Da Gaza Huda Skaik si chiede perché, di fronte a tanta morte e distruzione, il mondo sembra incapace o non disposto a reagire agli orrori.
Fonte: English version
di Huda Skaik – 13 novembre 2024
Immagine di copertina:: La paura del futuro è diffusa tra la popolazione di Gaza, perché ogni perdita porta con sé la cruda consapevolezza di un domani incerto, scrive Huda Skaik. [GETTY]
Con il passare del tempo a Gaza, il dolore e la distruzione si intensificano, mentre il mondo di fuori continua a essere normale. La mia famiglia, la mia gente e io stiamo lottando per sopravvivere.
Giorno dopo giorno, la nostra sofferenza diventa sempre più profonda. Gaza, una volta una città vivace, ora assomiglia a una città fantasma. È diventata l’inferno in terra. Ovunque guardiamo, le cose sono in rovina, con i soli detriti degli edifici di una volta, le strade completamente distrutte, i muri trafitti da schegge, le macerie ci sommergono. I bombardamenti incessanti di Israele hanno trasformato la nostra casa in un campo di battaglia.
Il cielo sopra di noi è perennemente oscurato dal fumo che si sprigiona dopo gli attacchi aerei e il terreno sotto di noi trema continuamente. È anche intriso del sangue di innumerevoli martiri, molti dei quali giacciono sotto le rovine.
I bulldozer di Israele hanno spazzato via tutto – terreni, ulivi – mentre i loro aerei non hanno lasciato traccia di case. Sui gazawi è piovuto il fragore dei proiettili dei quadricotteri.
Questa è la nostra nuova normalità a Gaza.
Nel bel mezzo della guerra, ci ritiriamo presto ogni notte cercando rifugio in stanze affollate o in tende dove si riuniscono le famiglie, affrontando insieme un futuro incerto. Il silenzio che ci avvolge porta con sé un peso di paura che attanaglia i nostri cuori a ogni suono forte e minaccioso di missili.
La nostra paura non è necessariamente quella della morte in sé, ma di perdere le persone che ci sono care, di essere feriti o sfollati a causa di attacchi indiscriminati e di avere le nostre case – simbolo della nostra vita e dei nostri sogni – distrutte in un istante da coloro che cercano di cancellare la nostra esistenza.
La realtà ossessionante
L’occupazione israeliana non prende di mira solo le nostre strutture fisiche, ma anche i nostri esponenti intellettuali e culturali: professori, medici, giornalisti. Ad ogni perdita, anche la conoscenza e il potenziale della nostra comunità muoiono un po’ di più.
Lo scorso luglio, il giornalista Ismail Al-Ghoul è stato assassinato mentre copriva gli eventi nel nord di Gaza. È stato ucciso semplicemente per aver fatto il suo lavoro, per aver messo in luce i pericoli che corrono i giornalisti. La sua morte, insieme a quella del fotoreporter Rami Al-Rifi, ha lasciato un vuoto profondo nei nostri cuori. La giovane figlia di Ismail, Zina, è ora tra i tanti orfani rimasti in seguito a questa vicenda, mentre sua moglie deve affrontare una vita da sola.
Una cosa è certa: non perdoneremo mai l’occupazione per aver versato il sangue del nostro amato popolo, altrimenti ci sembrerebbe di uccidere di nuovo i martiri.
Ogni momento porta con sé l’inquietante spettro della morte, mentre ci confrontiamo con l’insopportabile realtà della nostra esistenza. Noi, i sopravvissuti, non stiamo vivendo veramente; ogni respiro è per noi un’agonia.
Ci chiediamo quale sia il senso in mezzo a tanta devastazione e come possiamo onorare la memoria di coloro che ci sono stati portati via. C’è uno strano conforto nel sapere che coloro che non sono più con noi sono almeno liberi da ulteriori sofferenze.
Anche i bambini di Gaza hanno perso da tempo la loro innocenza, mentre passano le giornate ad aspettare in lunghe file per l’acqua e il cibo. Le loro scuole sono state trasformate in rifugi per gli sfollati. I loro campi da gioco sono segnati dai resti di granate e schegge, e lì le risate risuonano debolmente contro le pareti degli edifici distrutti dalla guerra.
La paura del futuro è diffusa tra gli abitanti di Gaza, perché ogni perdita porta con sé la cruda consapevolezza di un domani incerto.
Temono anche di essere dimenticati.
È l’angoscia silenziosa di vedere il mondo andare avanti.
Non vogliamo che le nostre storie vengano degradate a semplici statistiche, che le nostre voci vengano soffocate dalla marea incessante dei discorsi geopolitici.
Esausti
L’occupazione infligge ferite sia fisiche che psicologiche, lasciandoci esausti.
Siamo tormentati dal pensiero del peggior destino possibile: morire da soli, schiacciati sotto le macerie o sopportare sofferenze inimmaginabili per mano dei nostri oppressori.
Le cure mediche sono scarse e gli operatori sanitari lavorano in condizioni terribili. Un medico, Hany Besiso, ha dovuto eseguire un’operazione alla gamba di sua nipote sul tavolo da pranzo con un coltello da cucina, una spugna per piatti, acqua e sapone. Questo era l’unico equipaggiamento a sua disposizione.
Un altro medico, Hosam Abu Safia, ha dovuto seppellire il proprio figlio vicino a un ospedale. “Tutto ciò che abbiamo costruito è stato bruciato dagli israeliani. Hanno bruciato i nostri cuori”, ha detto in un video che è stato diffuso, con la voce piena di dolore. “Hanno ucciso mio figlio perché portavo un messaggio umanitario”, ha spiegato.
In mezzo a tutto questo, non dimentichiamo mai i nostri detenuti. Sentiamo le storie dei loro maltrattamenti, delle percosse, delle folgorazioni, degli stupri e delle condizioni disumane in cui sono tenuti. Alcuni prigionieri, come il dottor Adnan Al-Bursh, sono stati uccisi a sangue freddo mentre venivano torturati.
Tutto è marcio in Israele, tutto. Si divertono a escogitare i modi peggiori per ucciderci e torturarci.
L’occupazione israeliana, attraverso questo genocidio, cerca di cancellare ogni traccia dell’esistenza palestinese. Mira a sradicarci, ma non ci riuscirà, perché la nostra terra vive nei nostri cuori.
Mi sento impotente di fronte a questa sofferenza, anche se cerco di rimanere forte nonostante il dolore. Ma non riesco a smettere di chiedermi come un genitore possa sopportare la sepoltura del proprio figlio e pretendere di continuare a vivere. Mi chiedo se le persone in tutto il mondo vedano il filmato di un padre che tiene in mano pezzi di suo figlio e rimangano comunque indifferenti. Quando si sveglierà l’umanità?
Quanti altri palestinesi devono soffrire prima che il mondo intervenga?
Quando noi, gli sfollati, torneremo nel nord di Gaza? Quanto desidero la brezza di Gaza City, dove si trovava la mia casa distrutta.
A Gaza, ogni giorno continua a trascorrere con la delicata danza tra paura e resilienza. Tra le ombre dell’incertezza, rimane un barlume di speranza, un faro che illumina il cammino verso un futuro in cui la paura lascia il posto alla pace, perché nonostante tutto ci spinge ad andare avanti.
Huda Skaik è una studentessa di letteratura inglese, una scrittrice e una videomaker. Sogna un futuro da professoressa, poetessa professionista e scrittrice.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org