Ho evitato la morte, pianto amici e perso i miei mezzi di sostentamento. Proprio quando stavo per lasciare questo tormento, Israele ha chiuso il nostro ultimo passaggio verso il mondo.
Fonte: English version
di Ruwaida Kamal Amer – 5 ottobre 2024
Immagine di copertina: i corpi di 88 palestinesi non identificati sono sepolti in una fossa comune a Khan Younis, dopo che le forze israeliane li hanno restituiti a Gaza gravemente decomposti e senza alcuna identificazione, 26 settembre 2024. (Doaa Albaz/Activestills)
È una cosa terribile assistere all’annientamento della propria patria. Quando penso a ciò che abbiamo vissuto in quest’ultimo anno, mi sento come se stessi per perdere completamente la testa. È uno shock che non riesco ancora ad assorbire. Cerco di non pensare affatto, nella speranza di mantenere la mia salute mentale fino alla fine.
I secondi passano come ore. Una notte di questo tormento è già abbastanza difficile; le nostre anime si sentono sospese nel tempo, finché non arriva il mattino e dobbiamo sopportare un altro giorno. Cerchiamo una notizia che possa cambiare la nostra vita in meglio. Desidero ardentemente il giorno in cui non sentiremo più il rumore costante delle bombe, degli aerei da guerra e dei droni. Il giorno in cui la morte si fermerà.
All’inizio speravo che la guerra sarebbe finita entro una o due settimane, come in passato. Non durerà più di un mese, assicuravo alla gente; se riusciamo a resistere fino ad allora, staremo bene. Non so perché ero così sicuro. Forse credevo che il mondo sarebbe intervenuto per fermare questa follia. Dodici mesi dopo, ci sembra che il mondo abbia semplicemente accettato la nostra sofferenza come se fosse lo stato naturale delle cose.
In un istante la mia vita si è riempita di terrore. La scuola in cui insegnavo è stata distrutta. Molti dei miei studenti e colleghi sono stati uccisi, martirizzati prima ancora che avessi la possibilità di dir loro addio. Il cuore di un collega ha ceduto, incapace di sopportare tutto questo. Ho perso i contatti con molti dei miei amici.
Non potendo più fare il lavoro che amo, ho iniziato a convogliare tutte le mie energie residue nella scrittura, cercando di dare voce all’esperienza dei gazawi sotto il brutale assalto di Israele. Ma non sono un’estranea: affronto tutte le stesse sfide di cui parlo, dallo sfollamento forzato alla mancanza di cibo, acqua ed elettricità, fino all’assenza di assistenza sanitaria.
Per i primi otto mesi di guerra, fino a quando non siamo riusciti a comprare un pannello solare, mio padre andava a piedi dalla nostra casa nel quartiere di Al-Fukhari, tra Khan Younis e Rafah, all’Ospedale Europeo per caricare i nostri telefoni, le batterie e altri dispositivi. La mancanza di cibo e acqua è rimasta un problema difficile e costoso: non mi sarei mai aspettata di dover pagare 70 dollari per una fornitura d’acqua di una settimana, o di dover trasportare con la mia famiglia pesanti contenitori solo per riempire i nostri serbatoi.
Per mia madre, che soffre di una malattia alle ossa e ai nervi, quest’anno è stato trascorso in costante sofferenza. Non può muoversi senza le sue medicine, che cerchiamo in ogni ospedale e farmacia. Quando li troviamo, ne compriamo il più possibile. Ma spesso non ci riusciamo, così lei ha ridotto l’assunzione di farmaci per farli durare di più. Sentiamo i suoi gemiti, ma siamo impotenti ad alleviare le sue sofferenze.
Ogni volta che usciamo di casa, consideriamo la possibilità che ognuno di noi possa tornare in un sudario. Sappiamo che i bombardamenti incessanti di Israele significano che non c’è un luogo sicuro a Gaza, nemmeno dentro casa nostra. Ma ringraziamo Dio ogni momento che la nostra casa sia ancora in piedi e possa offrire un parziale senso di conforto.
Mia sorella non è stata così fortunata. A dicembre, la sua casa nel campo profughi di Khan Younis è stata gravemente danneggiata durante l’invasione di terra di Israele e lei è venuta a vivere con noi. Ho cercato di consolarla, ma era devastata dalla perdita della sua casa, derubata del futuro che stava progettando.
Aggrapparsi alla casa
Non dimenticherò mai la sera in cui sono scampata per un pelo alla morte. Era il 16 agosto e mi trovavo da sola al secondo piano della casa della mia famiglia. Mia madre, mio padre e mia sorella erano al piano di sotto, mentre mio fratello stava giocando in strada con i suoi amici.
Ho sentito il rumore del missile mentre scendeva e mi sono preparata all’esplosione per sapere dove correre. Ma non mi aspettavo che atterrasse così vicino, a pochi metri dalla nostra casa. Improvvisamente, polvere, rocce e frammenti di vetro volavano ovunque. Ho gridato che qualcuno mi salvasse. Non so ancora come ho fatto a scendere al primo piano; il fumo denso mi impediva di vedere tutto ciò che mi circondava. Ma quando sono riuscita a uscire, mi sono resa conto dell’entità dei danni.
La casa dei nostri vicini era stata completamente distrutta. Le case circostanti erano gravemente danneggiate, compresa quella di mio zio, che era semidistrutta. Anche la nostra casa è stata danneggiata: le schegge hanno fatto un grosso buco nel tetto, tutte le finestre erano in frantumi e il serbatoio dell’acqua era in rovina. Siamo stati fortunati a uscirne vivi, ma io porto ancora dei lividi sulla schiena.
Per me la casa è la vita. E tutto sommato è un miracolo che viviamo ancora nella nostra. Ma per due volte siamo stati costretti ad abbandonarla a causa degli attacchi di Israele, e ogni volta non sapevamo se avremmo avuto una casa in cui tornare. Mi sono tornati in mente i terribili ricordi del 2000, quando avevo 8 anni e l’esercito israeliano rase al suolo la nostra casa; ero terrorizzata all’idea di dover vivere di nuovo questa dolorosa perdita.
Il nostro primo sfollamento avvenne durante le prime settimane di guerra, quando la nostra zona fu sottoposta a pesanti bombardamenti. Passammo una notte fredda nel parcheggio dell’Ospedale Europeo; i corridoi all’interno erano già troppo affollati per ospitarci. Non ho dormito un solo istante. Mi sentivo come se avessi un grosso masso sul petto, che mi opprimeva.
Poi, la mattina del 2 luglio, siamo fuggiti di nuovo dopo che l’esercito israeliano ha emesso l’ordine di evacuazione del nostro quartiere. Abbiamo raccolto le nostre cose in un camion e ci siamo diretti verso la casa danneggiata di mia sorella, che abbiamo cercato di sistemare come potevamo. Ma non potevo sopportare l’ angoscia di essere sfollata dalla mia stessa casa e così, nonostante il pericolo, sono tornata dopo 10 giorni con mio padre e mio fratello, e mia madre ci ha raggiunti poco dopo.
Quando siamo tornati a casa, il nostro quartiere era quasi vuoto. Molti dei nostri vicini erano fuggiti ad Al-Mawasi, la cosiddetta “zona umanitaria”, e sarebbero tornati solo dopo circa due mesi. In diverse occasioni, con l’incursione delle forze israeliane in città, siamo stati assediati nelle nostre immediate vicinanze per una settimana o più, senza poterci muovere liberamente senza rischiare di essere colpiti.
In primavera, io e mia madre abbiamo deciso di lasciare Gaza. All’inizio era riluttante a viaggiare, preoccupata di lasciare mia sorella e i suoi due figli. Ma vista la mancanza di cure per la sua malattia, ha deciso che sarebbe stato meglio così.
Il nostro piano di fuga era in atto. Siamo riusciti a registrarci presso un’agenzia di viaggi per partire attraverso il valico di Rafah, le nostre valigie erano pronte e stavamo solo aspettando che i nostri nomi comparissero sulla lista di uscita. La notte del 6 maggio è finalmente arrivato il nostro momento. Poi è successo l’inimmaginabile: la mattina seguente, mentre aspettavamo la conferma di poter partire il giorno dopo, l’esercito israeliano ha invaso Rafah. La prima cosa che ha fatto è stata quella di occupare il valico di Rafah, tagliando così il nostro ultimo passaggio verso il mondo esterno.
Ogni giorno aspettiamo che il valico venga riaperto per poter partire. Sogniamo quel momento. Ma ogni giorno che rimango bloccata qui, perdo un po’ più di speranza per il futuro di Gaza.
Ruwaida Kamal Amer è una giornalista freelance di Khan Younis.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org