Con i più leali difensori di Israele che a parole sostengono la soluzione dei due stati, ecco un modo rapido per aprirsi un varco nella relazione parlamentare (PR) ed arrivare alla verità.
Ben White, 23 October 2016 09:00 UTC
Nel momento in cui i più leali difensori di Israele nel parlamento britannico appoggiano, a parole, la “soluzione dei due stati”, che cosa significa a Westminster sostenere i palestinesi?
La questione si pone in merito alla nuova campagna “Per Israele, per la Palestina, per la pace”, che i Labour Friend di Israele (LFI) hanno lanciato durante la recente conferenza annuale del partito laburista.
Secondo Ian Austin, deputato membro del LFI e sostenitore di Israele da lunga data, l'”obiettivo principale” di questa iniziativa è quello di “convincere il governo a sostenere la creazione di un fondo internazionale per la pace israelo-palestinese”.
Il fondo, a sua volta, dovrebbe servire a sostenere “progetti di sviluppo economico e sociale che promuovano la convivenza, la pace e la riconciliazione”.
Quando la pace è relazione parlamentare (PR)
E’ stato solo cinque anni fa, che l’ LFI si è “reinventato” per “sostenere attivamente la soluzione dei due stati e sviluppare la ‘causa progressista’ per Israele”. Allora, il Jewish Chronicle spiegò che la lobby “ha riconosciuto che il panorama politico era stato trasformato a causa dei sostenitori di Israele nella sinistra britannica”.
In altre parole, un crescente movimento di solidarietà con la Palestina, entusiasmato dalla campagna del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), ha messo i sostenitori di Israele sulla difensiva , in particolare quelli che si riconoscono come liberali o di sinistra.
Ma gli stessi “progressisti”, o sionisti liberali, rappresentato un’ultima vitale linea di difesa contro una marea crescente di sostegno per cose come il BDS.
Da anni, i gruppi pro-Israele istigano contro il boicottaggio, raccomandando invece il supporto ad opere di beneficenza “apolitiche” o a gruppi di “co-esistenza”. Qualunque organizzazione (compresi i gruppi israeliani per i diritti umani) che si concentri sull’occupazione o sugli abusi da parte dell’esercito israeliano è inaccettabile.
Che i gruppi a favore di Israele preferiscano i programmi cosiddetti di pace “people-to-people” è evidente: appare più positivo che non semplicemente negare i crimini israeliani o fare pressione esterna su Israele affinché ponga fine alle sue si stematiche violazioni dei diritti umani.
La prova del nove
Visto che i gruppi di difesa pro-Israele, sia dentro che fuori Westminster, professano impegno per la “soluzione dei due stati”, con alcuni parlamentari che partecipano sia all’LFI che al Labour Friend of Palestine, suggerisco una specie di prova del nove costituita dai seguenti tre elementi. Se un gruppo, o un deputato, non parla di quanto segue, bisognerebbe chiedersi il perché.
In primo luogo, l’asimmetria. La struttura è occupanti e occupati, colonizzatore e colonizzato? Se il rapporto tra Israele e i palestinesi è presentato come se i due partner avessero pari responsabilità, allora c’è un problema. I palestinesi sono apolidi, diseredati, sfollati, e occupati. Non si può pensare che attribuire pari responsabilità possa essere prodotto di ignoranza o malafede.
In secondo luogo, il diritto internazionale. Il diritto internazionale, o i trattati globali per i diritti umani, sono un punto di riferimento? Gli insediamenti in Cisgiordania, per esempio, costituiscono una grave violazione delle Convenzioni di Ginevra e sono parte fondamentale del regime di apartheid. Se non se ne è parlato affatto o se gli insediamenti sono stati considerati come un problema da risolvere nei negoziati, questo è un altro problema
Terzo punto – e forse il più importante – la responsabilità. E’ possibile riconoscere l’occupazione, criticare le violazioni israeliane del diritto internazionale, ma opporsi comunque a qualsiasi sforzo volto a porre fine all’impunità di Israele. E per quanto riguarda un embargo sulle armi? Che dire di un boicottaggio delle istituzioni e aziende israeliane e internazionali complici della colonizzazione della terra palestinese?
Asimmetria, diritto internazionale, responsabilità. L’elenco non è perfetto né completo. Ma se un parlamentare o una lobby saltano anche uno solo di questi elementi chiave, allora ci sono buone ragioni per dubitare delle loro intenzioni, anche se professano di sostenere la “pace” e lo stato palestinese.
Al di là di copia-incolla
Se volete una prova, per tornare all’LFI, che hanno deciso che è meglio presentarsi sia “pro-Israele” che “pro-Palestina”. Questa è la stessa LFI che con veemenza si oppone al riconoscimento di qualsiasi tipo di responsabilità per le violazioni israeliane del diritto internazionale, la stessa LFI che diffama i palestinesi e i loro sostenitori e che cita fonti della destra israeliana come “Palestinian Media Watch”.
L’anno scorso, per esempio, LFI ha posto la smilitarizzazione della Striscia di Gaza devastata come condizione per la ricostruzione, facendo proprio lo slogan “il disarmo per lo sviluppo” del Ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman (una posizione ribadita anche da importanti organizzazioni non governative). All’inizio di quest’anno, i parlamentari dell’LFI hanno contribuito a far cambiare direzione ad un dibattito nel Regno Unito sugli aiuti stranieri per attaccare l’Autorità Palestinese.
I palestinesi hanno bisogno di azioni, non di un’altra condanna da parte del Foreign Office né di una cinica campagna “pro-pace”, ideata per neutralizzare l’opposizione e continuare ad assicurare l’impunità al governo israeliano dedito all’espansione degli insediamenti, alla demolizione delle case palestinesi ed alla repressione del dissenso.
– Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” ( Apartheid israeliano: Guida del principiante) un libro che fornisce una delle migliori introduzioni al conflitto Israele/Palestina, rivelando che Israele attua un regime di segregazione e discriminazione. Egli scrive per il Middle East Monitor ed i suoi articoli sono stati pubblicati, fra gli altri, da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada.
Le opinioni espresse in questo articolo sono di proprietà dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Eye.
Una promozione per Meir Brand, CEO del gigante tecnologico in Israele, dove lavora dal 2005
Times of Israel 2 novembre 2016, 13:03
Un quadro israeliano di Google è stato nominato nuovo vice-presidente del gigante tecnologico
Meir Brand, dal 2005 CEO (Chief Executive Officer) di Google Israele, è stato promosso la scorsa settimana vice presidente della società – riporta il quotidiano israeliano Haaretz.
Google, che è stata riorganizzata lo scorso anno come società finanziaria Alphabet Inc. dai suoi co-fondatori ebrei Sergey Brin e Larry Page, è una delle più grandi aziende tecnologiche del mondo specializzata tra l’altro nella pubblicità online, nella ricerca e nel cloud informatico.
Google ha attivamente investito in Israele negli ultimi anni, in particolare attraverso il suo acquisto nel 2013 della popolare app israeliana GPS Waze. Inoltre Google possiede in Israele un importante centro di ricerca e sviluppo.
Brand rimarrà CEO di Google Israele e intanto continuerà ad essere membro del consiglio di amministrazione. Conserverà anche le sue funzioni in Google di direttore dell’EMEA Emerging Markets (Europa, Medio Oriente e Africa).
Secondo il quotidiano economico israeliano Globes, Brand fu il primo dipendente di Google Israele quando, nel 2005, la società è stata fondata e poi in seguito ne è divenuto il CEO.
Nel suo ruolo di Direttore dell’EMEA Emerging Markets di Google, Brand è responsabile di un certo numero di paesi la cui popolazione messa insieme supera un miliardo di persone. Supervisiona soprattutto l’insieme delle aree di Medio Oriente, Africa, Russia, Turchia e Grecia.
Prima di approdare a Google, Brand aveva lavorato nelle aziende israeliane Excite @ Home, ICQ e Microsoft Israele, secondo il suo profilo Linkedin. Laurea in Economia e Commercio presso l’Università di Tel Aviv, ha conseguito un master presso la Harvard University.
Brand ha elogiato lo stile di gestione praticato da Google, affermando che la società accorda un elevato grado di indipendenza alle sue sedi locali, fatto che, ha detto, permette a ognuna di loro di agire come start-up e in cambio essere poi in grado di affermarsi come leader nel settore dell’innovazione.
Susan Sarandon ha appena dato il suo appoggio a Jill Stein del Green Party alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti di martedì prossimo.
L’attrice premio Oscar aveva sostenuto in precedenza Bernie Sanders, che ha perso le primarie democratiche contro Hillary Clinton.
Ma invece di passare nelle file della candidata democratica, la Sarandon ha messo in chiaro il motivo per cui lei non voterà per la Clinton.
In un post su Facebook che annuncia il suo appoggio a Stein, Susan Sarandon elenca le sue divergenze con la Clinton: il salario minimo, l’opposizione alla legalizzazione della marijuana e il suo sostegno per il facking e le trivellazioni offshore.
La Sarandon sostiene anche gli Standing Rock Sioux nella loro lotta per fermare un oleodotto che sta per essere posato sulla loro terra tribale nel Nord Dakota.
“La paura per Donald Trump non basta per farmi sostenere la Clinton con tutto il suo record di corruzione”, scrive Sarandon. “Ora che Trump sta per autodistruggersi, ho anche la sensazione che quelli degli swing state (n.d.t. Stato nel quale nessun candidato o partito ha un sostegno predominante) hanno la possibilità di votare secondo la loro coscienza.”
La Sarandon non è la prima celebrità a sostenere un cambiamento radicale su queste e altre questioni.
Ma la star di Hollywood elenca un’obiezione alla Clinton che la fa distinguere: “Sostiene l’aiuto militare incondizionato a Israele“.
Ancora nel 2016 è insolito per le grandi star di Hollywood, anche quelle che esprimono la propria opinione politica di sinistra, prendersela con Israele.
Forse questo è un altro segno che uno dei grandi tabù nella politica americana sta andando in frantumi.
Sono i giovani obiettori di coscienza israeliani. I giovani che rifiutano di prestare il servizio di leva nell’esercito del loro paese. Tre anni per i ragazzi, due per le ragazze. Sono la futura classe dirigente israeliana. I futuri genitori di bambini che spereremmo non vedere più armati ad un poligono di tiro. Sono il cambiamento. La “rottura” nella società civile israeliana. Sono giovani che, pur riconoscendo il diritto all’esistenza dello stato d’Israele, non ne riconoscono la politica di occupazione, oppressione, violenza, apartheid. Sono i giovani che riconoscono l’esistenza dello stato di Palestina. Che non vogliono muri, checkpoints, soldati armati, soppressioni di manifestazioni e marce pacifiche.
Nel marzo del 2014, 50 di loro, indirizzarono una lettera a Benyamin Netanyahu. 50 ragazzi delle scuole medie superiori israeliane scrissero che «I soldati israeliani violano diritti umani e compiono azioni che il diritto internazionale considera crimini di guerra. Ci opponiamo all’occupazione dei Territori palestinesi, ad esecuzioni mirate, costruzioni di insediamenti colonici, arresti amministrativi, torture, punizioni collettive. Ci rifiutiamo di abbandonare i nostri principi come condizione per essere accettati nella società». E rivolsero agli israeliani l’invito «a riconsiderare la loro posizione in merito all’occupazione, l’esercito e il ruolo dei militari nella società civile».
Se il termine shministim comincia a circolare dal 2008, è dal 1970 che sempre più giovani israeliani si oppongono al servizio di leva.
Secondo il professore di storia Gadi Algazi della Tel Aviv University (anche lui condannato a un anno dietro le sbarre per lo stesso atto di protesta), da 600 a 1000 refusenik hanno evitato il servizio di leva nell’IDF da quando il movimento è iniziato nei primi anni ’70.
Ci sono molti modi ben noti per evitare di servire nell’IDF senza finire in prigione. Gli ebrei ortodossi, per esempio, sono stati esonerati dal servizio militare, così come molti ebrei non ortodossi. Altri coscritti che non desiderano portare armi sono autorizzati a svolgere lavori d’ufficio. E anche se l’IDF non rivelerà la metodologia utilizzata dalla sua commissione per l’obiezione di coscienza, la stessa effettivamente congeda dal dovere alcuni “pacifisti”, di solito coloro che si definiscono pacifisti vaghi, senza obiezioni specifiche per le azioni dell’IDF, secondo documenti del Ministero della Giustizia di Israele pubblicati dall’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite.
Una delle scuse più popolari, però, è l’instabilità mentale. Mostrare in modo convincente un disturbo psicologico garantisce quasi sempre l’esonero.
Ma non tutti ci stanno. I casi più clamorosi riguardano refusenik che non hanno accettato compromessi, dichiarando apertamente le motivazioni del loro rifiuto a svolgere il servizio di leva. Perché prendono tale posizione, sapendo che ciò che li aspetta è il carcere?
“Perché quando l’Occupazione finirà, in venti o trent’anni, sebbene spero che succeda prima, voglio poter dire che ho fatto qualcosa, che non sono stata solo a guardare questa ingiustizia. Il mio stare in prigione non ha aiutato neanche un palestinese, lo so, ma almeno ho fatto qualcosa pensando che fosse giusto, per dire che la violenza non è la risposta”, Omer Goldman, figlia di un vice capo del Mossad. La sua storia fece scalpore nel 2008, allorché la splendida diciannovenne, figlia di Naftali Granot, fu condannata a 21 giorni di carcere militare per essersi rifiutata di servire le Forze di Difesa Israeliane insieme a Tamar Katz e Mia Tamarin. Lei era una dei circa 40 studenti delle scuole superiori che firmarono una lettera di protesta nel 2008 (“Shministim”).
A circa 16 anni, aveva iniziato ad andare alle dimostrazioni e durante una protesta in cui i manifestanti cercavano di rimuovere un checkpoint costruito in mezzo ad un paese senza alcuna necessità, fu ferita ad una mano da un proiettile di gomma sparato dai soldati israeliani.
“Questo è l’esercito che ero stata indotta a credere che mi stava proteggendo, che mi stava aiutando”, disse scioccata. In quel momento aveva deciso che non avrebbe mai indossato l’uniforme di una forza che commetteva azioni del genere.
Il giorno in cui avrebbe dovuto firmare si presentò con un centinaio di sostenitori e rifiutò pubblicamente di arruolarsi. Fu portata in una cella e poi davanti a un tribunale militare, dove il giudice – un ufficiale di alto rango – cercò di convincerla che poteva diventare un soldato e cambiare le cose dall’interno.
“Potresti offrire caramelle ai bambini palestinesi nei checkpoint” le disse, a quanto pare, senza ironia. La sua replica – “offrire caramelle non cambia il fatto che sarò lì illegalmente” – lo fece infuriare tanto che le fu inflitta una sentenza più dura, 21 giorni di carcere, di quelle comminate ad altri obbiettori di coscienza che stavano lì quel giorno.
Per prepararsi alla sua detenzione in una prigione militare , Omer si era recata da uno psicologo ogni settimana. Dopo un secondo periodo, 10 giorni, trascorso in prigione per aver rifiutato nuovamente il servizio militare, Omer è adesso esentata dalla coscrizione per motivi medici, ma continua a partecipare alle dimostrazioni con i Palestinesi della Cisgiordania e a parlare pubblicamente contro quella che considera un’ingiustizia commessa dai propri connazionali e dal suo governo contro una popolazione civile innocente. La sua presa di posizione le è costata parecchio. Gli amici l’hanno allontanata, gli estranei l’hanno attaccata fisicamente e suo padre rifiuta ogni contatto con lei. I giorni trascorsi in prigione sono uno dei periodi più significativi della sua vita, dice.
Dichiarazione di rifiuto di Omer:
Mi rifiuto di arruolarmi nelle forze armate israeliane. Non sarò parte di un esercito che implementa inutilmente una politica violenta e viola i più elementari diritti umani su base giornaliera.
Come la maggior parte dei miei coetanei, anch’io non ho avuto il coraggio di mettere in discussione l’etica del militare israeliano. Ma quando ho visitato i territori occupati mi sono resa conto che vedo una realtà completamente diversa, una, opprimente, la realtà di estrema violenza che deve finire.
Credo nel servizio alla società di cui faccio parte e questo è esattamente il motivo per cui mi rifiuto di partecipare ai crimini di guerra commessi dal mio paese. La violenza non porterà alcun tipo di soluzione e non voglio commettere violenza, qualunque cosa accada”.
1)http://www.commondreams.org/news/2014/03/10/israeli-youth-we-refuse-serve-occupation-army
2)http://youtu.be/FZJESKXOSHs
3)http://www.radionetherlands.nl/thestatewerein/otherstates/tswi-090124-Omer-Goldman
Moral Heroes
Nena News Agency
Sorte analoga, sebbene più dura, toccò a Nathan Blanc, incarcerato nell’aprile 2013, per l’ottava volta in 19 settimane. Oltre 100 giorni di carcere a causa del suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito israeliano.
Convocato in una base militare nei pressi di Tel Aviv per otto volte in 19 settimane, espresse la sua opposizione a servire nell’esercito israeliano venendo arrestato e condannato al carcere, tra i 10 e i 20 giorni, ogni volta. La prigione in cui gli shministim scontano la loro pena è la prigione militare numero 6. Ogni volta che, terminata la detenzione, veniva rilasciato, veniva di nuovo convocato dopo un paio di giorni al centro di reclutamento IDF dove dichiarava ancora il suo rifiuto. Ed il ciclo ricominciava.
Blanc aveva iniziato a prendere in considerazione la possibilità di rifiutare il progetto diversi anni prima.
La svolta arrivò con l’Operazione Piombo Fuso, l’aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza, iniziata alla fine del 2008 e terminata tre settimane più tardi, con circa 1.400 palestinesi morti. In una dichiarazione rilasciata quando era stato imprigionato, Blanc aveva detto: “L’ondata di militarismo aggressivo che ha travolto il paese, le espressioni di odio reciproco e il discorso vacuo circa l’abbattimento del terrorismo ed il creare un effetto deterrente era il motivo principale del mio rifiuto.”
In un’intervista al Guardian aveva dichiarato: “La guerra in corso in questo paese da più di 60 anni sarebbe potuta finire molto tempo fa, ma entrambe le parti si stanno dando a estremismi e fondamentalismi. L’occupazione doveva essere temporanea, ma ora nessuno parla della fine.”
Lo Stato di Israele mantiene le persone “sotto il suo controllo” senza diritti democratici. I palestinesi sono soggetti a “punizione collettiva” per le azioni di pochi.
La maggior parte degli israeliani cresce sapendo che il servizio militare obbligatorio inizia alla fine della scuola. Arruolarsi nell’esercito è qualcosa di profondamente radicato, un’esperienza collettiva dell’identità nazionale israeliana.
Per alcuni si tratta di un dovere patriottico tanto atteso, per altri di un rito di passaggio, per altri ancora di un difficile dilemma morale. Ma è raro che le persone rifiutino per motivi di coscienza.
La maggior parte degli amici di Blanc ha accettato la sua posizione. “Abbiamo avuto un confronto molto tempo fa”, ed alcuni di loro, attualmente in servizio come soldati di combattimento, dicono di ammirarlo. I suoi genitori, nonostante un po’ di ansia, sono favorevoli.
Blanc ha scritto nella sua dichiarazione pubblica iniziale che “dopo quattro anni pieni di terrore, è chiaro che il governo Netanyahu, come quello del suo predecessore Olmert, non è interessato a trovare una soluzione alla situazione attuale, ma piuttosto a preservarla.”
“Come rappresentanti del popolo”, ha scritto nella sua dichiarazione pubblica, “i membri del gabinetto non sono tenuti a presentare la loro visione per il futuro del paese e si può continuare con questo ciclo sanguinoso, senza fine in vista. Ma noi, come cittadini ed esseri umani, abbiamo il dovere morale di rifiutare di partecipare a questo gioco cinico.”
Blanc ha respinto la scelta di alcuni obiettori di rivendicare una condizione medica che lo esonerava dal servizio militare. “Non volevo mentire. Questa è una questione di principio.”
Sarebbe stato disposto a intraprendere il servizio civile in sostituzione del periodo di leva obbligatorio nell’esercito, ma l’IDF aveva rifiutato di approvare l’alternativa.
La vita in carcere è dura. “Ci alziamo alle 5 ogni mattina e abbiamo un appello mattutino”. Poi al lavoro per otto ore al giorno. Ai detenuti, che indossano uniformi militari avanzate dagli Stati Uniti, è consentito effettuare chiamate da un telefono pubblico, ma non possono tenere i loro cellulari. C’è una biblioteca nel carcere, ma non una palestra.
“Non ho idea di quanto tempo andrà avanti “, aveva dichiarato Blanc. “Lo scenario peggiore è che verrò portato di fronte a un tribunale militare e condannato a circa un anno di prigione. Lo scenario migliore è che si stancheranno e mi permetteranno di fare il servizio civile.”
In effetti, è andata bene, si potrebbe dire. “Israele si è stancato di me”, scriveva Blanc che, dopo 10 condanne, per un totale di 178 giorni di carcere, ha iniziato il servizio civile nel settembre del 2014.
Il 5 maggio dello scorso anno, il figlio di Ilan Pappè, veniva rilasciato dal reparto C del carcere militare numero 6 dove aveva trascorso 21 giorni per aver disertato il servizio militare.
Il centro è situato in una base militare desolata a circa mezz’ora a est di Tel Aviv. Un terreno aspro, con pochi alberi sparsi, cancelli rotti e mucchi di immondizia, con il ronzio costante di un altoparlante dell’esercito che dà ordini in ebraico ai giovani israeliani.
Il reparto C è per quei detenuti che sono considerati prigionieri ‘pericolosi’ o ‘problematici’ (la maggior parte di coloro che rifiutano il sevizio obbligatorio di leva in genere finisce nel reparto A). Questo significa che la maggior parte dei detenuti sono etiopi, drusi, beduini ed ebrei marocchini. Ha promesso loro di non dimenticarli. Sono sottoposti a pestaggi sistematici, ad abusi mentali, vengono loro negati il sonno, il cibo e le cure mediche in maniera regolare. Sono costretti a guardare documentari sull’Olocausto. Quando è stato chiesto loro cosa ne pensassero hanno detto alle guardie carcerarie: “Ora sappiamo chi siete: nazisti”.
L’ultima degli shministim di cui è giunta voce in Italia è Tair Kaminer, affiancata dallo scorso febbraio da Tanya Golan. Entrambe diciannovenni, si apprestavano ad essere processate ed imprigionate.
Tair è stata condannata tre volte : l’11 gennaio a 20 giorni; il 1° febbraio, ancora a 20 giorni, con Tanya Golan; il 7 marzo a 30 giorni.
Tair: “Ci hanno spinto a pensare che non esista modello diverso da quello militarista e che non ci siano alternative. Ma io credo che questo sia il metodo più distruttivo e vorrei ricordare a tutti che ci sono sempre altre scelte. Le trattative, la pace, l’ottimismo, il desiderio di vivere in pace, libertà e sicurezza”. Qui la sua dichiarazione completa : http://www.wri-irg.org/en/node/25623
Tanya: “C’è chi sta traendo benefici dal proseguimento del conflitto israelo-palestinese e non rinuncerà mai volontariamente al controllo finanziario dei Territori Occupati. Mi rifiuto di far parte di un’organizzazione che mette in atto politiche razziste, fasciste, discriminatorie ed oppressive.” Qui la sua dichiarazione completa : http://www.wri-irg.org/en/node/25788
Dichiarata inadatta a svolgere il servizio di leva il 14 luglio 2016 a causa di “cattivo comportamento “, Tair è stata rilasciata il successivo 18 luglio, dopo 159 giorni dietro le sbarre. La sua condanna risulta, a tutt’oggi, essere la più alta comminata ad un obiettore di coscienza donna.
L’imminente esibizione del teatro nazionale nella colonia di Kiryat Arba dimostra che il boicottaggio contro l’attività israeliana in Cisgiordania da solo non potrà mai destabilizzare l’occupazione.
30 ottobre 2016 Scritto da Michel Warschawski
Quante volte siamo stati attaccati come sostenitori del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per aver sostenuto il boicottaggio accademico e culturale di Israele? Decine di volte, anche dai cosiddetti attivisti di sinistra.
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