Palestina: la resistenza come terapia (2-3)

 

 Conversazione con Samah Jabr, psichiatra e psicoterapeuta palestinese

Intervista divisa in tre parti.

 

Apparsa su lundimatin   il 17 maggio 2021

 

Questa intervista ad una psichiatra e psicoterapeuta palestinese che vive a Gerusalemme e lavora in Cisgiordania, può esserci d’aiuto. Samah Jabr ha pubblicato centinaia di testi e articoli d’analisi sull’occupazione israeliana e sulla società palestinese, ponendo l’accento sull’impossibilità, per chi vuole capire, di separare il livello interpretativo politico da quello psicologico.

In quanto tu stessa abitante di Gerusalemme, puoi illustrarci in che modo ti vedi confrontata con l’occupazione?

Al pari di tutti gli abitanti arabi di Gerusalemme, non sono cittadina di nessun luogo. I miei documenti ufficiali non parlano affatto di cittadinanza. Assomigliano al documento di soggiorno che può richiedere uno straniero residente in Italia. Ciò è già un’importante privazione, che porta a sentirsi permanentemente minacciati…

Inoltre, la maggior parte dei Gerosolimitani è assai povera. Molti di loro non possono vivere in città per questioni economiche e mancanza di spazio… Per noi, continuare a vivere a Gerusalemme è una lotta perenne. Io ho fatto una scelta difficile, per il fatto che, pur continuando a vivere in città ho deciso di non collaborare con le istituzioni israeliane e quindi lavoro in Cisgiordania, il che comporta difficoltà di tipo economico…

Va poi detto che, essendo cresciuta a Gerusalemme ho potuto osservare gli effetti dell’occupazione, per esempio il modo in cui gli uomini vengono umiliati per strada dalla polizia e dai soldati israeliani, che li perquisiscono apposta per offendere la loro virilità. Parlo soprattutto degli uomini, perché vedo che sono i più colpiti nella quotidiana interazione, nelle quotidiani frizioni con l’occupante. Naturalmente, a Gerusalemme ciò può accadere a qualsiasi persona araba….

Alla fine, con la mia famiglia abbiamo deciso di acquistare un appartamento in città. La ricerca è iniziata nel 2003 ed è terminata nel 2021, un periodo che ha consumato molta energia e risorse mie e dei miei genitori.

Del tutto diverso è invece il caso della colonia chiamata Ramat Shlomo, situata nei pressi del nostro quartiere di Shuaffat, la quale s’è enormemente espansa negli ultimi anni. Se si confronta la velocità dello sviluppo edilizio delle colonie israeliane con la mancanza di case per i Palestinesi e gli ostacoli per accedervi, si rimane basiti. Solo noi Gerosolimitani siamo confrontati a ciò giorno dopo giorno oltre a dover affrontare un sacco di restrizioni economiche, giuridiche e amministrative – tutte di natura politica – per il solo desiderio di trovare una casa.

La mia famiglia ha avuto la fortuna di riuscirci, ma il fatto è molto raro. E le generazioni che ci seguiranno, i miei nipoti e le mie nipoti, ad esempio, non avranno più i mezzi per vivere a Gerusalemme. Si pensi, poi, che io lavoro duramente (nell’ambiente della psicologia palestinese mi chiamano “the Shark, lo squalo”! [Samah ride]), svolgo da anni vari impieghi nello stesso tempo, onde mettere qualcosa da parte e garantirmi l’autonomia finanziaria per tutte le ragioni appena elencate…

La colonia di Ramat Shlomo è stata costruita nell’area di Shuaffat in tempi rapidissimi, come ho detto, e s’è estesa al punto da inglobare l’intero quartiere. Che cosa hanno fatto gli Israeliani dopo l’occupazione del 1967? Per prima cosa si sono impossessati del 10% dei terreni della Cisgiordania attigui a Gerusalemme – che considerano la “capitale eterna d’Israele”. In secondo luogo hanno costruito le colonie in modo da frammentare la zona araba, che avrebbe invece dovuto rimanere connessa, creando ulteriori difficoltà di movimento per gli Arabi, cui non è più permesso transitare nei pressi di queste colonie. Tra il mio quartiere di Shuaffat e quello di Sheikh Jarrah, per esempio, ci sono le colonie Ramat Shlomo e Colline Française, un fatto che fa incollerire i Palestinesi di Gerusalemme.

Una delle strategie dell’occupazione è la frammentazione del popolo palestinese, fra gli abitanti della Cisgiordania, i Gazawi, i Gerosolimitani, i Palestinesi del 48, (che l’occupante chiama “arabi israeliani”) ed i Palestinesi della diaspora… In che misura la presente rivolta riesce a sormontare questa divisione? Mi riferisco particolarmente alla partecipazione del Palestinesi del 48 alla protesta, i quali di solito sono meno attivi nella lotta contro l’occupante…

Hai ragione, è vero che Israele ha pianificato contro il nostro popolo un sistema di frammentazione molto efficace. Ma in una fase come questa tale sistema va in crisi ed i Palestinesi serrano i ranghi… è il motivo per cui abbiamo visto Gaza intervenire e rispondere agli attacchi contro i Gerosolimitani, mentre le autorità palestinesi ufficiali non l’ha fatto, sebbene la geopolitica ufficiale consideri Gerusalemme parte della Cisgiordania e l’ANP dovrebbe proteggerla… Nel caso presente, il fatto più importante è comunque l’intervento dei Palestinesi del 48. Penso che la presenza di alcuni di loro quando fu attaccata la grande moschea ha favorito la mobilizzazione di molta gente… Anche perché ciò avvenne poco prima della commemorazione della Nakba, che tocca ferite aperte in molti Palestinesi del 48. Siamo di fronte ad un momento assai importante per la loro ripoliticizzazione. E poi, sì, Israele ha lungamente tentato di neutralizzarli, d’intimidirli fortemente onde impedire loro d’intervenire con efficacia quando in Cisgiordania o a Gaza ci sono scontri. C’erano tante buone intenzioni, ma nessun atto concreto, perché ciò era severamente punito. Conosco parecchi colleghi medici, palestinesi del 48 o di Gerusalemme impiegati nel sistema sanitario israeliano che in questo momento rischiano di perdere il posto per il solo fatto di avere espresso la loro opinione su quanto sta succedendo…

Anche alcuni miei pazienti di Gerusalemme o del 48 che hanno effettivamente perso il lavoro a causa della loro presa di posizione su Facebook o per aver partecipato a manifestazioni; sono in questa posizione da parecchi anni e non possono quindi più lavorare per gli Israeliani, poiché questo implica avere una “attestazione di buona condotta” rilasciata dalla loro polizia!

Ci sono giovani Gerosolimitani impossibilitati di viaggiare all’estero e di ottenere un lavoro per il fatto di avere espresso il loro attivismo una sola volta nella loro vita. Anche questa è una maniera d’intimidire, di ridurre, di ammaestrare, di controllare i comportamenti individuali frequentemente praticata verso i Palestinesi del 48 o di Gerusalemme est: toccarli nella loro esistenza con minacce inerenti il lavoro o i loro mezzi di sussistenza… D’altro canto, in questi giorni nella Palestina dei 48 si assiste ad attacchi fisici diretti d’estrema crudeltà. A Tel Aviv, per esempio, s’è visto un’ottantina d’Israeliani continuare a picchiare un Palestinese che già era a terra e così sfinito da non riuscire ad opporsi alle botte… Un fatto che ha scioccato pure certi Israeliani. Sebbene le autorità tentino di presentare la faccenda come una lite tra giovani, in realtà questi giovani israeliani possono agire in tutta impunità, tanto è vero che alcuni pestaggi sono avvenuti sotto gli occhi di soldati e poliziotti che non sono intervenuti. C’è una palese complicità tra coloni e soldati. Nethanyahu, dal canto suo, da un lato chiede ai militari di portare la calma nella Palestina del 48 e dall’altro assicura loro che non dovranno temere nessuna commissione d’inchiesta… ecco il messaggio comunicato loro! Non è difficile immaginare come lo intrepreteranno i coloni, che si vedono concessa totale impunità di sfogare la loro crudeltà e ferocia.

È pensabile, secondo te, che l’attuale conflitto possa servire a riportare all’ordine del giorno il diritto al ritorno dei Palestinesi? O, più in generale, esiste una loro prospettiva sul piano giuridico?

Sul piano giuridico israeliano no di certo! Perché Israele ha creato un arsenale di mezzi al servizio dell’occupazione. Il suo sistema giuridico è concepito in modo da impedire l’applicazione del diritto internazionale in favore della Palestina, per esempio per implementare l’Accordo di Ginevra, che vieta ad Israele d’insediarsi in un territorio occupato e dichiara illegali le colonie… mentre le leggi israeliane lo permettono. La situazione attuale rimette quindi al centro del discorso quest’aspetto della causa palestinese. Sono stati citati tre fatti: Cheikh Jarrah, la Porta di Damasco e l’attacco alla moschea Al Aqsa. Sono solo tre tappe, tre soglie o gradi di un lento processo costantemente in atto a Gerusalemme, dove la nostra identità è sempre sotto attacco. Si pensi alle leggi, introdotte già da molto tempo, miranti a limitare o ad impedire del tutto il raggruppamento famigliare… Se sei un Palestinese di Gerusalemme che sposa una donna di Ramallah, non puoi portarla a vivere con te in città, mentre se vai a vivere a Ramallah, i tuoi figli non saranno riconosciuti come cittadini di Gerusalemme e non potranno mai venire a viverci.

Come ho già detto prima, i Palestinesi che ci vivono subiscono ogni sorta d’angheria a tutti i livelli e in ogni momento. L’ultima scena è come un risveglio, un appello a tutti noi perché alziamo la testa, ritroviamo la nostra dignità, riprendiamo l’azione politica, ma è pure un richiamo al mondo a vedere quello che succede in Palestina. Questi avvenimenti hanno avuto luogo durante il Ramadan, un mese in cui ci si sarebbe potuto aspettare un po’ più d’attenzione da parte dei musulmani… Perché quando si parla dei fatti di Cheikh Jarrah, o della Porta di Damasco, ad essere presa di mira è l’identità araba e musulmana.

Per ritornare alla tua domanda: sì, il diritto al ritorno è importante, ma il problema è più ampio; ci sono cose più attuali e spinose che noi tutti tentiamo di affrontare. Sai perfettamente anche tu che i fatti del 48 sono successi in un’epoca ancora priva di internet e di tutte le odierne possibilità offerte dalla comunicazione di massa. Oggi ognuno è in grado di sapere. Che Israele possa approfittare dell’impunità per compiere le stesse cose che faceva in Palestina negli anni Trenta o Quaranta del secolo scorso, è un fatto per noi insopportabile, tanto per questa sua impunità quanto per la capitolazione o la complicità internazionale. Gli si lascia mano libera pur assistendo in diretta a quanto succede…. Ma qui non posso non accennare all’oscuramento da parte di Facebook e Instagram, delle testimonianze e delle campagne “Save Cheikh Jarrah”.

Hai appena menzionato la coscienza araba e musulmana, l’identità araba sotto attacco, che dovrebbe risvegliarsi. Ma non pensi che, in una fase come questa, l’appello alla solidarietà internazionale deve superare la differenza tra Arabi e Musulmani (che si ritengono più vicini alla causa palestinese per ragioni politiche, storiche, religiose o altre) e altri popoli o categorie identitarie? Suppongo che in Europa molte persone potrebbero chiedersi come mai ti appelli all’identità araba e musulmana e non in forma più generale all’umano senso di ribellione di fronte a ciò che succede?

Il problema ha varie facce… Non è possibile fare astrazione dell’attacco all’identità araba e musulmana, come non si può negare che si tratti di una guerra etnica contro i Palestinesi. C’è comunque pure una grave violazione dei diritti umani e tutti i popoli che hanno vissuto la colonizzazione sanno esattamente di cosa parlo. Ma, ripeto, non si può eludere la volontà di negazione ed il disprezzo di stampo coloniale, questo disprezzo che Israele esprime per l’identità culturale del nostro popolo, il quale è, di fatto, arabo e musulmano, sebbene potrebbe essere altro.

La situazione di risveglio da me menzionata va vista in contrapposizione al recente avvicinamento a Israele da parte di quattro regimi arabi – il Marocco, il Bahrein, gli Emirati Arabi ed il Sudan. Il pretesto addotto era che tramite i trattati di pace e gli accordi di pace sarebbe possibile normalizzare le relazioni con Israele senza cadere in contraddizione. Così almeno i dirigenti politici hanno tentato di giustificarsi davanti ai loro popoli. I fatti hanno però svelato le loro menzogne. È per questo che insisto sul livello arabo-musulmano. Penso che nessuna colonizzazione può imporsi senza disprezzare, schiacciare, negare l’identità culturale del colonizzato. È precisamente ciò che Israele fa con i Palestinesi e questo fatto non riguarda solo loro, ma tocca tutti coloro che s’identificano nella stessa identità culturale.

Ma sul piano della violazione dei diritti dell’uomo, dell’ingiustizia è chiaro che chiediamo alla solidarietà internazionale di cogliere l’occasione per ampliare l’impegno politico contro questa forma tutta speciale di colonizzazione, che estirpa gli indigeni dalla loro terra per insediarvi estranei. Si tratta di un livello di colonizzazione ben più grande e grave del corrente concetto del fenomeno o di ciò che si definisce con il termine di apartheid.

 

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  1. Una delle porte della città vecchia di Gerusalemme, detta Bab Al Amud in arabo (Porta della Colonna).
  2. Data della proclamazione dello Stato di Israele, accompagnata dall’espulsione in massa e di massacri di Palestinesi, e che ha prodotto centinaia di migliaia di profughi. Per il popolo palestinese questo fatto è la “Nakba”, cioè la catastrofe o il disastro. Nel seguito, il testo porterà alcune precisioni in merito.
  3. Si veda pure https://www.middleeasteye.net/opinion/what-palestinians-experience-goes-beyond-ptsd-label.
  4. https://www.youtube.com/watch?v=-02fSTUb0Qs&list=RD-02fSTUb0Qs&start_radio=1&rv=-02fSTUb0Qs&t=40.
  5. Quasi 200 morti e oltre mille feriti in data 16 maggio. In questo solo giorno i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 42 persone. (N.d.T. Il bilancio finale, dopo la tregua, è di circa 230 morti, fra cui 65 bambini, 39 donne e 17 anziani e ben 1’710 feriti)

Palestina: la resistenza come terapia (3-3)

Conversazione con Samah Jabr, psichiatra e psicoterapeuta palestinese

Intervista divisa in tre parti.

Apparsa su lundimatin   il 17 maggio 2021

 

Questa intervista ad una psichiatra e psicoterapeuta palestinese che vive a Gerusalemme e lavora in Cisgiordania, può esserci d’aiuto. Samah Jabr ha pubblicato centinaia di testi e articoli d’analisi sull’occupazione israeliana e sulla società palestinese, ponendo l’accento sull’impossibilità, per chi vuole capire, di separare il livello interpretativo politico da quello psicologico.

In molti Paesi occidentali la gente comune non riesce a cogliere la dimensione religiosa e simbolica del conflitto, usata sovente per ridurlo ad una guerra di religione, per suggerire una falsa simmetria e mettere i due contraenti sullo stesso piano o – peggio – per associare i Palestinesi al terrorismo islamico… Ovviamente, non voglio ridurre le cause delle numerose rivolte palestinesi a questa dimensione, ma spiegami qual è il senso simbolico e religioso di Gerusalemme e dei luoghi santi nel conflitto.

Ritorno a ribadire la grande importanza della fede e dell‘aspetto simbolico, ma c’è dell’altro… Gerusalemme per molti suoi abitanti è il loro quartiere, il fulcro della loro vita. Prendiamo la moschea Al Aqsa: essa è molto cara per esempio ai bambini… Io, da piccola ci andavo a fare pic-nic con mia nonna. Quindi per noi è come un foyer, è la nostra casa. Ci sono cose non riducibili alla sola dimensione religiosa e simbolica. È la nostra geografia, il luogo dove siamo cresciuti, tutte cose da non sottovalutare. Ho accennato poc’anzi alla Porta di Damasco: c’è una canzone che ce ne dà un bel quadro, evocando la venditrice di caffè e altri commercianti emblematici, s’intitola Bab Al-Amoud, di Maggie Youssef (4)

Ci fa capire che la Porta di Damasco non ha un mero valore personale, individuale, un legame con talune persone particolari. Essa possiede ai nostri occhi qualcosa di bello e sacro, si riflette nelle nostre canzoni, nei detti popolari, è un riferimento d’obbligo per tutti noi… infine, la sentiamo come un luogo archetipico.

Tutto ciò è parte integrante dell’identità individuale e collettiva palestinese e di altre persone, anche fuori dalla Palestina. E noi, che ben sappiamo come Israele ha rubato la nostra terra e impedisce a molti di accedere a questi nostri luoghi, sentiamo un dovere di responsabilità verso i Gerosolimitani, il dovere di preservare l’identità del luogo, di salvaguardare il suo aspetto storico, simbolico e religioso… Conosco parecchie persone non credenti o non praticanti, persone dediti alla droga, che non frequentano la moschea. Ma che sono accorsi a proteggere Al Aqsa. Partecipano alle manifestazioni, difendono coloro che vanno in moschea a pregare perché si sentono parte della stessa identità culturale. Ci tengo inoltre a dire che quando i Palestinesi mancano di tante cose, quando subiscono fortemente le privazioni, allora il simbolico assume una dimensione più rilevante. Evidentemente, il simbolico è importante per tutti, ma predomina quando ci si vede privati dei diritti essenziali…

Da Gaza sono stati lanciati razzi contro Israele, che ha risposto con bombardamenti che hanno provocato dozzine di morti e centinaia di feriti (5). Lo scontro tende ad essere associato ad altre crisi simili, per esempio a quella del 2014… pare che Nethanyahu ed i dirigenti israeliani siano più a loro agio a gestire questo tipo di conflitto, in termini di comunicazione sul piano internazionale e di politica interna, che l’aspetto del sollevamento della gioventù di Gerusalemme. Dal punto di vista strategico, questa militarizzazione conveniva veramente ai Palestinesi? Mi pare di assistere al tentativo di soffocare e sviare la dimensione insurrezionale, spontanea e popolare della rivolta, la quale per Israele era forse più pericolosa che uno scontro con le organizzazioni armate della resistenza a Gaza.

Questo ci riporta alla questione del calcolo. Ti ho spiegato il perché non sia possibile applicare un calcolo dei rischi del tipo “costi-benefici”, perché siamo in presenza di motivazioni psicologiche importanti. Ma se proprio vogliamo fare questo calcolo, direi che è solo quando Israele ha cominciato ad essere toccato nel vivo che il mondo ha capito la portata di ciò che era successo a Gerusalemme. Fin tanto che c’erano solo scontri quotidiani alla Porta di Damasco o a per Cheikh Jarrah, i media statunitensi, per esempio, vi hanno dedicato ben poco spazio e Instagram e Facebook hanno bloccato la diffusione di testimonianze… Quando i Palestinesi protestavano disarmati, quando le loro manifestazioni popolari venivano represse, quando i soldati israeliani li colpivano alla testa nelle strade di Gerusalemme si rimaneva muti… Fu soltanto quando Israele ha iniziato a subire danni, quando ha dovuto chiudere l’aeroporto di Tel Aviv che i media internazionali si sono svegliati. A quel punto persino l’ONU si è mosso per dare l’impressione di occuparsi della faccenda. Ogni dirigente politico si è sentito obbligato a fare una dichiarazione pubblica. Ormai ci siamo abituati… Penso inoltre che se non ci fosse stato l’intervento di Gaza, i Palestinesi non avrebbero potuto pregare nella grande moschea alla festa dell’Aid, e il tribunale israeliano non avrebbe rimandato la decisione in merito a Cheikh Jarrah, che scadeva il 10 maggio. Allora, Israele può sì reprimere ogni sollevamento popolare ed il mondo continuare a fare come le tre scimmiette, ma quando Israele sente su di sé la pressione della resistenza i riflettori si accendono. Certo, Israele può utilizzare la stessa macchina mediatica, la stessa propaganda per diabolizzare la resistenza a Gaza – l’ha già fatto altre volte – ma non si deve scordare che dopo ogni attacco a Gaza la resistenza palestinese si rafforza, mentre i vari attacchi venivano lanciati con il pretesto di annientarla. D’altro canto, come ho già detto, la resistenza di taluni individui o di qualche gruppo, ristabilisce la coscienza di un collettivo efficace e capace d’agire. Ciò umanizza i Palestinesi, nonostante tutti i discorsi subiti pronti a diabolizzarne la resistenza.

Noi Palestinesi non condividiamo il parere dominante a livello internazionale sulla nostra resistenza. Non possiamo condividerlo perché noi facciamo un’esperienza di prima mano, diretta, nella vita di tutti i giorni. Malgrado tutte le riserve che possiamo addurre in merito alla politica delle varie organizzazioni e fazioni, credo che ci sia consenso per quanto riguarda l’importanza della resistenza, di tutte le forme di resistenza messe in atto dal popolo palestinese. Perché nessuno, né l’ONU, né i regimi arabi o i democratici di tutto il mondo, è in grado di proteggere il nostro popolo, di ricostruirne la dignità e l’umanità; questo compito solo la resistenza in tutte le sue svariate forme può svolgerlo.

A questo proposito voglio ribadire che ritengo valida ogni forma di resistenza. Per un popolo occupato, la resistenza è un diritto umano, oserei dire un dovere. E il quando e il come della scelta dei modi è cosa che compete solo agli stessi Palestinesi. Sta a noi decidere quale forma privilegiare e quando possiamo metterla in pratica.

Ultimamente abbiamo visto taluni paesi arabi normalizzare le loro relazioni con Israele o perlomeno riavvicinarglisi diplomaticamente. È poi stato detto a più riprese che la questione palestinese avesse perso peso. Nell’assenza di un forte sostegno statale, sia ne Paesi arabi che altrove, e di fronte al discredito dei loro governanti, la lotta dei Palestinesi assomiglia sempre più ad un sollevamento popolare, il quale non è interpretabile solo nei termini dell’appartenenza identitaria (araba o islamica), di scontro tra fazioni interne o di rivalità geopolitiche… Paradossalmente ciò potrebbe rivelarsi un vantaggio, di fronte alla superiorità militare di Israele?

Penso che per i Palestinesi ciò sia allo stesso tempo un punto di forza e di debolezza. Da un lato, la resistenza gode di un sostegno diffuso, non ufficiale, il che impedisce d’imbrigliarla per mezzo della cooptazione, la corruzione o l’intimidazione. Essa saprà sempre rinnovarsi e rinvigorirsi, grazie al suo carattere popolare. È dunque un bene che non si tratti di una resistenza finanziata da alcuni Stati, gli Emirati Arabi, ad esempio, o l’Arabia Saudita, così che non la si può né ricattare né intimidire. Ci saranno sempre forze nuove, dei giovani pronti a tenere testa agli Israeliani, nei campi profughi, nella città vecchia di Gerusalemme, in tutta la Palestina. D’altro canto manca una dirigenza decente, che sappia esprimere le aspettative popolari, sviluppare ulteriormente questa resistenza e cogliere l’occasione per realizzare obiettivi politici…

Tu denunci un’assenza di dirigenza… Nello stesso tempo, se pensiamo a ciò che è successo negli ultimi anni, si vedono un po’ ovunque sollevamenti, rivolte, specialmente prima della crisi del Covid… e la mancanza di una dirigenza capace, cioè la crisi della rappresentanza politica si nota nella maggior parte dei casi. Oggi c’è una sanguinosa repressione in parecchie città della Colombia, che ricorda la serie di rivolte del 2019, a Hong Kong, in Cile, Honduras, Algeria, Iraq, Libano e pure i sollevamenti nei Paesi arabi nel 1911. Più recentemente, ci sono stati i tumulti negli USA dopo l’assassinio di George Floyd. Dappertutto, si è trattato di grandi e diffusi movimenti popolari, che offuscavano i partiti, i gruppi tradizionali, l’appartenenza politica istituzionalizzata o addirittura geopolitica… C’era diffidenza verso la dirigenza, un po’ come ciò che è successo inizialmente in Palestina con il sollevamento di Gerusalemme est e pure all’inizio della Grande Marcia del Ritorno del 2018, che non era inquadrata da un gruppo o da un partito. D’un tratto, sebbene la situazione palestinese sia particolare, non ti sembra che queste somiglianze tra vari tipi di contestazione che sfuggono a ogni forma di direzione, possa fare emergere nuove forme di solidarietà, di risonanze, di nuove prospettive di lotta per i Palestinesi?

Sì, penso che nella lotta palestinese contro l’occupazione si possa riconoscere un carattere universale. La nostra lotta può ispirare molte persone in tutto il mondo e, inversamente, noi possiamo imparare molto dalle lotte di altri popoli colonizzati, occupati o repressi, altri popoli che hanno fatto molti sacrifici per la giustizia e contro l’oppressione. Secondo me, la situazione contemporanea permette soprattutto di poter ricorrere a tali sollevamenti popolari quando non abbiamo una dirigenza politica che faccia proprie le nostre speranze…

La mia critica è rivolta soprattutto ai dirigenti palestinesi ufficiali. Questi non rappresentano le aspettative e la volontà del popolo palestinese; momenti come questo permettono quindi l’emergere di altre opzioni politiche, di altre opportunità, di altri leader più meritevoli di rappresentare i Palestinesi.

Io sostengo che l’occupazione tenti con ogni mezzo di contrastare il processo democratico in Palestina. Israele ha avuto quattro elezioni in meno di un anno e mezzo, eppure ha impedito la prima elezione che da noi doveva tenersi dopo 15 anni. Ecco l’enorme squilibrio tra le due parti.

Che si tratti della scelta dei dirigenti o delle forme di resistenza, i Palestinesi devono essere in grado di decidere… Naturalmente, io sono favorevole alla discussione, al dibattito, alle opzioni riguardanti le forme di resistenza. Ma ciò dev’essere fatto fra Palestinesi, fra tutti i Palestinesi dei vari frammenti geografici creati dall’occupazione e pure fra i Palestinesi della diaspora. Non tocca a capi di Stato stranieri e nemmeno a leader non eletti democraticamente decidere al posto del nostro popolo.

La solidarietà internazionale è comunque molto importante. Voglio dire in particolare agli abitanti di paesi democratici che la loro solidarietà può giovarci molto: può perlomeno contribuire alla sopravvivenza della nostra identità e quindi dare fastidio a Israele, impedirgli di godersi un’occupazione tranquilla. Inoltre, la solidarietà internazionale ha un effetto terapeutico per il nostro trauma collettivo, perché esprime un’affermazione della nostra umanità, della nostra soggettività e capacità di agire, un riconoscimento della nostra esperienza e dei nostri sentimenti. Essa si fa portavoce della nostra narrazione e ci aiuta a liberarci dello statuto di vittime per diventare attori di cambiamento…

Vedendo quello che sta succedendo sotto i nostri occhi, quale sarebbe, per te, il migliore scenario possibile? Come l’immagini tu la liberazione della Palestina?

[Samah ride] Penso che la situazione attuale offra l’occasione di una ripoliticizzazione, sia per i Palestinesi, sia per coloro che ne sostengono la causa. Spero che questa situazione crei imbarazzo ai regimi ufficiali, non solo a quelli arabi, ma in tutto il mondo, a regimi ipocriti che continuano a permettere l’uccisione dei bambini di Gaza solo per confortare la cattiva coscienza europea in relazione ai massacri degli Ebrei commessi sotto il nazismo. Spero che questo mutamento di coscienza costringa Israele a rendere conto dei suoi atti e porti alla modifica dello statu quo, permettendo ai Palestinesi di diventare indipendenti e più liberi. Penso pure che sia arrivato il momento di un rinnovamento politico in Palestina, perché la nostra società non è sterile al punto di accettare la dirigenza attuale… Se la comunità internazionale smette d’intervenire negativamente nell’agenda politica del nostro popolo, questo sarà capace di darsi il personale politico più capace di esprimere il suo desiderio di libertà e di liberazione.

 

  • Lundimatin è un sito informativo in rete, presente ogni lunedì dal 2014 e pure una rivista cartacea semestrale dal 2017

 

  1. Una delle porte della città vecchia di Gerusalemme, detta Bab Al Amud in arabo (Porta della Colonna).
  2. Data della proclamazione dello Stato di Israele, accompagnata dall’espulsione in massa e di massacri di Palestinesi, e che ha prodotto centinaia di migliaia di profughi. Per il popolo palestinese questo fatto è la “Nakba”, cioè la catastrofe o il disastro. Nel seguito, il testo porterà alcune precisioni in merito.
  3. Si veda pure https://www.middleeasteye.net/opinion/what-palestinians-experience-goes-beyond-ptsd-label.
  4. https://www.youtube.com/watch?v=-02fSTUb0Qs&list=RD-02fSTUb0Qs&start_radio=1&rv=-02fSTUb0Qs&t=40.
  5. Quasi 200 morti e oltre mille feriti in data 16 maggio. In questo solo giorno i bombardamenti israeliani hanno ucciso almeno 42 persone. (N.d.T. Il bilancio finale, dopo la tregua, è di circa 230 morti, fra cui 65 bambini, 39 donne e 17 anziani e ben 1’710 feriti)

Israele deve scegliere tra guerra civile e guerra regionale

In occasione di una recente apparizione in un talk show politico l’8 giugno 2021, l’analista politico libanese Nasser Qandil ha dichiarato che Israele sta attraversando un periodo delicato e pericoloso della sua storia, durante il quale il paese deve scegliere tra «una guerra civile o una guerra regionale».

Fonte: Version française

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