L’emigrazione come atto politico

Il governo israeliano non ha garantito la  fattibilità di una soluzione a due stati e l’apartheid è già arrivato. Non voglio sacrificare il futuro dei miei figli per una lotta senza speranza.

Na’aman Hirschfeld, Published August 5, 2016

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“Emigrare a Berlino è stata una scelta per cercare la libertà dalla disperazione.” Foto illustrativa di israeliani che salgono a bordo di un aereo in partenza dall’aeroporto Ben-Gurion. (Moshe Shai / Flash90)

L’emigrazione di giovani israeliani a Berlino è preoccupante “perché sono proprio queste giovani donne e uomini che sono necessari in Israele”, spiega Uri Avery,  il veterano attivista di sinistra,   in un recente editoriale su Haaretz (ebraico). “Sono proprio coloro che hanno energia, iniziativa, le persone in cerca di libertà, che sono necessarie per salvare lo stato dalle mani di Netanyahu e dei suoi collaboratori.”
“La scusa comune [per l’emigrazione] è la disperazione” afferma Avery, sottolineando che in questo modo il crollo della democrazia israeliana sarà assicurata: “se tutti coloro che sono in grado di resistere a questo processo si arrendono e si spostano verso i  Caffè di Unter den Linden .”

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NEL KURDISTAN TURCO IL BILANCIO È MORTE E DISTRUZIONE

Posted date:  July 31, 2016

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Il fuoco dell’artiglieria si è concentrato soprattutto nei distretti provinciali di Sur, Cizre, Nusaybin, Sırnak, Yüksekova Silopi, Idil, Silvan, che oggi appaiono irriconoscibili.

Dopo 12 mesi di conflitto, oltre 430mila persone costrette ad abbandonare le case e più di 14mila palazzi ed esercizi commerciali polverizzati. Così il governo sostituisce i curdi con altre etnie.

L’ annuncio di Erdogan all’indomani del tentato golpe, finito drammaticamente nel sangue e nella repressione, dell’apertura al dialogo con i nemici di sempre Bashar al-Assad e Abdel Fattah Al-Sisi suona come una rivoluzione copernicana.

Non basta però la ripresa delle relazioni a livello internazionale. Il vero addio alle armi del governo di Ankara dovrebbe iniziare prima di tutto in casa, fermando la guerra interna che sta lacerando il Sud-est del Paese popolato dai curdi.

Una minoranza che occupa il 30% del territorio turco, teatro negli ultimi dieci anni di scontri armati fra le forze governative e il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan. Una guerra silenziosa che nell’ultimo anno, dopo la rottura nell’aprile del 2015 dei negoziati di pace decisa dal governo, ha raggiunto l’apice della recrudescenza con le devastazioni di interi centri urbani e le migrazioni forzate degli abitanti.

Un bilancio di morte e distruzione tracciato il 30 giugno scorso nel report “Destruction and forced migration” dall’Unione delle Municipalità delle regioni sudorientali dell’Anatolia, dopo soli dodici mesi di conflitto durante i quali oltre 430mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case e più di 14mila fra palazzi ed esercizi commerciali sono stati polverizzati.

Il fuoco dell’artiglieria si è concentrato soprattutto nei distretti provinciali di Sur, borgo antico di Diyarbakir dal 2015 patrimonio dell’Unesco, Cizre, Nusaybin, Şırnak, Yüksekova Silopi, Idil, Silvan, che oggi appaiono irriconoscibili. Ovunque si vedono cumuli di macerie ed edifici crivellati dai colpi delle armi. Lo spostamento del conflitto dalle aree rurali a quelle urbane, mesi di coprifuoco ininterrotto, l’uso di congegni esplosivi, carri armati ed altre armi pesanti si sono rivelati devastanti per aree dove, fino a poco tempo fa, vivevano in centinaia di migliaia.

«Ora, più di 400.000 sfollati stanno in case in affitto collettivamente, in condizioni difficili – denunciano le Municipalità – oppure vivono da mesi in tende e alloggi di fortuna senza infrastrutture di base e senza acqua potabile. Se si guarda alle dichiarazioni dei funzionari di governo e alle politiche da esso perseguite nel corso degli scontri armati e dopo le operazioni militari nelle aree urbane, appare chiaro che non tengano conto dei principi base della gestione della catastrofe e della crisi. Così, è molto probabile che il governo centrale per seguire un programma militare stia attuando sistematicamente politiche di trasferimenti, di ingegneria demografica e sociale».

Usa toni più severi e parlando di vera e propria pulizia etnica con il complice silenzio dell’Europa Lucia Giusti, rappresentante dell’associazione Verso il Kurdistan: «Il mese scorso a Cizre – riferisce – abbiamo potuto osservare distruzioni mirate di quartieri abitati da curdi. E a Istanbul, le associazioni dei profughi e dei diritti umani Goc-Der e Ihd hanno descrittola drammatica situazione del Kurdistan turco, che abbiamo potuto riscontrare a Cizre e poi a Van». Per le Ong locali lo scopo del governo turco è costringere le popolazioni a fuggire dalle città devastate per sostituirle con altre etnie (arabi, ceceni). e, in modo particolare, con i profughi siriani, cui sarebbe riconosciuta la cittadinanza turca in vista delle prossime elezioni.

«Questo servirebbe a ridimensionare il ruolo dell’Hdp, il partito filocurdo, che nell’area ha la maggioranza dei consensi» prosegue Lucia Giusti. Insomma, la devastazione bellica non è più solo strumento di dominio e annientamento politico-militare di un popolo, ma anche opportunità speculativa e di riscrittura antropologica e urbanistica.

Cizre, centro al confine con la Siria di 130mila abitanti a maggioranza curda ma con una modesta presenza di assiri e armeni, è una cittadina fantasma. Il coprifuoco di 24 ore, l’intera giornata, iniziato a settembre del 2015 è durato settantanove giorni. Mentre mancavano luce e acqua, soldati e altri appartenenti a dubbie unità speciali sparavano a vista su quanti si avventuravano fuori casa. È passato poi a venti ore e attualmente è in vigore dalle 23 alle 5 del mattino.

I morti accertati dall’inizio del divieto imposto dalle autorità sono 258, tutti civili fra cui 50 donne e alcuni bambini. Un lungo elenco di nomi di vittime innocenti fornito dall’Eldh, l’associazione europea dei giuristi democratici. Come il piccolo Berxwedana di soli undici mesi, ucciso con la mamma diciassettenne e la nonna – che aveva provato a fare da scudo – mentre rientravano a casa il 9 settembre 2015, bersaglio di tiratori scelti. Le due donne sono morte dissanguate per strada e solo alle 7 del mattino seguente è stato possibile portare via i cadaveri.

Poi c’è Sait Nayici, 16 anni, anche lui colpito da un cecchino davanti casa e morto dissanguato dopo sei ore di agonia senza che nessuno potesse intervenire. L’associazione degli avvocati ha denunciato nel “Rapporto informativo sulle violazioni dei diritti umani nella città turca di Cizre”, che «i civili trovati a violare il coprifuoco pure nelle ore diurne sono stati colpiti dalle forze armate con un uso sproporzionato, eccessivo e ingiustificato della violenza. Che nella maggior parte dei casi si è rivelata fatale a causa del divieto imposto ad ogni possibilità di soccorso». A Sur, dove il coprifuoco è stato dichiarato per ben sei volte e ancora prosegue in alcuni quartieri, la conta degli sfollati fa paura: 5.440 da settembre 2015 a oggi.

A Juksekova, da giugno 2015 sono cadute 837 persone e ben 516 nel solo periodo del coprifuoco (152 guerriglieri più 364 civili). «È una surreale quotidianità quella che stiamo vivendo – riferisce da Istanbul Ercan Ayboga, ricercatore dell’Università di Weimar e dipendente del Municipio di Diyarbakir – ormai penso solo a tipologie di luoghi “sicuri” e luoghi “pericolosi”. Gli eventi che si stanno sviluppando qui sono quasi incomprensibili persino per noi. Per un secolo, noi curdi siamo stati cittadini di seconda classe. Vogliamo la pace, ma una pace giusta. Anche coloro che hanno perso fratelli o figli negli ultimi 30 anni la desiderano fortemente. Ma dopo la fine dei negoziati lo Stato ha iniziato ad arrestare sistematicamente attivisti politici nel Nord del Kurdistan, mille in sole tre settimane. Lo Stato non parla, spara soltanto».

Il giorno dopo il colpo di Stato i membri dell’Akp di Erdogan hanno manifestato anche nel Kurdistan turco, destando preoccupazione anche in chi non fa parte delle opposizioni. «Sono ovunque per strada e molto aggressivi – riprende Ayboga -. Ora non ci saranno più limiti alla deriva totalitaria del regime. Hanno cominciato a dire alla gente direttamente come vestirsi, dicono che i golpisti e i loro simpatizzanti dovrebbero essere impiccati. C’è un nuovo linguaggio di odio e violenza».

di Marina Pupella

Articolo pubblicato su: https://www.left.it/left-n-30-23-luglio-2016/

Associazione onlus Rete Kurdistan Italia
Verso il Kurdistan

Ricordo che l’appello lanciato dall’Associazione profughi Goc Der di Istanbul, che recentemente ha aperto una succursale a Cizre, è stato prorogato al 31 dicembre 2016.

Cizre, nella provincia di Sirnak, regione del Botan, al confine con Iraq e Siria, è rimasta sotto coprifuoco dal 14 dicembre 2015: tremila palazzi distrutti, quasi cinquecento morti, migliaia di sfollati, divieto di ricostruire, questo è il panorama descritto alla nostra delegazione dall’unità di crisi della città di Cizre. E tutto questo nel silenzio complice dell’Europa!

Servono, qui ed ora, aiuti concreti.
I kurdi di Cizre ci hanno detto che non credono più in questa Europa, credono solo nelle ong e nelle associazioni che in questi anni hanno lavorato con loro!
L’associazione Verso il Kurdistan, insieme a Rete Kurdistan Italia, così come già avviene per il progetto “Oltre le sbarre”, è impegnata a raccogliere aiuti e “adozioni a distanza” e a consegnarli alle famiglie tramite l’Associazione Goc Der che si rende garante della consegna.

Le modalità per i versamenti sono le seguenti:

Conto CARIPARMA
Codice IBAN: IT35 NO62 3010 4300 0004 6539887
Causale: Aiuti urgenti per le famiglie di Cizre

DAMMI IL CINQUE! Il 5 per mille che raccoglieremo quest’anno sarà interamente destinato alle vittime della città di CIZRE. Per aderire, in occasione della compilazione della dichiarazione dei redditi, scrivi il nostro codice fiscale nella casella del volontariato: 96036900064

 

Per info: Antonio (335/7564743) Lucia (3335627137)

Il sindaco israeliano che non vuole arabi nelle sue piscine non è un estremista – E’ nel mainstream

L’episodio razzista riportato dall’affermazione di Moti Dotan è alimentato da una leadership che ha fatto dell’esclusione e dell’isolamento dei cittadini arabi di questo paese la spina dorsale del patriottismo israeliano.

Haaretz editoriale 31 luglio 2016

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Lower Galilee Regional Council head Motti Dotan

Nel dire “Io non odio gli arabi, ma  non li voglio nelle mie piscine,” Moti Dotan, capo del Consiglio della Bassa Galilea,   esprime l’essenza di quella forma radicata di razzismo – il genere  non mascherato come qualcos’altro o  offuscato dal   political correctness.
Giovedì, durante una sua intervista con una stazione radio israeliana, Dotan non ha invocato l’espulsione per gli arabi  dal paese o l’incendio delle loro moschee del villaggio. Non è un membro di La Familia, gruppo di tifosi di calcio del Beitar Gerusalemme, e non gridava “Morte agli arabi!”.

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Lettera di Bilal Kayed dal carcere al 48 ° giorno di sciopero: “Le vostre lotte mi danno più determinazione per la vittoria”

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Il prigioniero palestinese Bilal Kayed, nel suo giorno 48 ° di sciopero della fame, oggi, dall’interno del  Barzilai Hospital dov’è ammanettato mano e piede al suo letto, ha scritto la  lettera  che segue. Kayed ha 34 anni e ha iniziato lo sciopero della fame il 15 giugno.

Il suo rilascio era stato previsto il 13 giugno, dopo aver scontato una condanna di 14 anni e sei mesi nelle prigioni israeliane. Invece di essere rilasciato come da programma, tuttavia, gli sono stati inflitti altri sei mesi di detenzione amministrativa senza accusa né processo rinnovabile  a tempo indeterminato.

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