Dalla pagina Facebook di: Roberto Prinzi
Pur schierandosi a favore della manifestazione di Roma, il Manifesto oggi in ben due articoli ha condannato l’uso del termine “rivoluzione” rispetto a quanto accaduto il 7 ottobre (l’hanno utilizzato i Giovani Palestinesi nel promuovere la manifestazione di Roma di sabato al momento vietata ). Lungi da me dall’attaccare il giornale che reputo un bene da salvaguardare (soprattutto in questi tempi bui), traggo spunto da quanto letto per una riflessione che secondo me è importante fare.
Non è questione di lana caprina usare o meno quella parola per definire quella giornata. Condannarla è uno schierarsi. Sceglierla o meno significa con quali occhi tu guardi il mondo se dal punto di vista degli oppressi o di (un più o meno) privilegiato occidentale. Il 7 ottobre è stato un momento rivoluzionario per i palestinesi. Prima di sostenere la loro causa, dovremmo capire realmente cosa ci dicono, che parole usano e perché.
Il 7 ottobre è stato rivoluzionario perché dopo mesi, se non anni di negligenza e di oblio da parte dell’Occidente coloniale (anche della sinistra), da soli i palestinesi hanno ripreso la scena politica, hanno riportato la loro causa al centro del discorso politico. Hanno gridato al mondo intero un chiaro e forte NO alle ingiustizie, alla pulizia etnica, al colonialismo che ha le mani israeliani, ma il sostegno dell’Occidente. Lo hanno fatto violando barriere del campo di concentramento dove sono rinchiusi e dove lentamente vengono sterminati in atti di “autodifesa” appoggiati da tutti i paladini della “democrazia”.
Hanno rotto quelle barriere non solo metaforicamente come fatto in passato. Qualcuno dirà: “Vergognati giustifichi l’atto macabro dei mille israeliani uccisi al rave o nei kibutz”. Niente affatto: nessuno può mai rallegrarsi per i civili uccisi. Quelle perdite sono nostre, di tutti coloro che hanno a cuore il genere umano. Tuttavia, definirlo atto “rivoluzionario” significa solo conoscere la storia, inquadrare l’atto in un contesto, sapere cosa sia il colonialismo. L’atto sui civili – non sulle postazioni militari – è stato orrido perché orrido è il colonialismo israeliano. E dal colonialismo non può che nascere ciò che è macabro.
Anche l’atto di liberazione può assumere colori sanguinosi.
Quando gli indiani nel 1857 si rivoltarono contro il colonialismo britannico, gli atti degli autoctoni rivoltosi furono orrendi. Centinaia furono le vittime civili – coloni e collaborazionisti. Sì, tanti innocenti. Giovani, donne, furono trucidati per mano dei locali. Eppure chi ha il coraggio di dire ora che gli indiani nel rivoltarsi (avrebbero poi perso) erano dei terroristi? Che hanno sbagliato? E chi ora starebbe lì a dire “eh però hanno ammazzato anche civili!”. Quell’atto fu la prima vera dimostrazione dell’impossibilità e insostenibilità del colonialismo secolare britannico. Fu il primo campanello d’allarme. E assunse colori orrendi perché orrendi sono stati per secoli i crimini subiti.
Chi studia storia sa perfettamente che persino i nostri partigiani si sono macchiati in alcuni casi di atti criminali dopo anni di violenze orribili compiute da fascisti (e poi nazisti). Eppure chi osa – se non i fascisti – definirli terroristi? Chi osa non definire quegli atti come parte di quell’enorme processo rivoluzionario chiamato Resistenza?
Essere vicino ad una causa vuol dire ascoltare la voce di chi vive l’oppressione in prima persona. L’oppresso – e non sono solo i “Giovani palestinesi” a definire così quel giorno, ma l’intero popolo palestinese – definisce il 7 ottobre così. Thauri, “rivoluzionario”. O noi privilegiati stiamo con loro e accettiamo la loro lotta e i loro termini, oppure facciamoci da parte: i palestinesi non hanno bisogno degli ok compiacenti dei bianchi privilegiati più o meno coloniali. Le parole non sono mai casuali. Mai intercambiabili.
Non potremmo avere mai indietro quelle vittime innocenti israeliane. Ma solo ponendo fine al colonialismo potremmo porre fine a questi massacri di innocenti. E questa passa anche attraverso i 7 ottobre