Nel villaggio di Jit ci sono ancora le auto bruciate nell’assalto dei coloni e i segni dei proiettili che hanno ucciso Rashid, uscito a difendere casa sua. Ormai è la norma, tanto che gli stessi servizi israeliani parlano di “terrore”
La Stampa – Francesca Mannocchi
25 Agosto 2024 alle 01:00 5 minuti di lettura
JIT, CISGIORDANIA. La sera del 15 agosto gli altoparlanti della moschea di Jit non hanno chiamato i fedeli alla preghiera, ma i cittadini a difendere la città.
Al tramonto un gruppo di cento coloni armati di pistole, M16 e bottiglie incendiarie ha fatto irruzione dall’avamposto di Havat Gilad e dagli insediamenti che circondano Jit, incendiando case, automobili e aprendo il fuoco verso gli uomini accorsi a difendere la città con le pietre.
Uno di loro, Rashid Sidda, 23 anni, è stato colpito al petto ed è morto. Jit è una città palestinese nel Nord della Cisgiordania occupata, dieci chilometri circa a ovest di Nablus. Una comunità di duemila persone circondata da avamposti e insediamenti illegali. Quella sera Rashid era a casa con tutta la famiglia e dopo la chiamata dell’imam è uscito con il fratello a difendere il villaggio. I coloni erano entrati in più direzioni dalle colline, tutti con le stesse uniformi nere e il volto coperto.
Nelle immagini delle telecamere di sorveglianza di alcune abitazioni alla periferia di Jit, si vedono gruppi di coloni assaltare le case e dare loro fuoco, altri che spaccano i vetri delle macchine per incendiarle. Altri ancora, dentro le abitazioni, che cospargono i mobili di benzina prima di darli alle fiamme.
Rashid è stato uno dei primi ad accorrere, suo fratello Waseen racconta che fosse «vicinissimo, a meno di dieci metri dai coloni». Per difendersi non avevano armi. Così, mentre i più anziani cercavano di spegnere le fiamme con i secchi d’acqua e cercavano di proteggere i bambini, i più giovani lanciavano pietre. Poi gli spari.
Quando Rashid è stato colpito, suo fratello era accanto a lui, e ha cominciato a gridare che serviva un’ambulanza, ma per un’ora e mezzo non c’è stato modo di portarlo via. I soldati israeliani, che sono responsabili della sicurezza nell’area C, sono arrivati solo dopo un’ora e mezza. Quando all’ambulanza è stato concesso di arrivare a Jit era già tardi. Le uscite della città sono rimaste poi bloccate per ore e quando Waseem ha saputo della morte del fratello era già troppo tardi. «Mi hanno chiamato dall’ospedale, mi hanno detto: Rashid è morto. E io ho detto solo: non è possibile. Poi mi sono steso a terra, e ho pianto».
Le parole di Waseen sono confermate da tutti i presenti all’attacco, uno di loro Muawiya Sidda vive in una casa all’estremità di Jit. I coloni hanno rotto le finestre di casa sua e hanno gettato dentro una molotov. Quando è iniziato l’attacco sua moglie stava allattando la figlia di due anni. «L’esercito è arrivato tardi, e poi è rimasto all’ingresso della città. Noi non potevamo uscire e l’ambulanza non poteva entrare. Solo dopo due ore hanno sparato in aria per disperdere i coloni. Vogliono che ce ne andiamo via tutti».
L’aumento delle violenze dei coloni
L’attacco di Jit è solo l’ennesimo nella lista delle violenze senza precedenti di questi mesi. Dall’inizio dell’offensiva militare israeliana a Gaza, i numeri degli attacchi nei territori occupati sono aumentati drammaticamente. L’Onu ha documentato oltre 1. 000 attacchi dei coloni in Cisgiordania dall’inizio della guerra, con una media di quattro al giorno. È il doppio della media dello stesso periodo dell’anno scorso. I funzionari sanitari palestinesi affermano che 633 palestinesi, tra cui 147 tra bambini e adolescenti, sono stati uccisi dal fuoco israeliano e oltre 5. 400 sono rimasti feriti. Molte delle vittime sono state uccisi durante i raid militari israeliani nelle città ma i coloni hanno ucciso 12 palestinesi, tra cui due bambini, e ferito 234 persone, secondo Aida, un ombrello di organizzazioni no-profit che lavora nei territori occupati. Sempre secondo le Nazioni Unite nello stesso periodo di tempo sono stati uccisi diciotto israeliani. Le violenze dei coloni nei territori occupati non sono esplose in questi mesi, ma sono certamente aumentate notevolmente dall’insediamento del governo di estrema destra alla fine del 2022. Quello che è cambiato è l’aperto sostegno degli esponenti politici che ora sono membri del governo e che per anni hanno alimentato la violenza dei coloni e della “gioventù delle colline”.
Stavolta, a differenza delle precedenti, sia Netanyahu che alcuni dei suoi ministri si sono affrettati a condannare l’attacco. Più che un cambio di passo sembrano però animati dalla paura delle sanzioni. Lo scorso febbraio, infatti, con una decisione senza precedenti, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni contro quattro coloni responsabili di violenze contro i palestinesi. Pochi giorni dopo, il Regno Unito ha fatto lo stesso. Nonostante le condanne pubbliche, tuttavia, le autorità non sembrano avere fretta di trovare i colpevoli. Dei cento coloni che hanno partecipato all’attacco, solo quattro sono stati fermati, uno di loro è stato già rilasciato. Approccio che conferma i numeri di questi anni, l’impunità che si è fatta norma. Secondo i dati del gruppo israeliano per i diritti umani Yesh Din, il 97 percento dei fascicoli della polizia aperti nei casi di violenza dei coloni dal 2005 sono stati chiusi senza condanne.
La lettera del capo dello Shin Bet
Due giorni fa è stata diffuso il contenuto della lettera che Ronen Bar, capo dello Shin Bet, l’agenzia di sicurezza interna israeliana, indirizzata al primo ministro Benjamin Netanyahu, al procuratore generale e ai membri del governo, di cui fanno parte alcuni sostenitori dei coloni più estremisti. Bar, in carica dal 2021, ha detto di aver deciso di inviare la lettera «con dolore e grande paura, come ebreo, come israeliano e come funzionario della sicurezza», sul crescente fenomeno del terrorismo ebraico da parte dei “giovani delle colline”, perché pensa che la situazione sia ormai così critica e delicata per la sicurezza nazionale, che sia necessaria una svolta. La campagna terroristica, ha detto con parole di inedita forza, è «una grande macchia per l’ebraismo e per tutti noi».
Le parole di Ronen Bar rendono ancor più evidente la crepa tra l’apparato della sicurezza di Israele e l’ala più estremista del governo Netanyahu che non ha perso occasione negli ultimi anni, e in particolare dopo il 7 ottobre, per alimentare e infuocare la spirale di violenza dei coloni in Cisgiordania. «Questi non sono crimini – scrive – è un uso della violenza per creare intimidazione, per diffondere paura. Questo è terrore». E ha sottolineato come la violenza si sia «significativamente ampliata» perché non c’è stata – e continua a non esserci – una risposta della polizia e per la connivenza di alcuni leader nazionali. Il riferimento è chiaro. Uno è il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir che aveva già in passato chiesto il suo licenziamento del capo dello Shin Bet, che è responsabile delle forze di polizia e che a ottobre è stato immortalato mentre distribuiva fucili d’assalto ai coloni e l’altro è Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze con delega agli insediamenti. A maggio Smotrich, che vive nell’insediamento di Kedumim a soli 10 minuti di distanza da Jit, ha annunciato l’approvazione di altre 10. 000 unità abitative in Cisgiordania, e a giugno ha affermato che «sviluppare insediamenti ebraici è il solo modo per impedire uno Stato palestinese».
Smotrich è anche colui che, quando lo scorso anno i coloni attaccarono la comunità di Hawara in modo analogo a come hanno fatto a Jit, scrisse: «Penso che il villaggio debba essere cancellato. Penso che lo stato di Israele debba farlo, non la gente comune». Ronen Bar, da tempo critico sui toni dei ministri di governo che infiammano la violenza, guarda ai “giovani delle colline”, i figli degli insediamenti, che descrive come un focolaio di violenza contro i palestinesi, incoraggiati da «un segreto senso di sostegno da parte della polizia». Parole, quelle del capo dello Shin Bet, che confermano tutte le testimonianze dei palestinesi secondo cui la polizia israeliana chiude sistematicamente gli occhi sull’estremismo e la violenza dei coloni. Eppure, scrive Bar, «questi sono i nostri figli, siamo responsabili della loro istruzione, della loro legittimazione o della sua mancanza, di stabilire il percorso e i confini».
Una vita senza speranza
Al calare della sera Waseem cammina verso il cimitero dove è sepolto Rashid. Prima del 7 ottobre Waseem studiava informatica all’università Khadoury di Tulkarem, poi le forze armate israeliane hanno bloccato le strade d’accesso alla città e suo padre ha perso il lavoro. Il permesso che prima gli consentiva di entrare in Israele era ormai carta straccia. Così Waseem ha smesso di studiare. Prima del 7 ottobre aveva dei sogni, come tutti i ventenni: finire l’università, trovare un buon lavoro, avere una famiglia. «Niente di eccezionale, dice, quando hai poche alternative è così». Cioè ti abitui ad avere desideri e speranze proporzionate a quello che hai intorno. Per mesi Rashid, che era il primogenito, è stato l’unico a lavorare per tutti. Per sua madre, suo padre e i quattro fratelli «qualsiasi cosa, dal cibo alle bollette, passava da lui». Oggi sopra la tomba di Rashid ci sono una bandiera palestinese e la sua kefiah. Waseem prega, poi si siede su un blocco di cemento, e parla con lui, continua il loro dialogo interrotto. «Dopo la morte di Rashid ho perso la speranza. I primi giorni provavo tre sentimenti, rabbia, rancore e tristezza. Pensavo che sarei riuscito a sopravvivere a questa perdita, ma ora non lo so più». Quando era in vita Waseem pensava che suo fratello gli sarebbe sempre stato accanto. Oggi quando pensa a Rashid pensa al vuoto che lo accompagnerà per sempre. Il vuoto di un fratello, ucciso dai coloni, a cui non ha potuto dire addio.