Toscanini andrebbe oggi a Tel AVIV?

Riceviamo da Ugo Giannangeli e pubblichiamo la sua lettera al Maestro.

Illustre Maestro Riccardo Muti,

ho letto il Suo articolo sul Corriere della sera di ieri nel quale annuncia il Suo concerto a Tel Aviv il prossimo 20 Dicembre nell’80° anniversario del primo concerto di Arturo Toscanini nel 1936 con l’Orchestra di Palestina, oggi Filarmonica di Israele. Lei ricorda l’impegno antifascista di Toscanini nonché il suo senso altissimo di libertà, di dignità umana e di uguaglianza. Le chiedo: è certo che oggi Toscanini, portatore di questi valori, andrebbe a Tel Aviv e non piuttosto a Ramallah o a Gaza a portare la sua solidarietà ai Palestinesi che lo storico Bruno Segre ha definito “ gli ebrei del nostro tempo”? Lei ricorda anche la lettera di ammirazione di Albert Einstein nei confronti di Toscanini. Si rilegga la bella lettera di Einstein, Hanna Arendt ed altri intellettuali ebrei al New York Times nel Dicembre 1948 dopo la strage di Deir Yassin. Il partito di Begin è definito senza mezzi termini “fascista”. E si era solo all’inizio della storia di Israele, oggi Stato fiero della sua etnocrazia realizzata attraverso l’apartheid e la pulizia etnica dei Palestinesi! Lei con la sua presenza contribuisce al decoro di immagine di questo Stato. Lei sa che molti artisti si sono rifiutati di esibirsi in Israele raccogliendo l’appello del movimento BDS. Vorrei rivolgere anche a lei questo appello. Ma se proprio non volesse o non Le fosse possibile rinunciare all’impegno, le chiedo: vada almeno anche a Ramallah e a Gaza. Per Gaza occorre l’autorizzazione di Israele, carceriere di due milioni di persone. Le diranno che ci sono problemi di sicurezza. Non gli creda, non è vero. Il popolo di Gaza La accoglierà festoso e grato e sicuramente ci sarà anche là un’orchestra onorata di essere diretta da Lei.

Un cordiale saluto.

Ugo Giannangeli, Veniano (CO)                                         14/12/2016

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Noi cosa possiamo fare di concreto? Sul sito dell’artista sono presenti i  contatti sotto riportati. Possiamo scrivere una cartolina, oppure una mail oppure telefonare per invitarlo a non andare in Israele, un paese che pratica l’apartheid.

Può lo stato sionista…

“nel silenzio del teatro ritrovare 

la parte più profonda di sé”

continuando a disattendere tutte le leggi internazionali e calpestando quotidianamente i diritti umani di un popolo che occupa e opprime con assedio, carcere e tortura?

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Analisi: Fatah, tieniti i tuoi applausi – la classe politica palestinese è marcia fino al midollo


6 dicembre 2016 MA’AN NEWS AGENCY

di Ramzy Baroud

Nel luglio del 2003 l’allora Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat definì Mahmoud Abbas un ‘traditore’, che “ha tradito gli interessi del popolo palestinese”.

Arafat ha detestato Abbas fino alla fine. Questo particolare sfogo si verificò durante un incontro con l’inviato delle Nazioni Unite Terje Larsen. L’incontro ebbe luogo pochi mesi dopo che Arafat era stato costretto dagli Stati Uniti, da Israele e da altre potenze occidentali a nominare Abbas primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Storicamente Abbas è stato il meno popolare tra i leaders di Fatah – gente come Abu Jihad, Abu Iyad e lo stesso Arafat. Questi leaders popolari per lo più sono stati assassinati, emarginati o sono morti in circostanze misteriose. Molti ritengono che Arafat sia stato avvelenato da Israele con l’aiuto di palestinesi, e Abbas recentemente ha asserito di sapere chi ha ucciso Arafat.
Eppure, nonostante la sua impopolarità, Abbas ha mantenuto sempre posizioni rilevanti. La lotta di potere tra lui ed Arafat, che è culminata nel 2003, durata fino alla morte di Arafat nel novembre 2004, non ha certo favorito la scialba immagine di Abbas tra i palestinesi.
Talvolta sembra che più Abbas diventa impopolare, più aumenta il suo potere. E’ stato appena rieletto capo del suo partito politico, Fatah, nel corso del suo settimo congresso tenuto a Ramallah il 29 novembre. A 81 anni è leader di Fatah, capo dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Comunque il suo discorso tirato per le lunghe durante circa tre ore il 30 novembre non ha portato nulla di nuovo; slogan ritriti e sottili messaggi agli Stati Uniti e Israele che la sua ‘rivoluzione’ si manterrà moderata e nonviolenta.
Tenendo conto del momento critico nella storia della Palestina, l’astratta retorica di Abbas esprime la profondità della crisi interna dei gruppi dirigenti politici palestinesi.
I ripetuti scrosci di applausi che il noioso e banale discorso di Abbas ha ricevuto dai quasi 1400 sostenitori che partecipavano alla conferenza sono un riflesso dell’ incancrenito tribalismo politico che oggi pervade Fatah, il principale partito dell’OLP e, senza dubbio, il partito che lanciò la moderna rivoluzione palestinese.
Ma il partito di oggi è una pallida ombra di ciò che era in origine. I fondatori di Fatah erano giovani ribelli entusiasti e preparati. I loro principali scritti del 1959 rivelavano i loro primi modelli, soprattutto la guerriglia della resistenza algerina contro il colonialismo francese.
“La guerriglia in Algeria ha avuto una profonda influenza su di noi”, dicevano i loro comunicati.
Quando ‘tutti’, ai vertici politici di Fatah, votano per Abbas, mentre la maggioranza dei palestinesi lo rifiuta, si è portati a concludere che Fatah non rappresenti in modo fedele il popolo palestinese, né che abbia neanche lontanamente il polso della piazza palestinese.
Se pur si volessero ignorare gli ‘yes-men’ di Fatah, non si può ignorare il fatto che l’attuale lotta tra le elites palestinesi è quasi totalmente slegata dalla lotta contro Israele.
I palestinesi subiscono quotidiane violenze: le colonie ebraiche occupano le colline palestinesi e continuano ad espandersi, i soldati israeliani scorazzano sulla terra palestinese occupata e lo stesso Abbas non può muoversi liberamente senza un previo ‘coordinamento di sicurezza’ con l’esercito israeliano.
Inoltre i palestinesi sono divisi in fazioni, regioni e clan; i favoritismi politici, la corruzione finanziaria e il palese tradimento stanno divorando il corpo politico palestinese come un cancro incurabile. Discorsi su ‘unità’, ‘riconciliazione’ e ‘costruzione dello stato’ non sono altro che parole, mentre i palestinesi conducono la loro triste esistenza sotto il tallone dei soldati, ai checkpoints e sotto il sordo ma esasperante ronzio dei droni militari.
Eppure le elites di Fatah hanno applaudito Abbas circa 300 volte durante il suo discorso di tre ore. Che cosa applaudono, esattamente? Che cosa è stato ottenuto? Quale strategia ha proposto per mettere fine all’occupazione israeliana?
Molta terra palestinese è stata persa tra il sesto congresso di Fatah nel 2009 ed il settimo. Questo non è un risultato, ma un motivo di allarme.
La triste verità è che nessun palestinese che si rispetti dovrebbe applaudire la vuota retorica; mentre i membri rispettabili di Fatah dovrebbero urgentemente riconsiderare tutti insieme questa devastante deriva.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.
Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore del sito PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ‘Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza’.
http://zeitun.info/

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Gaza e l’industria israeliana della violenza

Su gentile segnalazione dell’autore, il contenuto integrale del 6° capitolo del libro.

6. LA VIOLENZA CONCENTRAZIONARIA ISRAELIANA

6.1 Il sistema concentrazionario

Il paradigma carcerario

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Secondo lo storico di origine palestinese Rashid Khalidi, le pratiche israeliane di detenzione dei palestinesi rivelano che la natura di Israele dall’inizio dell’impresa sionista fino ai giorni nostri è quella di uno Stato carcerario per il popolo palestinese (1).

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Poesia come RESISTENZA

IL VOLTO ILLIBERALE DI ISRAELE. IN CARCERE UNA POETESSA PALESTINESE. ARRESTATI ARTISTI E INTELLETTUALI

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Paolo di Mizio

Dareen Tatour è una poetessa e fotografa palestinese di 33 anni. Nell’ottobre del 2015 la polizia israeliana fece un’irruzione notturna nella sua casa vicino a Nazareth, sfondò la porta e l’arrestò, senza alcun mandato e senza informarla di quale reato fosse accusata. Fu trascinata via in pigiama e non le fu neppure concesso di indossare lo hijab, il velo sulla testa. Solo dopo un mese di prigione le venne comunicato che il suo reato era di “incitamento al terrorismo” per aver pubblicato su YouTube e su Facebook una poesia intitolata ‘Resisti, mio popolo, resisti contro di loro’.

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La guerra di Erdoğan alle donne

 

DILAR DIRIK 17 November 2016

Le donne kurde, appartenenti a uno dei più forti e radicali movimenti delle donne nel mondo, stanno subendo un violento attacco dallo Stato turco, che resta impunito poiché l’Europa fa finta di non vedere. “Noi resisteremo e resisteremo fin quando vinceremo!” ripeteva Sebahat Tuncel prima che la sua bocca fosse serrata con la forza da mezza dozzina di poliziotti che l’hanno trascinata lungo il pavimento e imprigionata nei primi di novembre. Nove mesi fa un convoglio di cartelli di vittoria, slogan ottimisti e fiori accolse Tuncel quando venne liberata dal carcere, affinché potesse entrare in Parlamento essendo stata eletta quando ancora era reclusa. Tuncel, di nuovo in prigione, è una delle decine di politici kurdi del Partito Democratico dei Popoli (HDP) o al Partito delle Regioni Democratiche (DPB), arrestati dalle forze di sicurezza turche dall’ultimo ottobre, a seguito delle operazioni antiterrorismo avviate dal Presidente Erdoğan contro coloro che sfidano la sua autorità. Questo giro di vite segue il tentato golpe di luglio e rappresenta, dall’estate del 2015, una nuova escalation nella guerra fra lo Stato e il movimento kurdo, ponendo fine al processo di pace durato due anni e mezzo. Come il consiglio suggerito al nucleo antiterrorismo tedesco negli anni Ottanta “Prima sparate alle donne !”, la tossica mascolinità dello Stato è diventata palese nella sua dichiarazione di guerra alle donne. La forza del movimento militante delle donne kurde costituisce la più grande minaccia al sistema. E il caso di Sebahat Tuncel non è l’unico.

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