PERCORSI CULTURALI
Restiamo umani?
[Sorella K]
Scendono e risalgono la penisola, Elena (Nina) Ferretti e Luca Privitera, portando in scena il repertorio di Ultimo Teatro Produzioni Incivili. A febbraio si trovano in Calabria, con una data in cui si fermano a Cotronei, domenica 28. Tra vento, pioggia e nubi iraconde, salgono sulla pedana di una sala gremita per buona parte da poltrone rosse, per parlarci del conflitto tra Israele e il popolo palestinese. Restii a qualsiasi forma di catalogazione, definiscono i loro spettacoli “campagne di sensibilizzazione popolare”, in cui viene dato respiro e fiato, sangue, carne e cuore agli ultimi, i dimenticati, gli esclusi, relegati in una condizione che e frutto e prodotto incivile della nostra società. Ed ecco Restiamo umani, il dramma a cui assistiamo storditi. Intendono parlarci di ≪un genocidio contemporaneo ed inimmaginabile≫. Le sedie su cui si poggiano accolgono le kefiah, simbolo della resistenza palestinese, mentre alle loro spalle scorrono le immagini che accompagnano la narrazione verbale.
Luca ha in mano un tamburo siciliano, accanto una fisarmonica e una zumbettana; Nina attende di elevare lo sguardo e dare voce alla lacerazione di quegli ultimi che coccola in grembo. Insieme lanciano schegge di vita e di morte, accompagnate da suoni, immagini, movimenti e voci che si ricompongono in un unico messaggio di denuncia, ma anche di speranza.
Si sono ispirati principalmente ai testi di Vittorio Arrigoni – attivista, giornalista e scrittore ucciso a Gaza nel 2011 – e del poeta palestinese Mahmoud Darwish. Ci tengono a precisare che non sono antisemiti poiché ≪essere semiti significa appartenere al ceppo linguistico dell’aramaico, quindi anche i palestinesi sono semiti, cosi come lo erano i Fenici, e probabilmente Israele è il più grande antisemita al mondo perché cancella un altro popolo semita e perché cancella la propria storia, la storia di un popolo che ha vissuto l’Eterna Diaspora, il Pogrom zarista, i Campi di Sterminio Nazista e sta facendo in un certo modo quello che ha subito nella storia ad un altro popolo≫.
Luca “cunta” la giornata usuale di molti palestinesi che lavorano in Israele. Inizia di fronte al limes di un checkpoint: ≪centinaia di lavoratori palestinesi si svegliano all’alba e fan la fila per andare a costruire ponti e strade che non useranno mai. Li attende un lavoro, ma anche tanta umiliazione perché non c’è dignità dove i diritti sono negati≫. Descrive la cosiddetta “barriera di separazione” costruita da Israele in Cisgiordania. Un muro alto 8 metri, lungo circa 700 chilometri eretto con lo scopo di impedire la libera circolazione dei palestinesi: ≪immaginate, voi un giorno vi alzate, andate a lavorare nelle fabbriche, per le strade, nei cantieri, negli orti, nei campi, nelle grandi aziende agricole, e voi non avrete mai il diritto di utilizzare quelle strade, o quei ponti, o i prodotti di quelle aziende, a meno che qualcuno non decida che quei prodotti sono un primo vostro fabbisogno. E solitamente chi decide in Terra Santa è il governo israeliano, i coloni impazziti, e anche l’élite palestinese, la classe dirigente palestinese, che suole continuamente lottare contro il proprio popolo, ogni giorno, sotto gli occhi di tutti≫.
Ci spiegano che i checkpoint sono diventati terminal, strumenti attraverso cui lo Stato di Israele umilia i palestinesi, simbolo della ≪sconfitta dell’umanità che si distingue dagli animali solo per la sua capacita di fare del male senza la scusante dell’istinto o della fame≫. Come ≪polli in gabbia≫ tra due reti metalliche, sono costretti alle prime luci dell’alba a mettersi in fila: uomini, giovani, anziani ≪appoggiati al bastone, lo sguardo ormai perso nel vuoto≫. A differenza loro, le donne vengono fatte passare per prime, ≪una galanteria sottintesa che non ha bisogno di alcuna spiegazione, specialmente se tra queste donne ci sono ragazzine di sedici, diciassette anni che ogni giorno devono attraversare checkpoint per andare a scuola≫, subendo ogni giorno le beffe dei soldati israeliani che si prendono gioco del loro aspetto fisico, del modo in cui si vestono, della loro sessualità: ≪a quell’età non hai la maturità, non hai la forza per rispondere, non solo a un uomo, a un soldato che ti punta un’arma contro e che ti dice cose cosi, buttate li, per farti del male, perché a volte le parole sono come dei proiettili, sparati addosso, dritti al cuore≫. All’apertura del checkpoint devono passare prima dal metal detector, poi passeranno davanti a un gabbiotto di cemento dentro il quale un militare armato controllerà ≪la loro carta d’identità verde≫, poi si dirigeranno verso l’ingresso del terminal, dove li attende una nuova fila, dopo la quale dovranno restare solo con maglia e pantaloni. All’uscita potranno rivestirsi e ricominciarne un’altra, per un’ulteriore verifica dei documenti. Poi tutti a correre verso i minibus arabi e via verso Gerusalemme; chi dovrà raggiungere altri luoghi, come Tel Aviv o Ramallah, sarà costretto a passare da altre ≪code e checkpoint, code e checkpoint, code e checkpoint≫. Quattrocento checkpoint per ogni esigenza! Dentro quelle file ci sono anche persone che muoiono dentro le ambulanze, che non possono portare assistenza o medicinali ai genitori anziani, oppure che rischiano di perdere il lavoro, perché l’apertura e rimandata. Di chi è la colpa? ≪Non è colpa mia, è un ordine del mio superiore≫ risponde un soldato. Un modo come un altro per demandare ad altri responsabilità cui anche noi siamo chiamati a riflettere e rispondere. Pensiamo che tutto questo sia umano?
Luca e Nina descrivono la tortura a cui quotidianamente sono sottoposti donne, uomini, bambini, anziani che vedono demolire le loro case, sottrarre le loro terre, attraversare le notti dal turpe suono di spari, reprimere la semplice libertà di movimento minacciata a morte e umiliata, ingabbiata tra checkpoint e muri della vergogna. I bambini di Gaza vengono dolorosamente celebrati come “mocciosi da record”, cosi come li definì Arrigoni, sui quali scrisse ≪coperti di sangue hanno strisciato sotto le rovine di palazzi bombardati e si sono presi cura per giorni dei fratelli più piccoli, dei corpi agonizzanti dei genitori seppelliti sotto le macerie delle loro culle. Come eroi disneyani sono sgusciati fuori dal ventre della morte ancora inzaccherati dal liquido amniotico per scoprire il peso dell’ereditare la condizione di esule palestinese≫. Nello stesso articolo per Peacereporter, Arrigoni descrisse la condizione abominevole in cui versano i bambini di Gaza, privi di spazi ricreativi, circondati da ≪missili, devastazione e morte≫. Sopravvivere e già un record, oltre ai due segnati in soli sette giorni nel luglio del 2010, simbolo di resistenza e pace. ≪Noi normalmente leggiamo sui nostri quotidiani “morti quindici bambini palestinesi, quattordici, tredici, undici […] uno”. Ma le morti cosa sono diventate ormai? – si e ci chiede Nina – Numeri. Ma le morti prima di essere morti erano vita. Questi bambini avevano una mamma, un papà, un nome, un cognome, proprio come i nostri bambini. E proprio come i nostri bambini gli piace essere dei bambini, gli piace giocare≫. Ed ecco simulare il gesto di 7.200 bambini che fanno rimbalzare per 5 minuti altrettanti palloni da basket e altri più di 7 mila mentre fanno volare in cielo gli aquiloni realizzati con le loro stesse mani.
Pensiamo che tutto questo sia umano?
Le domande si accavallano. Come può un popolo che ha vissuto la Shoah impartire ad un altro popolo simili umiliazioni? Come può dimenticare ciò che ogni anno viene celebrato come il giorno della memoria? Ce lo racconta Nina, attraverso la storia della sua stessa famiglia di origine che, emigrata in Italia, ha vissuto in quanto ebraica la deportazione nei campi di concentramento tedeschi. Nina proprio perché ebrea vive su di sé una doppia lacerazione, quella che deriva dallo sterminio del popolo ebraico inferto dal nazifascismo e quella che scaturisce dal genocidio del popolo palestinese perpetrato dal progetto sionista. Una duplice condizione di cui sono portavoce tanti esponenti delle comunità ebraiche, come Ilan Pappe, Miryam Marino, Moni Ovadia, Gideon Levy e non ultimo Primo Levi, del quale viene citata una frase non troppo rimembrata: ≪Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti e di averci fatto diventare come loro≫.
Gli interessi internazionali per fare affari con Israele sono tanti ed evidenti. E in questo folle progetto siamo tutti coinvolti, nessuno escluso. Il piccoletto stato italiano ≪ripudia la guerra, pero in Puglia si costruiscono i droni da addestramento da dare agli israeliani. Oppure la Finmeccanica che […] costruisce le navi per Israele≫. ≪Poi andiamo a Gaza e ci troviamo le orecchiette. E dici “ma che ci fanno le orecchiette a Gaza?” […] Si, perché la Puglia e uno dei grandi porti dove i prodotti israeliani attraccano in Europa e dove i prodotti europei se ne vanno in Terra Santa≫. Cosi come avviene sulle nostre tavole, con i pomodori di Pachino, o in ambiente sanitario, con la Teva, azienda leader dell’industria farmaceutica israeliana, ≪che ci fa passare il mal di testa, ci fa passare il mal di stomaco, però non ci fa passare il male della coscienza≫. Siamo tutti coinvolti perché contribuiamo ad alimentare questo giro di affari e di morte. Come l’impresa Pizzarotti & Co. Spa impegnata nella costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Tel Aviv-Gerusalemme. E la denuncia continua, cade sull’Università Roma Tre che nel febbraio 2015 ha revocato l’invito a Ilan Pappe in occasione del convegno “Europa e Medio Oriente. Oltre gli identitarismi”.
Un lampo di speranza c’è, e risiede nella resistenza di questa popolazione, emblematicamente rappresentata dai ragazzi del Gaza Parkour Team, il primo gruppo palestinese e del mondo arabo che pratica il parkour in Palestina. Nina e Luca ci mostrano delle immagini registrate nel 2010 mentre fanno parkour con i bombardamenti alle spalle. Un modo per resistere e per difendere la loro cultura, perché ti rubano e annientano anche le tradizioni, che vengono inglobate, digerite, ed infine lucidamente eliminate. I ragazzi praticano una disciplina che prevede volteggi, acrobazie, salti, arrampicate in un ambiente urbano difficile da vivere a causa dei bombardamenti e delle macerie sui cui hanno imparato a volteggiare, come gli aquiloni degli oltre 7 mila bambini: un simbolo di libertà, oltre in confini di Gaza, in nome del popolo palestinese. Sarebbe bello ospitarli qui da noi e sarebbe ancora più bello che tutti riflettessimo sul dovere umano, culturale, educativo di ricordare e sostenere il popolo palestinese, sottratto alla memoria ufficiale che memoria non è.
Intanto ricominciamo daccapo. Per non dimenticare, pensiamo che tutto questo sia umano?