“Abbiamo visto bambini senza mani e gambe”: come due “dottori clown” sono riusciti a far ridere i bambini di Gaza evitando proiettili e granate.

Alaa Megdad e Majed Kaloub sono “dottori clown”, che intrattengono i bambini malati.

Per un anno hanno lavorato insieme per rallegrare i bambini della guerra di Gaza e anche se il loro finanziamento sarà presto esaurito –  i due con grande generosità staranno ancora vicini ai bambini come volontari, lo racconta la giornalista Celia Peterson.

“Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo bisogno noi stessi”, ha spiegato Majed

Servizio di CELIA PETERSON A GAZA PER MailOnline

Career: Alaa has been a clown for 17 years, while Majed originally trained as a journalist
Career: Alaa has been a clown for 17 years, while Majed originally trained as a journalist

Al culmine della devastante guerra a Gaza, un uomo ha indossato un vestito da clown per schivare così proiettili e granate.
Alaa Megdad ha mantenuto il suo travestimento perché sperava che lo avrebbe protetto dai razzi durante il devastante conflitto di 50 giorni. Sperava che gli israeliani non avrebbero sparato ad un uomo vestito con un naso rosso, occhiali oversize e un cappello colorato.
In questo non c’è niente da ridere. Alaa prende seriamente il suo lavoro. Alaa veste come un clown per allietare i bambini malati che vivono attraverso gli orrori della guerra a Gaza. Leggi tutto ““Abbiamo visto bambini senza mani e gambe”: come due “dottori clown” sono riusciti a far ridere i bambini di Gaza evitando proiettili e granate.”

Laurea honoris causa a Amos OZ: Megafono del colonialismo israeliano.

Approvata dal Senato accademico dell’Università Statale di Milano, la proposta di conferimento della laurea honoris causa in Lingue e culture per la comunicazione e la cooperazione internazionale allo scrittore israeliano Amos Oz.

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Una madre di Gaza piange la famiglia distrutta da un attacco aereo israeliano

GAZA CITY (Ma’an) – Um Bilal al-Ghoul quest’anno trova difficoltà a celebrare la festa di Eid, dopo aver perso la maggior parte della sua famiglia colpita da un aereo israeliano, durante la devastante guerra di Gaza della scorsa estate.

Giovani palestinesi scrivere i nomi dei bambini uccisi durante la guerra della scorsa estate nella Striscia di Gaza. (AFP / Musa Al Shaer, File)
Giovani palestinesi scrivere i nomi dei bambini uccisi durante la guerra della scorsa estate nella Striscia di Gaza. (AFP / Musa Al Shaer, File)

Il 3 ago 2014 10 membri della sua famiglia muoiono e 20 rimangono feriti dopo un singolo attacco israeliano sulla sua casa a Rafah nel campo profughi di Yibna, densamente popolato

Um Bilal ha perso il marito Wael e tre dei loro figli.
La madre di Wael, il padre, il fratello, e due sorelle sono uccisi durante l’attacco. Ibrahim, Il figlio più giovane di Um Bilal, ha perso suo fratello gemello, Mustafa, i gemelli erano nati pochi giorni dopo l’inizio dell’offensiva israeliana.

Asmaa al-Ghoul, un giornalista che vive a Gaza City e parente di Um Bilal, aveava scritto  un post su Facebook dopo la loro nascita: “A Gaza, c’è sempre speranza e nuova vita. Una porta di luce e di felicità in mezzo a questa guerra.”

Quest’anno, però, la madre è in lutto e ha rifiutato di festeggiare il primo compleanno di Ibrahim senza il suo fratellino. Suo figlio maggiore Bilal ha tentato di persuaderla a fare diversamente, dicendole che “la ferita sebbene ancora sanguinante, quelle dei bambini erano guarite.”

Um Bilal ha riferito a Ma’an: “Ibrahim non sente la sofferenza che sentiamo noi, ma Eid quest’anno è ancora triste e difficile, oltre al fratello gemello Mustafa, non c’è più il padre, il fratello Ismail, e sua sorella Malak.”
L’ultimo ricordo di Um Bilal è quello del marito che stava tornando a casa con una aringa , su richiesta dei loro figli che erano in piedi e lo aspettavano con ansia davanti alla porta.
“Non saranno con noi quest’anno”, ripete Um Bilal a Ma’an, che sa che trascorrerà gran parte del suo tempo futuro per ricordare Ibrahim, suo padre e i suoi fratelli attraverso le fotografie.

Dopo l’attacco dello scorso anno, Asmaa ha scritto un articolo su Al-Monitor ricordando la morte dei suoi parenti, nessuno dei quali ha avuto nulla “a che fare con Hamas”.

Ha raccontato che la casa “aveva un tetto di asbesto sottile che non richiedeva due missili F-16 per essere distrutto”.

“Qualcuno informerebbe Israele che le case del campo profughi si possono distruggere ed i loro occupanti uccisi, e che basta solo una piccola bomba senza spendere miliardi per far in modo che sia poi tutto dimenticato?”

Asmaa ha scritto che durante la guerra i corpi si trovavano ovunque, era evidente che molti si erano lasciata la vita alle spalle. “Ancora più importante, hanno lasciato la paura della guerra alle loro spalle.”

La guerra della scorsa estate è stata la terza a Gaza in sei anni, e di gran lunga la più mortale e distruttiva delle tre. Il commissario generale dell’agenzia Onu Unrwa, Pierre Krahenbuhl, all’inizio di questo mese ha dichiarato che le cause alla radice del conflitto rimangono ancora sconosciute.

Ha ancora affermato che “La disperazione, la miseria e la negazione della dignità derivante dalla guerra dello scorso anno e dal blocco, sono una realtà della vita per la gente comune di Gaza”. .

Grandi spazi di Gaza restano in rovina e il lavoro per la ricostruzione di circa 18.000 case totalmente distrutte durante la guerra non è ancora iniziato.

trad. Invictapalestina

fonte: https://www.maannews.com/Content.aspx?id=766533&utm_content=bufferc1597&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer

LA DISGUSTOSA “PARODIA” DEI JACKAL SUL VIDEO DELLA BAMBINA PALESTINESE CHE PIANGE

Che i Jackal fossero dei coglionazzi lo pensavo da tempo. Oggi è arrivata l’ennesima conferma. L’ultima loro “parodia” – ovviamente ripresa dalla SCHIFOSA “la repubblica” – della bambina palestinese che PIANGE di fronte ad una impassibile Merkel è disgustosa, non fa ridere e genera solo tanta rabbia.

-rifugiata-palestinese

Eppure il video originale avrebbe dovuto farci tutti incazzare: la giovane Rim piange perché dopo 4 anni vissuti in Germania, nonostante abbia appreso la lingua del posto, nonostante i sacrifici della famiglia, nonostante, immaginiamo, si sia fatta degli amichetti, sarà a breve deportata insieme ai suoi genitori, cacciati dalla civilissima Europa. Come se gli esseri umani fossero dei pacchi privi di sentimenti e umanità di cui ce ne si può disfare quando è scaduto il pezzo di carta che li rende “legali”. E’ ormai così poco il valore umano che il capitale assegna ai nostri corpi

Di fronte all’umanità di Rim, il suo sogno di poter studiare all’università “come tutti” si contrappone la freddezza della Merkel, uno dei principali simboli del capitalismo europeo e dell’arroganza occidentale, la cui disumanità appare ancora più evidente quando, goffamente, prova a mostrarsi più umana avvicinandosi alla piccola palestinese. Ma il capitale non sa cosa significa piangere, non sa cosa sono i sentimenti e ignora l’umanità: e così la Merkel non offre nulla a Rim, non un parola d’amore, non una carezza, non ci pensa nemmeno per un attimo a realizzare il sogno della bambina di poter studiare. Piuttosto con freddezza e rigidità, con sguardi privi di vita le fa capire che le porte dell’ospitalità del suo Paese sono ormai chiuse annunciandole di fatto il ritorno al claustrofobico campo profughi in Libano. Ghetto in cui i nonni di Rim e in seguito i suoi familiari, vale la pena ricordarlo, sono stati costretti a vivere a causa della pulizia etnica compiuta dallo stato d’Israele (e le complicità dei paesi arabi).

Non dovremmo ridere di fronte al dramma umano di Rim. E non perché “è una bambina che piange” come spesso si sente dire scioccamente. Ma perché le sue lacrime dovrebbero essere le nostre, sono le lacrime degli emarginati di questi terra piegati dalla stessa freddezza e dalle barbarie del sistema capitalistico (e imperialista) ben rappresentati dagli occhi senza espressione della Merkel. Sono le lacrime delle centinaia di migliaia di greci che perderanno il lavoro “per restare in Europa”, le lacrime dei nostri disoccupati, precari e gli sfruttati nelle nostre città. Dovremmo sentirci tutti Rim, dovremmo tutti sentirci palestinesi dei campi profughi. Dovremmo provare rabbia di fronte a queste immagini perché arriva il momento nelle nostre vite in cui il riso deve farsi necessariamente da parte.

La satira è un’arte elevatissima, troppo per un gruppo di fighetti napoletani che giocano spesso parlando di politica. La cosa grave su cui tutti ci dovremmo interrogare non è tanto cosa facciano questi cialtroni, ma perché alla rabbia per Rim, molti di noi sostituiranno le risate procurate dalla loro “parodia”.

Roberto Prinzi

fonte: http://www.inventati.org/cortocircuito/2015/07/17/la-disgustosa-parodia-dei-jackal-sul-video-della-bambina-palestinese-che-piange/

Il nuovo vocabolario della questione palestinese

Noam Chomsky (destra) e Ilan Pappé (sinistra)

 

di Andrea Colasuonno – Odysseo

Roma, 18 luglio 2015, Nena NewsÈ uscito il nuovo libro di Noam Chomsky e Ilan Pappé “Palestina e Israele: che fare?. A quasi un anno esatto dall’ultima sanguinosissima operazione israeliana su Gaza, “Margine protettivo”, i due autori hanno voluto proseguire il lavoro di riflessione iniziato con “Ultima fermata Gaza”, testo edito 5 anni fa, di grande successo e vasta diffusione.

Anche questo nuovo lavoro, come quello precedente, nasce fondamentalmente da un fitto scambio di vedute fra i due celebri studiosi ebrei. Così, spiega il curatore Frank Barat nell’introduzione, si era pensato di dividere il lungo dialogo in tre parti: una che trattasse del passato della questione palestinese, una del presente, l’altra del futuro. Le bozze del libro erano pronte quando nel luglio 2014 Israele e Gaza precipitarono nell’ennesimo conflitto. Pappé come Chomsky decisero che fosse doveroso a quel punto integrare il loro libro-intervista con lavori originali che ne chiarissero meglio alcuni contenuti.

Seguendo questa logica il testo si è arricchito di capitoli quali “I tormenti di Gaza, i crimini di Israele, le nostre colpe”, “Breve storia del genocidio progressivo di Israele”, il “Discorso alle Nazioni Unite” di Noam Chomsky. Ma soprattutto “Le vecchie e le nuove conversazioni”, saggio “eccellente, di straordinaria attualità, provocatorio e originale”, posizionato non a caso in apertura al testo, nel quale Pappé prova a riscrivere il vocabolario del conflitto israelo-palestinese.

Da dove nasce questa esigenza? Nasce dalla presa d’atto che le grandi conquiste raggiunte fuori dalla Palestina, ad esempio il cambio avvenuto nell’opinione pubblica mondiale circa il conflitto in questione, non si sia tradotto in miglioramenti concreti sul territorio. Ciò, secondo Pappé, non è avvenuto anche perché fra diplomatici, studiosi, politici, ma anche attivisti filo palestinesi occidentali, vige ancora un’egemonia retorica di ciò che chiama il “vocabolario dell’ortodossia pacifista”. Un vocabolario scaturito da una fiducia “quasi religiosa” nella soluzione a due Stati, messo a punto negli ambienti delle scienze politiche americane e “utile a conformarsi alle posizioni degli Stati Uniti”.  

che-fareEcco che, secondo lo storico israeliano, un “nuovo lessico può servire agli attivisti per rafforzare il proprio impegno nella lotta contro l’ideologia sottesa agli abusi e alle violazioni israeliane dei diritti umani e civili […]”. E allora questi alcuni dei termini in questione.

Colonialismo al posto di “sionismo”. Una sostituzione del genere, spiega Pappé, è fondamentale perché chiarisce la natura delle politiche israeliane di giudaizzazione sia all’interno di Israele che in Cisgiordania. Del resto il movimento sionista già nel 1882 usava il termine “le-hityashev”, letteralmente “colonizzare”. Inoltre non tutti capiscono “sionismo” mentre più o meno tutti comprendono “colonialismo”. Ciò permette di spezzare la favola della “complessità” del conflitto israele-palestina, che solo serve ai sionisti a prendere tempo e confondere le idee. In realtà “la fisionomia e l’obiettivo di questo progetto non sono per nulla straordinari”, si tratta di un popolo che ruba la terra a un altro popolo, vedi Sudafrica.

Stato segregazionista al posto di “Stato Ebraico”. Diversi studi hanno dimostrato come le politiche israeliane siano diventate negli anni via via più omogenee sia per i palestinesi della Cisgiordania che per gli arabi-israeliani. Oggi, secondo Pappé, Israele è indubbiamente uno stato che segrega e discrimina in base all’etnia, alla religione e alla nazionalità.

Apartheid al posto di “conflitto”. L’uso sempre più frequente di tale espressione, soprattutto negli ambienti che contano, ha favorito e favorirà sempre di più iniziative atte a sensibilizzare sulla condotta israeliana. Un esempio su tutti sono le “Israeli Apartheid Week”.

Decolonizzazione al posto di “processo di pace”. È chiaro a tutti, afferma Pappé, che il processo di pace è uno strumento per permettere a Israele di prendere tempo e aumentare le colonie. Introducendo il termine “decolonizzazione” si spera allora di fermare l’industria della “coesistenza” finanziata principalmente da americani e Unione Europea.

Pulizia etnica al posto di “catastrofe” (Nakba). Parlare di pulizia etnica permette di individuare una vittima e un aggressore, base per cercare una riconciliazione. La comunità internazionale ha stabilito da tempo precise direttive che indicano come trattare le vittime di atti del genere. Ecco che ad esempio, seguendo il “principio di riparazione”, non sarebbe scandaloso riprendere a parlare di “diritto al ritorno” (dei profughi del ’48), punto completamente rimosso dalla vecchia ortodossia pacifista.

Cambio di regime al posto di “negoziati”. Non deve più essere considerato inconcepibile un cambiamento radicale dello Stato israeliano: da stato colonialista a patria per tutti. Diversi esempi di storia recente (Egitto, Tunisia) dimostrano come una cosa del genere sia possibile anche per mezzo di soluzioni non violente o quasi non violente.

Soluzione a uno stato al posto di “soluzione a due stati”. Secondo lo storico dovrebbe essere una diretta conseguenza del “cambio di regime” di cui abbiamo accennato appena più su. La questione, tuttavia, è di portata capitale e sarebbe inutile provare a sintetizzarla nel giro di qualche riga. È il punto sul quale Chomky e Pappé divergono più platealmente. Il libro prova a spiegare i perché dell’uno e i perché dell’altro lasciando poi, come tutti i libri, la parola alla storia. Nena News

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