Asini, kefiah e angurie: Non saremo cancellati

“Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”

Settembre 2024 –  Ali Qleibo (*)

Fonte: English version

Le immagini utilizzate per riflettere il dramma palestinese si sono trasformate in simboli iconici per gli oppressi e gli emarginati di tutto il mondo. Il repertorio iconografico contro il colonialismo, l’etnocidio e il genocidio cerca innanzitutto di sventare la censura che ci viene imposta, in particolare i tentativi israeliani di cancellare l’identità nazionale, le aspirazioni e le espressioni culturali del popolo palestinese. Originariamente creati per contrastare la censura militare, questi simboli hanno sviluppato nel tempo un potere proprio e sono diventati espressioni iconiche della solidarietà collettiva con la Palestina e, più in là, dando voce a tutti coloro che subiscono oppressione, discriminazione ed emarginazione.

Queste immagini includono la mappa della Palestina, le rappresentazioni della Moschea di Al-Aqsa, la chiave palestinese, la kefiah e l’anguria. L’immaginario simbolico si estende fino a comprendere i cibi tradizionali, ovvero hummus, falafel, maqlubeh, musakkhan e kunafah, radicati nella vita domestica quotidiana dei palestinesi. L’asino, simbolo della sopravvivenza a Gaza, è diventato virale da quando è iniziato il genocidio israeliano a Gaza, poiché questa stoica bestia da soma è spesso l’unico mezzo disponibile per trasportare le vittime delle bombe negli ospedali e gli anziani nelle cosiddette aree sicure. Gli elementi costitutivi del repertorio iconografico provengono dalla cultura e dalla geografia palestinese e riflettono l’identità domestica, culturale, ecologica e politica palestinese. Essi rafforzano la narrazione palestinese e fungono da simboli di resistenza e di libertà dall’oppressione. Il repertorio comprende un insieme di parole e immagini cariche di emozioni che identificano luoghi sacri, promuovono il sogno del ritorno e affermano che non rinunceremo ai nostri diritti nella nostra patria. Le icone di ampio respiro si trovano su tutti i social media e sono ampiamente diffuse su magliette, carta, dipinti, ciondoli e spille d’oro.

La kefiah, in particolare, ha assunto una dimensione internazionale come icona di lotta contro l’oppressione. Il drappo nero o bianco-rosso di forma quadrata con motivi sia a scacchi che a onde è tradizionalmente indossato dagli uomini in tutta la Mezzaluna Fertile, siano essi beduini, contadini o anche cittadini, a corollario della sottile garza bianca con semplici ricami usata dalle donne. La kefiah aiuta a proteggere chi la indossa dal sole e dalla polvere e, in inverno, dal freddo.

Viene persino usata per impacchettare le cose da conservare o per trasportare il cibo nei campi.

La kefiah è diventata anche un’icona centrale della sinistra globale negli ultimi decenni. Celebre è la kefiah indossata da Nelson Mandela, che tre anni dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica dichiarò: “Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”. Durante il processo per genocidio contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia, molti dei delegati presenti hanno indossato la kefiah mentre rilasciavano dichiarazioni davanti ai giudici.

Inizialmente utilizzata come simbolo nazionalista nella resistenza all’occupazione britannica della Palestina negli anni Trenta, la kefiah è stata il segno distintivo della rivolta popolare contro le autorità del Mandato britannico che hanno supervisionato il piano di spartizione della Palestina che ha portato alla creazione dello Stato di Israele. La storica delle culture olandese Jane Tynan descrive in modo appropriato la metamorfosi della kefiah da copricapo tribale a icona del nazionalismo: “Dalla sua funzione nella rivolta come strumento per nascondere alle autorità britanniche l’identità chi la indossava, la kefiah è diventata il simbolo della lotta palestinese”.

Estraniati dalla nostra eredità culturale cananea a causa di complesse circostanze politiche, i palestinesi si trovano tra il martello della narrazione biblica e l’incudine dell’archeologia biblica, di cui gli israeliani si appropriano come propria eredità. Di conseguenza, i palestinesi hanno dovuto creare i propri segni e simboli di resistenza all’oppressiva e brutale occupazione israeliana in corso. Poiché le drastiche misure di sradicamento della cultura palestinese includono la criminalizzazione da parte di Israele dell’esposizione pubblica della bandiera palestinese rossa, verde, nera e bianca, i colori della bandiera palestinese repressa sono riemersi nell’anguria verde e rossa con i suoi semi neri come simbolo della bandiera palestinese – sia come disegno di una maglietta, sia come meme o semplicemente nel piacere pubblico di mangiare un’anguria diffuso sui social media. Allo stesso modo, la mappa della Palestina storica si è diffusa come

un’icona emblematica: è stampata su magliette, intagliata in ciondoli e utilizzata in una moltitudine di grafiche. Allo stesso modo, la resistenza ai continui sforzi sionisti di impadronirsi della Moschea di Al-Aqsa si manifesta non solo negli scontri quotidiani in cui i palestinesi impediscono ai sionisti intrusi di pregare lì, ma anche nella diffusione di rappresentazioni pittoriche della Cupola della Roccia.

La nostra lotta per la libertà è rappresentata dagli israeliani e dai loro alleati occidentali come terrorismo. In questo contesto, il simbolo iconico della lotta palestinese, la kefiah, è stato falsamente demonizzato dai sionisti come un simbolo di odio nazista, il cui uso viene falsamente dipinto come un gesto antisemita simile a quello di indossare una svastica! Considerare la kefiah come un atto velato di intimidazione evidenzia soprattutto la profondità del razzismo anti-palestinese che esiste in Israele e negli Stati Uniti, in particolare, e in Occidente in generale – tanto che gli illusi sloganisti anti-palestinesi paragonano coloro che indossano la kefiah ai suprematisti bianchi del KKK, i cui cappucci bianchi nascondevano le loro identità durante i famigerati linciaggi che perpetrarono nel sud degli Stati Uniti all’inizio del XX secolo.

FOTO: Per gentile concessione di Qastina Designs.

Contro ogni previsione, la guerra virulenta condotta da Netanyahu contro Gaza, il genocidio in cui sono stati massacrati oltre 40.000 civili e nonostante la massiccia distruzione dell’intera area di Gaza – tutto questo terrore scatenato non ha smorzato lo spirito di valorosa resistenza all’occupazione israeliana. Nonostante gli obiettivi israeliani e gli spari ai giornalisti, nonostante la pesante censura imposta alle piattaforme di notizie, i social media hanno trasmesso in diretta i vili crimini israeliani contro l’umanità.

La Corte internazionale di giustizia ha dichiarato il presidente di Israele un criminale di guerra. Eppure, abbiamo recuperato la nostra narrazione, grazie anche all’iconografia palestinese dispiegata ovunque, e Israele è stato messo a nudo così come l’impianto colonialista che è in Palestina.

(*) Ali Qleibo è un artista, autore e antropologo. Nato a Gerusalemme e formatosi negli Stati Uniti, ha tenuto conferenze e lezioni all’Università Al-Quds e all’Università di Kyoto. Specializzato in storia sociale palestinese, i suoi libri e le sue opere d’arte lo hanno portato in tutto il mondo. È autore di “Surviving the Wall”, “Before the Mountains Disappear”, “Jerusalem in the Heart” e “Mamluk Architectural Heritage in Jerusalem” e di numerosi articoli pubblicati sia a livello locale che internazionale.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org