L’espansione aggressiva di Israele in Cisgiordania, che fa eco alla devastazione di Gaza, rivela una strategia più ampia per schiacciare la resistenza palestinese, esercitare un ulteriore controllo e rimodellare la regione – eppure non fa altro che accelerare il crollo del quadro di Oslo e dell’Autorità palestinese collaborativa.
Fonte: English version
Khalil Harb – 2 settembre 2024
L’attuale invasione israeliana della Cisgiordania, già occupata, ha messo a nudo la cruda realtà di Israele e della sua pluridecennale occupazione della Palestina: l’estensione dell’estremismo all’interno del suo governo, le tattiche ripetitive e inefficaci del suo esercito, la diminuzione dell’“autorità” di Mahmoud Abbas, l’obsolescenza degli accordi di Oslo, l’aumento della pressione sulla monarchia giordana e l’innegabile complicità degli Stati Uniti in queste atrocità quotidiane.
Questa grande offensiva in Cisgiordania – la più grande dello Stato di occupazione dalla Seconda Intifada – ha profonde implicazioni. Mentre il governo israeliano continua il suo 11° mese di guerra contro la Striscia di Gaza, ha esteso la sua campagna genocida a un’altra parte della Palestina storica, segnando una nuova fase del conflitto simile a una “Gaza 2.0”.
Gaza 2.0
Attaccando la Cisgiordania, Israele ha chiarito che le sue azioni contro Gaza non sono state solo una reazione all’operazione di resistenza guidata da Hamas dello scorso anno, Al-Aqsa Flood, ma fanno parte di una strategia più ampia per “giudaizzare” tutta la Palestina, come i gruppi di resistenza palestinesi hanno continuamente affermato dallo scoppio dell’ultima guerra.
Durante l’ultima sessione della riunione settimanale del governo israeliano, il ministro israeliano per la Protezione dell’Ambiente Idit Silman ha posto le città di Jenin e Nablus nella stessa categoria del confine tra Gaza e l’Egitto e ha ribadito il diritto di Israele a tutta la Palestina, dichiarando:
“Nel Corridoio di Filadelfia, a Jenin e a Nablus, dobbiamo attaccare per ereditare la terra. [Ereditare è il termine che deve essere usato, non il termine ‘occupazione’ della terra”.
Lo stesso giorno, il Ministro degli insediamenti e delle missioni nazionali Orit Strook ha invitato il Segretario militare di Israele e il Gabinetto di sicurezza a “dichiarare lo stato di guerra in Cisgiordania”.
In effetti, i fattori che guidano l’attuale esplosione in Cisgiordania rispecchiano quelli che hanno infiammato Gaza. Dall’inizio della guerra a Gaza, Israele ha intensificato le sue tattiche brutali in Cisgiordania: oltre 650 palestinesi sono stati uccisi, tra cui oltre 150 bambini.
Le forze di occupazione hanno condotto più di 10.300 operazioni, accompagnate da un aumento delle attività di insediamento e dalla distribuzione di decine di migliaia di armi alle bande di coloni, con un’ulteriore escalation di attacchi alle comunità palestinesi autoctone.
Persino Ronen Bar, capo dell’agenzia di sicurezza israeliana, lo Shin Bet, ha messo in guardia dall’aumento del “terrorismo ebraico”, avvertendo che tale estremismo potrebbe danneggiare ulteriormente la posizione internazionale e le alleanze regionali di Tel Aviv.
Nonostante questi avvertimenti, lo Stato di occupazione ha imparato poco dal suo breve passato. La campagna israeliana in corso in Cisgiordania continua a impiegare tattiche familiari ma inutili – assassinii (il più recente e notevole, Abu Shujaa di Tulkarem), distruzioni (soprattutto a Jenin e Tulkarem), imprigionamenti, intimidazioni, confisca di terre e demolizione di case e infrastrutture – nel vano tentativo di sradicare la resistenza palestinese, che ha sviluppato le sue capacità nonostante le dure condizioni repressive.
L’attuale aggressione, guidata dalle fazioni ultranazionaliste all’interno del governo israeliano, è una mossa calcolata per esercitare il controllo sulla Cisgiordania, simile alle sue tattiche brutali a Gaza. Come ha dichiarato il ministro degli Esteri Israel Katz:
“Dobbiamo affrontare la minaccia così come affrontiamo l’infrastruttura terroristica a Gaza, compresa l’evacuazione temporanea dei residenti palestinesi e tutte le misure necessarie. Questa è una guerra per tutto e dobbiamo vincerla.”
Almeno nel breve periodo, Israele è stato incoraggiato da condizioni favorevoli: il diffuso sostegno dell’opinione pubblica israeliana alle azioni aggressive, la necessità del governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di rivendicare una “vittoria” interna e un senso di impunità rafforzato dalla mancanza di un’efficace deterrenza statunitense o araba.
Aprire le porte della resistenza
La più grande incursione israeliana in Cisgiordania dal 2002 rivela che la strategia dello Stato di occupazione non è solo una reazione a eventi isolati, ma una campagna più ampia per smantellare la società e la resistenza palestinese e negare ai palestinesi le loro aspirazioni future.
L’invasione non è solo una continuazione della risposta ad Al-Aqsa Flood ; piuttosto, fa parte di uno sforzo più ampio per colpire i palestinesi ovunque si trovino e abbattere il loro morale. Le tattiche impiegate a Gaza – distruzione, devastazione e morte – vengono replicate, anche se in misura minore, in Cisgiordania, nonostante la mancanza di successo a Gaza e la crescente resistenza che ha scatenato.
In Cisgiordania si è assistito non solo a un aumento delle operazioni di resistenza convenzionali (coordinate da Hamas e dalla Jihad islamica palestinese), come sparatorie, accoltellamenti, imboscate e attentati dinamitardi, ma anche al ritorno delle operazioni di martirio e delle autobombe e alla comparsa, per la prima volta, dell’uso di proiettili RPG.
I leader israeliani e le fazioni ultranazionaliste hanno a lungo sostenuto la necessità di infliggere gravi sofferenze ai palestinesi e Netanyahu vede ora l’opportunità di raggiungere questo obiettivo attraverso una nuova ondata di violenza in città chiave della Cisgiordania come Jenin, Tulkarem, Tubas, Nablus, Ramallah e, più recentemente, Hebron.
Jenin, in particolare, il punto focale della battaglia del 2002 (e della più recente “Battaglia della Furia di Jenin” del luglio 2023), è vista come una minaccia persistente per l’entità di occupazione, in particolare a causa della forte coesione sociale dei residenti del campo, che, “A differenza di molte altre città e villaggi della Cisgiordania, il campo non è caratterizzato da divisioni politiche”.
L’“autorità” di Abbas è appesa a un filo
Tuttavia, Netanyahu potrebbe non aver considerato appieno i rischi. La situazione nel 2024 non è la stessa del 2002; Israele è già impegnato in molteplici conflitti su diversi fronti, mentre sale la scala dell’escalation. Se la Cisgiordania è soggetta a uno scenario “Gaza 2.0” – con distruzione sistematica, attacchi coordinati e sfollamenti di massa – la fragile Autorità Palestinese (AP) guidata da Abbas potrebbe crollare, seppellendo gli accordi di Oslo a tempo indeterminato ed erodendo ulteriormente qualsiasi prospettiva per la cosiddetta soluzione a due Stati.
Abbas deve affrontare sfide senza precedenti. È assediato dalla rabbia dei palestinesi della Cisgiordania, frustrati dalle continue sofferenze dei loro fratelli di Gaza, dalla morsa finanziaria imposta da Israele e dall’incessante espansione degli insediamenti. Le critiche nei confronti di Abbas hanno raggiunto un crescendo in tutta la Cisgiordania, evidenziando la disillusione per l’incapacità dell’Autorità palestinese di proteggere i diritti dei palestinesi o di fermare le ripetute incursioni israeliane, nonché per l’incrollabile coordinamento della sicurezza con l’occupazione.
Il collasso degli accordi di Oslo avrebbe conseguenze di vasta portata. L’investimento della comunità internazionale nell’Autorità palestinese come alternativa alla lotta armata sarebbe reso inutile. Sarebbe sempre più difficile convincere qualsiasi palestinese o arabo che la pace sia possibile con l’attuale leadership israeliana, caratterizzata da un atteggiamento ultranazionalista e militarista.
La guerra oltre la Cisgiordania
La crisi non si limita ai territori palestinesi. In Giordania, il re Abdullah II si trova ad affrontare sfide crescenti, poiché l’invasione israeliana della Cisgiordania minaccia di destabilizzare il suo regno. Amman, come Ramallah, è intrappolata in una rete di pressioni contrastanti – incapace di recidere i legami con Israele o di allinearsi completamente con la resistenza palestinese, e ora potenzialmente alle prese con una crisi di rifugiati se i palestinesi vengono sfollati in massa dalla Cisgiordania.
È facile immaginare che il re giordano sia coinvolto in un’ondata di indignazione pubblica, se questo scenario si dovesse verificare. Non si tratta di semplici speculazioni. Il Ministro degli Esteri israeliano Israel Katz, ad esempio, ha sottolineato l’importanza strategica delle azioni israeliane in Cisgiordania sostenendo che l’Iran sta tentando di stabilire lì un “fronte terroristico”, simile a quelli di Gaza e del Libano. Armare la resistenza in Cisgiordania è un’ambizione di lunga data della Repubblica islamica, che negli ultimi due anni avrebbe condotto un’operazione segreta di contrabbando.
Altre nazioni arabe che hanno firmato trattati di pace o normalizzato i legami con Israele – Egitto, Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrein – possono trovarsi in una posizione simile a quella di Amman se l’assalto israeliano in Cisgiordania continua, poiché le azioni di Tel Aviv sono un affronto diretto all’Iniziativa di pace araba del 2002, ratificata dalla Lega Araba nel 2017. Questa iniziativa, che l’Arabia Saudita ha posto al centro di un accordo di normalizzazione con Israele a lungo cercato, chiede il ritiro completo dell’esercito israeliano dai territori occupati (tra cui la Cisgiordania, Gaza, le alture del Golan e il Libano), una “giusta soluzione” della crisi dei rifugiati palestinesi basata sulla risoluzione 194 delle Nazioni Unite e la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale. Invece, il numero di coloni ebrei in Cisgiordania è salito alle stelle, passando da circa 70.000 nel 2002 a 800.000 nel 2024, senza lasciare spazio allo “Stato palestinese” a cui stanno lavorando i Paesi arabi normalizzatori.
Ciò che Netanyahu sta facendo ora non serve ad altro che a catalizzare l’inevitabile fine di Israele, e questo è dimostrato dal suo vero desiderio di seppellire l’idea di uno Stato palestinese promesso, come è dimostrato dalle azioni di Israele sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza.
Mentre Israele porta avanti il suo programma aggressivo, anche la posizione degli Stati Uniti è diventata più chiara. Con un significativo dispiegamento militare nella regione e il continuo sostegno alle azioni israeliane, la tacita approvazione di Washington – chiunque finisca alla Casa Bianca – offre a Netanyahu la possibilità di inasprire ulteriormente il conflitto, potenzialmente a spese della stabilità regionale.
La ricerca del potere con la forza rischia di provocare un terremoto regionale simile a quello della Nakba del 1948, destabilizzando potenzialmente gli autocrati sostenuti dagli Stati Uniti e innescando nuove ondate di resistenza non solo in Cisgiordania ma in tutta l’Asia occidentale. La violenza in corso in Cisgiordania non è solo un altro episodio di questa battaglia; è una pericolosa escalation che potrebbe rimodellare l’assetto geopolitico della regione.
Traduzione di Mavi Morano – Invictapalestina.org