La violenza della civilizzazione non c’è più, il velo è strappato ed è rimasta solo la barbarie. La barbarie dell’Occidente e della sua inciviltà. (Immagine copertina di Gianluca Costantini aggiunta liberamente da Invictapalestina)
Ieri sera, mentre pensavo a quest’articolo, ho letto un’ultim’ora sul sito di un ex giornale progressista che tutti conosciamo. Recitava: “Morta la madre di Marco Mengoni”. Solo più sotto, il cahier de doleance dei nostri tempi: guerre, fascismi incombenti, revisioni costituzionali, stati sociali in disuso. Così va il mondo e così vanno le notizie, ormai. Non credo vi sia altro modo di definire tutto ciò se non con l’antico nome di Hybris. La tracotanza di un modello di umanità che si sopravvaluta fino al punto di voler negare ciò che è sacro in noi: le vite spezzate dalla violenza dei fucili, la dignità dei morti in mare, l’invenzione ormai ripudiata della religione secolarizzata dei diritti. Una follia lucida ha preso possesso dell’essere umano col suo programma di adeguare i valori morali alla massimizzazione del profitto. Fare la guerra serve ai mercanti d’armi, e dunque si fa. Ma non serve parlarne troppo, che i rilanci sui social vengono male, mentre la morte della madre di un cantante è come una foto dei gattini: una messa a profitto garantita.
In tutto questo, io insisto nel voler parlare anche oggi del declino dell’Occidente. So di essere ripetitivo e di annoiare i miei pochi, seppur pazienti, lettori. Dovrei in effetti approfondire i fatti, non le tendenze. Soprattutto in tempi così cruenti, in cui i fatti sono tanti e non pretestuosi. E per giunta, se è vero il mio incipit, il riscatto dei fatti contro la tirannia della loro contraffazione è un servizio che bisogna fare contro buona parte degli organi di stampa, che ci servono sui lussuosi piatti d’argento dei loro siti solo morti dolorose ma politicamente innocue, che non chiamano in causa la crudeltà dell’uomo sugli altri uomini ma semplicemente la dolorosa condizione umana.
Perché insistere, allora? Perché credo che l’epoca che stiamo vivendo non sia soltanto una successione di fatti tragici, ma sia anche un terribile cambio di paradigma dell’ordine del discorso sul mondo. Bisogna avere il coraggio di elevare lo sguardo ed estenderlo. Di osservare con minuzia la tragedia di un fatto – in questo caso il terrorismo fuori controllo di Israele che usa la tecnologia per estendere i confini della giustificazione di azioni volte a uccidere barbaramente civili all’interno di territori sovrani. Di riempirsi il cuore di indignazione e pietà, ché l’empatia è ormai l’unico stato emotivo in grado di farci restare dentro il piano di realtà: senza empatia, quelle immagini che vediamo resteranno tali, non ci avvicineranno alla realtà ma ne rappresenteranno l’ultimo stadio della sua nullificazione. Ma poi essere capaci di uno sguardo lungo, che abbracci il prima e il poi. Siamo arrivati fin qui, c’è stato un lungo processo di legittimazione che parte probabilmente tra la fine e l’inizio di due millenni, con le dottrine della guerra preventiva e dell’impero del bene. E dove stiamo andando, non è difficile prevederlo anche se preferiamo non dirlo. Nel fondo di tutti questi passaggi politici c’è un radicale cambiamento culturale, del modo in cui l’Occidente si pone nei confronti degli “altri”, ma anche e soprattutto del modo in cui l’Occidente si autocomprende e si pone (o non si pone più) dei limiti alla propria potenza (o a quel che resta della propria potenza).
Prendiamo dunque il caso delle bombe che Israele dissemina per il mondo utilizzando i cercapersone e i cellulari. Non è una novità che l’Occidente sia ormai guidato da quelli che un tempo si chiamavano Stati canaglia, per marcarne la distanza da ogni dottrina del diritto. Coloro che pretendevamo presuntuosamente di definire per contrasto da noi, siamo diventati noi. Ma quest’evidenza non basta, non basta liquidare la questione così facilmente. La questione in questo caso è: come è stato possibile che abbiamo trasformato il legittimo diritto di difendersi in un indiscriminato permesso di attaccare, senza condizioni o limiti né giuridici né politici né morali? L’unica risposta che riesco a trovare sta appunto nell’ordine della cultura. Se ciò che un tempo ci sembrava interdetto dai nostri discorsi oggi ci appare così pacifico da essere esibito e diventare il manifesto pratico della guerra che l’Occidente conduce ai suoi nemici (quelli inerti, quelli veri li teme e non si azzarda ad attaccarli), è perché è venuto meno un limite alla nostra coscienza collettiva. Non è detto che questo limite fosse positivo, come vedremo subito. La mia ipotesi di risposta è infatti questa: l’Occidente ha abbandonato la sua postura passivo-aggressiva per esibirne senza più tentennamenti né vergogna una apertamente aggressiva, per non dire altro.
Che l’Occidente si sia nutrito nel corso del suo tempo della passivo-aggressività è in fondo una tesi classica. Non è così lontana dalle interpretazioni adorniane delle modernità. Il suo sadismo e il suo spirito di sacrificio nascono da una introiezione dell’aggressività, che si sperimenta come frustrazione. In termini meno criptici, l’Occidente è sempre stato mosso dall’impulso della violenza nei confronti degli altri, ma ha sempre cercato – attraverso limiti al proprio desiderio aggressivo e attraverso codici morali e giuridici – di porre dei limiti all’esercizio di tali impulsi. Col risultato di costruire un mondo passivo aggressivo: che metteva al bando la felicità e anche la violenza diretta, esercitandola però attraverso perversi meccanismi di legittimazione giuridici della stessa e soprattutto affidandosi alla mediazione sadica di strumenti indiretti di morte. Non potendo uccidere i nostri nemici, li abbiamo affamati, impoveriti, torturati; abbiamo incoraggiato le dittature incuranti dei loro effetti. Abbiamo soddisfatto il nostro sadismo perlopiù indirettamente e, come tutte le persone passivo-aggressive, abbiamo presuntuosamente creduto così di salvare la faccia e poter essere infine assolti dal tribunale della storia.
Come si capisce, non c’è da parte mia alcuna nostalgia per questa versione dell’Occidente. Non ho mai amato quel soffocante senso di violenza che trasmettono le personalità passivo aggressive. Non l’ho mai sopportato neanche in me stesso, lavorando strenuamente per affrancarmene. Se qualcosa rimpiango, è il fatto che essa riconosceva, seppur strumentalmente, almeno due limiti all’esplosione del nostro desiderio di violenza: il limite del diritto e quello della parola. E infatti tutti le critiche da sinistra – personalmente non le ho mai condivise – che sono state fatte ai diritti umani si possono in fondo sintetizzare in questo modo: non sono che dispositivi che rendono la nostra aggressività passiva e attraverso cui esercitiamo la nostra crudeltà e il nostro sadismo credendo di assolverci. Attraverso la dottrina dei diritti umani avremmo esportato nel mondo un ordine passivo aggressivo.
Non è importante adesso aprire una disputa ideologica sulla modernità e sui suoi esiti. La questione che dobbiamo porci è molto più urgente, concreta e inquietante. Mentre scrivo queste righe, apprendo che Israele ha esteso i confini della sua follia, cominciando ad attaccare massicciamente anche il Libano. Il suo diritto di difesa si è rovesciato ormai in un assoluto delirio paranoide, altro non saprei come definirlo, in cui l’annientamento del nemico si confonde e si sovrappone all’annientamento dell’altro. Siamo sicuri che quest’ultima versione dell’Occidente, che se ne infischia dei limiti per manifestare apertamente e senza più mediazioni le proprie paranoie, sia un passo avanti rispetto a ciò che c’era prima? In fondo sappiamo tutti, da sempre, che ogni rivendicazione del diritto di difesa non era che un’autonarrazione assolutoria del proprio desiderio di attaccare. Precisamente quello che fanno le persone passivo-aggressive, che giustificano la propria violenza presentandosi sempre e irriducibilmente come vittime; che attaccano rivendicando il proprio diritto di difendersi. Questo siamo stati noi occidentali, non certo i miti benefattori del mondo. Ma ogni critica a questa postura passivo-aggressiva avrebbe dovuto passare per una valorizzazione dell’universalità del diritto e dell’imperativo politico della sostituzione della violenza delle armi con la forza nonviolenta della parola (ciò che per me è l’essenza stessa delle democrazie liberali). Non per la fine dell’interdizione e per l’ostentazione attiva di una violenza e di una crudeltà che ormai si autoassolve in quanto tale, senza riconoscere più alcun limite.
L’Occidente aggressivo verso cui Israele ci sta deliberatamente portando non è soltanto la critica a ciò che siamo stati, ma è anche la critica alla critica di ciò che siamo stati. Siamo stati e non siamo più. È questo il punto. L’Occidente per come l’abbiamo conosciuto sta definitivamente tramontando. Il suo tramonto non consiste nel riconoscimento critico delle proprie ombre e dei propri limiti, ma nell’identificazione con tutto ciò che, in forma negativa, era il grande interdetto. L’aggressività senza più limite, un desiderio di annientamento dell’altro che non ha più alcuna legge a cui riferirsi. Abbiamo sostituito alla frustrazione la crudeltà e la paranoia. Il nostro diritto di vivere è il nostro diritto di uccidere, senza più alcuna differenza. La violenza della civilizzazione non c’è più, il velo è strappato ed è rimasta solo la barbarie. La barbarie dell’Occidente e della sua inciviltà. Temo che solo le categorie psicanalitiche possano aiutarci a comprendere la trasformazione dell’Occidente: siamo passati dal disturbo passivo aggressivo a una evidente sindrome paranoide. Se qualcuno mi chiedesse cosa sia ormai l’Occidente, io una risposta ce l’avrei: tutto ciò che è rimasto dell’Occidente è la sua malattia mentale.
Ma noi andiamo avanti tranquillamente. Il sito dell’ex giornale progressista mi aggiorna che sarebbe morta anche la zia di Jannik Sinner. La nostra vita in diretta può continuare, che le morti degli altri non hanno dirette.
(*) Sergio Labate è professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Macerata. Tra i sui temi di ricerca ci sono il lessico della speranza e dell’utopia nell’età secolarizzata, la filosofia del lavoro, le passioni come fonti dei legami sociali, la difesa della democrazia costituzionale nell’epoca del suo disincanto generalizzato. È stato presidente di Libertà e Giustizia. Tra le sue pubblicazioni: “La regola della speranza. Dialettiche dello sperare” (Cittadella 2012), “Passioni e politica” (scritto insieme a Paul Ginsborg, Einaudi 2016), “La virtù democratica. Un rimedio al populismo” (Salerno editrice 2019).