10 anni fa, condannato all’ergastolo da Israele, il palestinese Ahed Abu Gholmi aveva proposto a sua moglie Wafa di divorziare per sentirsi libera. Ma lei ha rifiutato: “Mi piace Ahed e sono sempre legata a lui”.
Dal 2006, questa palestinese, ha riferito AFP, si occupa solo della cura dei loro figli, un maschio e una femmina, come fa anche Khalida Musleh, che cresce il figlio da sola da quando suo marito Mohammed è stato condannato a nove ergastoli per gli attacchi mortali contro Israele.
Secondo il Club dei prigionieri palestinesi oltre 7.000 palestinesi sono nelle carceri israeliane, 600 stanno scontando ergastoli.
E in questa società dove i prigionieri sono considerati eroi della causa palestinese contro l’occupazione israeliana, si parla poco delle loro mogli.
Questo spiega perché le organizzazioni di difesa dei prigionieri non dispongono di informazioni su di loro o sul numero di divorzi. Per le donne che scelgono il divorzio, preferiscono non parlare, di fronte a una tale tabù.
Khalida Musleh è categorica; essere la moglie di un detenuto è un orgoglio che non abbandonerebbe per nulla al mondo. Il giorno in cui il giudice pronunciò la condanna di Israele contro il marito, “ho lanciato un youyous” [ndt.grido acuto e modulato] ricorda la trentanovenne palestinese.
Eppure, da quel giorno, nel 2002, lei non ha più visto il marito, che sposò un anno e mezzo prima, né ha potuto parlare con lui per dodici anni.
Indomite
“In tutti questi anni non sono mai stata pentita. Al contrario, sono stata orgogliosa di essere la moglie di un combattente, anche se ciò significava privazione di molte cose e dolore per il mio cuore”, racconta la donna il cui figlio Ahmed aveva solo quattro mesi quando suo padre è stato imprigionato.
Dopo una lunga battaglia legale, ha finalmente ottenuto il permesso di visitare il marito. Da allora lei gli può parlare col telefono attraverso il vetro antiproiettile. Dopo 15 anni di separazione, è ancora viva “la speranza indistruttibile” di vederlo rilasciato in uno scambio di prigionieri. Per Lei rappresenta un punto di onore prendersi cura della casa di famiglia che ha dovuto ricostruire insieme ai parenti del marito dopo che gli israeliani l’avevano distrutta per rappresaglia agli attacchi da parte di suo marito.
Da quando il marito è stato imprigionato, lei dedica la sua vita a due cose: il suo lavoro in una società di telecomunicazioni e a suo figlio, perché, “ogni volta che lo guardo, penso che manca un padre al suo fianco. “Improvvisamente, ha detto, “Sono una madre, un padre, un fratello e una sorella per mio figlio”.
E’ per non far vivere questa situazione a sua moglie Wafa e ai loro bambini Qaïss e Rita che Ahed Abu Gholmi, condannato all’ergastolo per il suo coinvolgimento nell’omicidio del ministro israeliano del turismo Rehavam Zeevi nel 2001, aveva proposto a sua moglie il divorzio.
I bambini al di là del muro
Wafa ha rifiutato la proposta del marito, ma lei sostiene di sapere che “molte donne hanno divorziato quando il marito è stato condannato al carcere a vita.”
“Alcune lo hanno fatto perché sono stati i loro mariti a volerlo, altre lo hanno chiesto”, ha detto.
Più trasgressivo, tra le donne dei prigionieri condannati a vita, è quando si parla di coloro che hanno deciso di avere bambini con i loro mariti, al di là delle mura del carcere.
L’inseminazione con sperma uscito dal carcere con modalità spesso rocambolesche e misteriose hanno permesso la nascita di diversi bambini.
Il metodo è dibattuto tra i palestinesi. Secondo il Club dei prigionieri, 35 bambini sono nati dopo più di 60 trasferimenti di seme.
trad. Invictapalestina
Fonte: http://assawra.blogspot.fr/2016/02/assawra-souscription-2016-du-1er.html