa casa, desiderando che durasse per sempre. Ora Ahmed sta vivendo il suo primo sfollamento, allontanato con la forza dalla sua stanza, dai suoi giocattoli e dai suoi ricordi. Implora: “Quando torneremo a casa?”.
La casa ha visto il successo di mia sorella Laila nel Tawjihi, l’ultimo anno di scuola superiore, e anche il mio. La speranza era che Laila, medico, e io, avvocata, ci diplomassimo in questa casa. Quest’anno avrebbe dovuto assistere al successo di mia sorella minore Menna, che ha tre anni meno di me. Ricordo ancora i festeggiamenti quando ho preso 98,3 alle superiori e le riunioni nel nostro giardino.
Questa casa significa tutto per me, è il mio posto in questo mondo. Ogni volta che tornavo a casa dopo una lunga giornata all’università, appoggiavo la testa alla porta e dicevo a voce alta: “Casa dolce casa” e sentivo mio padre rispondere: ”Bentornata, habibti“, con un sorriso sul volto.
Dove venivano conservati i ricordi preziosi
Mio padre conservava i nostri ricordi e i suoi libri al terzo piano, libri che aveva portato dall’India dopo aver completato gli studi. Aveva sempre sognato di avere una biblioteca dove potersi sedere e condividere con noi le sue conoscenze e i suoi ricordi. Ogni suo libro aveva una frase e una data, noi le leggevamo e dicevamo: “È passato tanto tempo, Baba, wow”, e mio padre rideva.
Una delle frasi che aveva scritto nei suoi libri quando studiava in India all’Università di Nagpur, con la nostalgia della sua città natale, Rafah, era: “Rafah, non dimenticarmi e non fare troppe domande. Sto tornando, aspettami!”. Scoppiai a piangere quando la lessi: Mia amata Rafah, non dimenticarti di me. Continua ad aspettarmi, sto tornando a casa!
Mio padre non conservava solo libri, ma anche tutti i nostri ricordi d’infanzia, a partire dalla culla che prima apparteneva a mia sorella Laila e poi è diventata di Ahmed. Ha persino conservato i vestiti della nostra infanzia. Ho imparato da mio padre che le cose hanno valore non per il loro prezzo, ma per i loro ricordi.
Una tenda, non una casa
Ora siamo stati trasferiti in un campo profughi. Dietro la nostra tenda c’è un cimitero di martiri, alcuni dei quali non sono stati identificati, mentre altri sono stati identificati dalle loro famiglie. In quest’unica area, il destino della popolazione di Gaza è illustrato in modo crudo: una parte che vive in condizioni subumane e l’altra che giace fredda nelle proprie tombe, uccisa ingiustamente e anonimamente.
Il terzo giorno di sfollamento abbiamo sentito piangere dietro la nostra tenda. Era una donna che visitava la tomba del marito. Erano sposati solo da un anno e mezzo e avevano una bambina di appena nove mesi, “che aveva il nostro stesso nome”. Il mio cuore soffre per il loro amore incompiuto e per la bambina che crescerà senza conoscere suo padre, senza alcun ricordo a cui aggrapparsi.
Da quando siamo sfollati, ascoltiamo la radio e sentiamo notizie di “demolizione di blocchi residenziali nel quartiere saudita” e di “bombardamenti di artiglieria che colpiscono il quartiere saudita”. A Mawasi Khan Younis, sentiamo ogni eco di ciò che sta accadendo nella parte occidentale di Rafah, dove si trova la mia casa.
Ad ogni esplosione, il mio cuore soffre. Chiudo gli occhi e l’immagine della mia casa mi inonda la mente.
Ogni volta che mi siedo nella tenda, mi vengono in mente tutti i ricordi che non abbiamo potuto portare con noi. I miei libri, che volevo tenere per mostrarli ai miei figli quando saremmo andati a visitare la grande casa del nonno, sono stati lasciati indietro.
Mio padre tornerà ai suoi libri? Tornerò alla mia biblioteca, alla mia stanza? Mi metterò di nuovo davanti al mio specchio? Ci riuniremo ancora una volta nella sala da pranzo, lodando la cucina di mia madre? Torneremo a sederci in giardino la sera? Tornerò a stare davanti alla nostra casa e a dire quanto sono belli i fiori? Le nostre risate torneranno negli angoli della casa?
Quanto durerà questo desiderio? Quanto tempo ci vorrà per riunirci?
Sessanta giorni di sfollamento sembrano 60 anni di sfollamento. La nostalgia della nostra casa mi sta uccidendo; voglio solo un altro secondo lì, solo un altro momento e niente di più. Per me, sfollamento significa essere stremati dalla nostalgia della propria casa e dalla preoccupazione per il suo destino incerto.
Persa la casa, persa l’anima
Dall’inizio della guerra, ogni giorno mi sento come se stessi perdendo una parte di me stessa. Ho cercato di combattere questa sensazione aggrappandomi alle cose che amo, ma da quando abbiamo lasciato la nostra casa, ho perso me stessa. Ho perso la mia identità e tutte le mie emozioni, tranne un’irrefrenabile nostalgia di casa: la mia stanza, il mio letto, il mio specchio, la nostra altalena.
Ora, l’unica visione che ho della vita è quella di non essere uccisa.
Non voglio più sapere perché esisto, perché potrei essere uccisa un secondo dopo e verrei ricordata solo come un numero nei notiziari (“oggi è stata uccisa un’altra gazawa”). Ha importanza?
Lo scrivo mentre, seduta per strada cerco di accedere a Internet, in una tenda vicina stanno suonando i Takbirat Al-Eid, canti recitati durante le feste islamiche di Eid al-Fitr e Eid al-Adha. Mi vengono le lacrime.
Non posso credere che in questo momento sto sentendo la voce che ero solita sentire mentre, seduta nella mia stanza, mi prendevo cura dei capelli e della pelle, preparandomi per l’Al-Eid. Dalla finestra della mia stanza potevo vedere la nostra bella moschea di Taiba, che è stata colpita da quando siamo stati costretti a lasciare la nostra bella casa.
Ora mi chiedo: dov’è la mia casa e che aspetto ha? Come continua a vivere il mondo fuori? Come fanno ad amare? Come inseguono i loro sogni e la loro istruzione? Come costruiscono la famiglia e cercano la stabilità? Come si sforzano di avere un lavoro stabile senza la paura che tutto possa essere portato via in un secondo? Come vivono senza essere consumati dalla paura?
Di recente abbiamo ricevuto notizie della nostra casa quando l’esercito si è ritirato temporaneamente dall’area occidentale di Rafah. Ora è per metà scomparsa, per metà distrutta, per metà inesistente! Sono svuotata e stanca per la mia inutile speranza. Tutti i miei sogni di essere a casa sono stati infranti, ma desidero ancora tornare a casa – qualunque cosa ne sia rimasta.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org