di Federico Zappino
Alcuni diritti, fino a ieri negati, sono oggi riconosciuti anche alle coppie gay e lesbiche. Quale che sia la nostra posizione circa quei diritti, è importante sapere che ora sono lì, ed è anche importante riconoscere che nessuno può sapere con certezza, oggi, se la vita ci metterà nelle condizioni di usarli. Ma sono lì. Alcune coppie si butteranno tra le loro braccia con totale devozione, con lo stesso slancio con cui ci si abbandona a un amore corrisposto dopo una lunga lotta per il riconoscimento. Altre ne faranno invece un uso strumentale, parodico e critico. Ma è in ogni caso importante ricordare che tante sorelle e compagne li attendevano da molto tempo, questi diritti. Ed è anche importante ricordare che tante altre, innumerevoli altre, si sono già misurate con la loro assenza, decenni fa, mesi fa, l’altro ieri, ieri mattina, sperimentando in prima persona quali fossero le conseguenze materiali della propria inesistenza, sul piano formale, in quei casi in cui si trattava di decidere del corpo muto della propria compagna, o di mettere al riparo la casa comprata o costruita insieme dalle mire, tutt’altro che infrequenti, di parenti decisamente non disposti a colmare con l’amore le lacune del diritto, ma anzi a doppiarle con l’odio. A loro va il mio pensiero. E a chi dice, per minimizzare, che questa fosse in realtà una situazione che accomunava le coppie gay e lesbiche a quelle etero non coniugate, va semplicemente ricordato che la vulnerabilità delle coppie etero non coniugate, solitamente, non dipendeva dall’omofobia. E non è una differenza da poco.
Com’è stato detto da più parti, si tratta di un riconoscimento parziale. Non c’è equiparazione – sotto molti punti di vista – tra le coppie eterosessuali che contraggono matrimonio e quelle omosessuali che contraggono l’unione civile.
Tuttavia, le coppie gay e lesbiche che stipulano l’unione civile, così come disciplinata dal ddl Cirinnà, acquisiscono: il diritto alla reversibilità della pensione; il diritto all’eredità e alla legittima; il diritto di subentro nei contratti; l’accesso, in quanto coppia, alle graduatorie per le case popolari; il diritto del più debole al mantenimento e agli alimenti in caso di separazione; il diritto di decidere della salute dell’altro o dell’altra in caso di incapacità; il dovere di assistenza reciproca, morale e materiale. È del tutto possibile che tali acquisizioni, per alcuni e alcune, costituiscano addirittura un “regresso”, come lo ha definito Michela Murgia, ma va anche ricordato che ciascuno ha un po’ il “progresso” che si merita. Una legge di questo tipo sarebbe stata antiquata già dieci anni fa, questo è chiaro, quando paesi altrettanto cattolici (e forse, chissà, proprio “perché” cattolici…) universalizzavano il matrimonio sostituendo “un uomo e una donna” con “due persone” direttamente nel codice civile e lasciando tutto il resto tale e quale, ma deve anche essere chiaro che diritti basilari e materialmente rilevanti come quello alla reversibilità, all’inserimento in graduatoria per le case popolari o alla voce in capitolo nel caso di gravi questioni di salute, di vita o di morte, altrove erano già doverosamente riconosciuti vent’anni fa. Credo pertanto che vi siano molte coppie ad avere alcuni buoni motivi per salutare con favore questo “regresso”, e immagino a quelle che più possono trarre giovamento materiale, ancora prima che simbolico, dal riconoscimento di questi diritti – che non sono solo civili, e dunque non attengono alla mera libertà dell’individuo, ma sono innanzitutto sociali, e posano dunque una prima pietra sulla strada dell’eguaglianza sostanziale.
Dopodiché, ciò significa che questa eguaglianza ancora non c’è, come si diceva. Non solo: c’è la creazione di un istituto giuridico ad hoc che riconferma, difende e riproduce forzosamente – caso mai fosse necessario – l’egemonia della soggettivazione e della relazione eterosessuale, e che scredita i legami omo-lesbo-trans*-affettivi e sessuali. Il mancato riconoscimento del diritto all’adozione del figliastro da parte del genitore non biologico (stepchild adoption) ne è un indicatore eloquente, e la mossa – da parte della destra – di eliminare dal novero dei doveri tra i/le contraenti omosessuali quello alla “fedeltà” si rivelerà forse più dannoso, nella strada di questo riconoscimento, di quanto tanta retorica abbia mancato di mettere a fuoco. Sfruttare l’invidia del maggior grado di libertà affettiva e sessuale tra persone gay, trans*, lesbiche, frocie, queer o libere da ogni categoria poliziesca (a cui non solo le destre sono invece affezionate), trasformandolo nella negazione di un dovere giuridicamente rilevante per sancire l’inequiparabilità tra la coppia etero- e quella omo-, significa – come ha fatto notare in una comunicazione privata Maria Rosaria Marella –, stabilire una differenza dirimente tra il matrimonio e l’unione civile. Tale differenza potrebbe rendere difficile, a una qualunque corte nazionale o europea, sentenziare che in caso di adozione non sarebbe possibile un trattamento deteriore della coppia omo- rispetto a quella etero-, dal momento che la disciplina giuridica alla base dell’istituto sarebbe stata esattamente la stessa. La mossa da parte della destra, in altre parole, potrebbe impedire al ddl Cirinnà (o meglio, alla sua versione approvata al Senato) di aprire al matrimonio egualitario per via giudiziale.
Non ci si poteva attendere l’eguaglianza, d’altronde, dalle forze politiche che hanno trovato l’accordo sul maxiemendamento decisivo – e che per tutto l’iter legislativo hanno dibattuto, in aula, ricordandoci non solo quanto sia radicato il terrore anale (rimando al Preciado lettore di Hocquenghem), ma quanto esso, a dispetto della crisi della rappresentanza, sia ben rappresentato in parlamento, in modo trasversale agli schieramenti. Le battute e, talvolta, le articolate argomentazioni omo-lesbo-trans*-fobiche che hanno scandito il dibattito politico mi fanno venire in mente le parole con cui Alessandro Zijno apriva il suo articolo Penetrabile è meglio! (2008), e che dobbiamo tenere come monito:
Sostenere che non esistano discriminazioni è il modo più banale di manifestare il proprio razzismo. Ogni serena analisi della nostra società dovrebbe sempre tenere presente la banale constatazione che questo non è il paese delle pari opportunità realizzate. Eppure l’atteggiamento di negare che esistano discriminazioni si sta diffondendo in maniera virale nell’immaginario collettivo. Da sempre più parti si sente il bisogno di manifestare l’idea che tante conquiste sono state ormai realizzate, che in fondo è meglio qui che da tante altre parti (come se la considerazione che c’è qualcuno che sta peggio di noi possa essere confortante). Questo atteggiamento può sorprendere per i motivi più diversi, e sicuramente dovrebbe sorprendere per il fatto di essere trasversale a tutti i settori del tessuto politico e sociale. Ma quello che spesso si evita di notare è che queste posizioni sono di fatto funzionali a, e in quanto tali prodotte da, un molesto clima di normalizzazione.
D’altro canto, non dovrebbe nemmeno uscire dal quadro dell’analisi il fatto che il governo più neoliberista che abbiamo mai avuto sia riuscito a concedere un pugno di diritti per la prima volta nella storia repubblicana. Non sarebbe insensato leggere questa concessione come un’autentica strategia di pinkwashing che ha avuto gioco fin troppo facile nella strumentalizzazione di una fetta non irrilevante della popolazione che fino a ieri era giuridicamente inesistente e che dunque oggi può anche accontentarsi di poco. «Ha vinto l’amore», è stato d’altronde il commento del Presidente del Consiglio; «mi tremava la mano: questa non è una legge come le altre», ha chiosato la ministra per le Riforme.
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Tra i diritti concessi, in effetti, c’è anche quello di assumere il cognome del partner (che forse ha attirato la mia attenzione, nell’elenco, per la fantasia, passeggera, e del tutto eteronormata, di assumere il cognome più bello del mondo). Ma ciò su cui mi preme tuttavia insistere è il fatto che le coppie gay e lesbiche che desideravano essere riconosciute dallo Stato, che desideravano sentirsi parte di tutto un immaginario e un orizzonte di senso, da oggi possono ambire alla “possibilità”. Con il ddl Cirinnà le coppie omosessuali non sono uguali alle coppie eterosessuali, hanno meno diritti, e dunque da oggi – e solo da oggi, paradossalmente – diventano “oppresse” giuridicamente. E dunque continueranno a lottare e a rivendicare l’eguaglianza, come già stanno facendo. Ma proprio per questo costituiranno l’alterità ben visibile del modello di coppia privilegiato e normativo. Non sarà più possibile prescindere da loro, e dalle loro ragioni. Non sono più inesistenti, per lo stato e per la società: al contrario, sono soggetti potenziali, soggetti che possono ambire al pieno riconoscimento e alla piena equiparazione. Sono giuridicamente leggibili, e intelligibili.
A diventare, oggi, più radicalmente illeggibili e inintelligibili, come il rovescio di un ricamo, sono quelle ragioni che fino a ieri si confondevano in quelle periferie in cui coesistevano desideri di riconoscimento e desideri di sovversione, e di trasformazione. Da oggi sono forse più sole; ma ciò potrebbe essere tuttavia d’aiuto nella ricalibrazione e nella condivisione degli obiettivi politici.
Penso alle ragioni di chi, ogni giorno, prova a vivere e ad amare attraversando le linee e i confini del genere e dell’orientamento sessuale, perché crede che né il genere né l’orientamento sessuale siano strutture necessarie, né che essi esprimano delle verità insindacabili con le quali porre in atto forme di chiusura. Le ragioni di chi crede che non ci sia alcun motivo per cui l’amore debba avere un solo destinatario, né un solo destinatario dal genere sempre uguale, né alcun motivo per cui l’amore debba costituire un motivo di esclusione o sofferenza per qualcuno, e prova a dare spazio e tempo a queste idee, misurandosi pazientemente con l’invasività delle norme eterosessuali, monogamiche e proprietarie che governano l’affettività, la relazione e la sessualità – e lo spazio “pubblico” in cui tutto ciò accade. Le ragioni di chi sperimenta forme alternative di genitorialità e quelle di chi costruisce reti più ampie di parentela, basate sul desiderio, sul mutualismo, sulla condivisione di obiettivi politici. Le ragioni di chi continua a credere che non sarà il matrimonio egualitario a scalzare l’eterosessualità obbligatoria, o quelle di chi pone in evidenza i paradossi del riconoscimento della reversibilità della pensione in un orizzonte sociale ed economico collassato, in cui davvero in pochi percepiranno innanzitutto una pensione… E quelle di chi crede che le istanze di trasformazione dell’ordine simbolico e sociale eteronormativo non necessariamente debbano restare confinate in un altrove utopico, poiché esse già accadono, nelle penombre e negli interstizi. E richiedono l’elaborazione di condizioni – culturali e materiali – che rendano praticabile la resistenza alla neutralizzazione e all’assimilazione al fine di affermarsi come contro-egemoniche. Tutto ciò continua, da oggi in poi ancora di più, a essere risibile, inesistente, irriconoscibile, illeggibile. Impossibile. Queer.
fonte: http://effimera.org/il-diritto-lamore-e-i-fantasmi-di-federico-zappino/