Arabia Saudita condanna il poeta palestinese alla tortura, anziché alla morte

Ryan Rodrick Beiler, Rights and Accountability – 5 February 2016

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Un tribunale saudita ha stabilito questa settimana che, anziché  essere decapitato, il poeta palestinese Ashraf Fayadh  affronterà la fustigazione e otto anni di prigione come punizione per quello che  le autorità religiose considerano crimini contro l’Islam.

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Report: 100 donne palestinesi detenute da quando è iniziata l’Intifada

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6-2-2016 1:55 – The Palestinian Information Center

RAMALLAH, (PIC) – La commissione palestinese di detenuti ed ex-detenuti ha riferito che l’occupazione israeliana ha intensificato le sue violazioni contro le donne palestinesi durante l’intifada di al-Quds  e rapito circa 100 donne provenienti da tutte le aree. In una breve relazione  Sabato, la Commissione ha dichiarato che da quando l’intifada è iniziata lo scorso ottobre, le forze militari e di sicurezza israeliane hanno commesso gravi crimini e violazioni contro le donne palestinesi, soprattutto contro le ragazze adolescenti, che sono state esposte a maltrattamenti dopo averle colpite. L’alto funzionario della Commissione Abdul-Naser Farwaneh ha affermato che i detenuti di sesso femminile arrestati durante l’intifada sono stati fisicamente aggrediti, maltrattati e torturati durante e dopo la loro detenzione, mentre molti di loro soffrono le condizioni di incarcerazione dure nelle carceri di Hasharon e Damon, e altri carceri. Ci sono ancora circa 55 donne palestinesi nelle carceri israeliane, alcune di loro sono minorenni e ferite.

 

Fonte: http://english.palinfo.com/site/pages/details.aspx?itemid=76620#.VrX0dKykx7A.facebook

Che cosa spinge i funzionari della sicurezza palestinese a ribellarsi contro gli israeliani?

Di Edo Konrad- +972 Magazine 1 febbraio 2016

La situazione in Cisgiordania ha spinto alcuni palestinesi a perpetrare un’occupazione contro il loro stesso popolo.

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La polizia dell’Autorità Palestinese cerca di impedire ai giovani nel campo profughi di Aida di scontrarsi con le forze israeliane, Betlemme, West Bank, 27 settembre, 2013. (Ryan Rodrick Beiler / Activestills.org)

 

 

Domenica mattina il 34enne Amjed Sakari, membro dei servizi di sicurezza palestinesi, ha guidato la macchina fino ad un checkpoint israeliano riservato esclusivamente al personale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Alla richiesta di esibire il suo documento di identità, è saltato fuori dalla macchina ed ha aperto il fuoco, ferendo tre soldati israeliani. Come reazione, l’esercito israeliano ha posto Ramallah, la capitale politica e finanziaria della Cisgiordania, sotto assedio quasi totale.

 

Sakari, guardia del corpo del procuratore capo palestinese, è solo il secondo membro delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ad aver compiuto un attacco da quando, lo scorso ottobre, è scoppiata l’ultima ondata di violenze. Il primo è stato Mazan Hasan Ariva, un funzionario dell’intelligence dell’ANP, che ha aperto il fuoco contro un civile israeliano ed un soldato al checkpoint di Hizma, vicino a Ramallah, nel dicembre dell’anno scorso.

Come ha sottolineato Amos Harel (uno dei più importanti commentatori israeliani in materia di difesa, ndt), è troppo presto per dire se le azioni di Sakari e Ariva preannunciano ciò che sta per accadere, e per ora l’attuale momento politico dovrebbe concedere una pausa.

Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 fino al 1993, Israele ha costituito l’unico potere sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Gli Accordi di Oslo hanno prodotto una serie di accordi politici ed economici tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il più importante dei quali è stato la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – un’entità provvisoria di autogoverno insediata per gestire le questioni di sicurezza e civili in alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

L’ANP, mentre non è stata autorizzata ad avere un esercito, ha potuto creare le proprie forze di sicurezza, comprese polizia e servizi segreti. Queste forze agiscono in collaborazione con lo Shin Bet (servizi di sicurezza israeliani, ndt.) e con l’esercito israeliano per sventare attacchi contro civili e militari israeliani, ed anche per impedire rivolte contro l’ANP nelle aree A e B.

Sulla carta, Oslo ha delineato un processo di anni per garantire un’autonomia graduale ai palestinesi nei territori occupati. In realtà, i successivi governi israeliani hanno usato l’ANP per affidare i compiti di sicurezza dell’esercito israeliano alla nascente polizia palestinese, addestrata dagli americani.

Intanto, la colonizzazione israeliana ha continuato ad erodere la già minacciata contiguità territoriale in Cisgiordania. Oggi si contano più di mezzo milione di coloni israeliani oltre la Linea Verde (linea di demarcazione stabilita con l’armistizio del 1949 tra Israele e i paesi arabi, ndt.), appoggiati da uno dei governi maggiormente favorevoli alle colonie della storia di Israele.

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La polizia dell’Autorità palestnese (destra) collabora con la polizia israeliana di frontiera (sinistra) nel controllo dell’accesso dei palestinesi a Gerusalemme al checkpoint di Betlemme nell’ultimo venerdì di Ramadan, 17 agosto 2012 (foto: Ryan Rodrick Beiler/Activestills.org)

I palestinesi della Cisgiordania hanno incominciato a provare rancore verso il proprio governo tanto quanto verso il potere israeliano. Secondo un sondaggio pubblicato a dicembre dal Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca, due terzi dei palestinesi chiedono che il presidente Mahmoud Abbas si dimetta. Inoltre, il sondaggio rivela che se si tenessero oggi le elezioni presidenziali, un candidato di Hamas, la fazione avversa, otterrebbe una netta vittoria su Abbas.

L’attuale compromesso è utile sia al governo israeliano che alle elite palestinesi a Ramallah: Abbas può utilizzare le sue forze di sicurezza per reprimere la violenza e il dissenso, da parte di singoli individui e di Hamas. Per Israele, Abbas è un capro espiatorio – colui che può essere biasimato per le mosse unilaterali per ottenere il riconoscimento internazionale o ogni volta che la violenza esplode in Cisgiordania. Nonostante ciò che Netanyahu possa far credere, comunque il governo di Abbas è la chiave del futuro dell’occupazione israeliana.

Allora che cosa fanno quei palestinesi che sono inseriti nell’apparato di sicurezza quando si rendono conto che la partita è truccata – che loro stessi stanno svolgendo il compito dei soldati occupanti contro il proprio popolo? Che cosa fanno quando capiscono che, di fatto, non c’è via d’uscita?

Un’occhiata alla pagina Facebook di Sakari getta una luce sul suo dilemma. Nelle prime ore di domenica mattina, Sakari ha pubblicato su Facebook una sua dichiarazione in cui afferma che non ha senso vivere “finché l’occupazione opprime le nostre anime ed uccide i nostri fratelli e sorelle.” La notte precedente, Sakari ha pubblicato un’affermazione, secondo cui “Ogni giorno abbiamo notizie di morti….Perdonatemi, forse io sarò il prossimo.”

Gli israeliani sono giustamente spaventati dalla prospettiva di ulteriori attacchi proprio da parte delle persone impegnate a proteggerli. Il collasso dell’ANP non è impossibile; un crescente numero di membri del servizio di sicurezza palestinese che si rivoltano contro i loro padroni israeliani, sostenuti da un’indomabile popolazione civile ormai sull’orlo di un’autentica rivolta popolare, potrebbe mettere fine al “coordinamento sulla sicurezza” su cui si basa Israele per mantenere lo status quo. Il problema è se la leadership israeliana possa offrire un progetto alternativo che garantisca reale potere ed autorità al popolo palestinese, non solo ai suoi subappaltatori.

 

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Edo Konrad è uno scrittore, blogger e traduttore, che vive a Tel Aviv. Ha precedentemente lavorato come redattore di Haaretz, ed è attualmente vicedirettore di +972 Magazine.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

fonte: http://972mag.com/what-makes-palestinian-security-officials-turn-on-israelis/116511/

Un finto New York Times per criticare l’informazione sul conflitto tra Israele e Palestina

Internazionale, 02 FEB 2016 23.30

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Foto aggiunta all’articolo da Invictapalestina  – Manifestazione a Roma gennaio 2009. Striscione finto per provocare la discussione sull’invasione di GAZA. Tentativo creativo con divise e armi per sperimentare un modo diverso di comunicare prendendo spunto dalle iniziative di Michael Moore con Yes Man.

Un gruppo di attivisti filopalestinesi ha distribuito in giro per New York migliaia di copie di una parodia del New York Times per criticare il modo in cui il quotidiano statunitense segue il conflitto tra Israele e Palestina. Le copie del finto New York Times sono quasi identiche all’originale, per caratteri e impaginazione.

Il testo dell’editoriale fortemente autocritico, intitolato “Ripensare la nostra copertura del 2015 del conflitto israelo-palestinese”, è stato pubblicato anche onlinee tra l’altro dice:

Tra il settembre e l’ottobre del 2015, diciotto titoli del New York Times hanno descritto i palestinesi come istigatori di violenza, mentre in nessun titolo gli israeliani sono stati descritti come tali. Negli articoli si è parlato di violenza palestinese 36 volte e della violenza di Israele solo due volte. Per 42 volte è stata usata la parola ‘terrorista’ per descrivere i palestinesi, ma solo una volta per descrivere un israeliano. E poi: nell’ultimo anno e mezzo un numero sproporzionato di notizie era concentrato sulle dichiarazioni del governo e dei cittadini israeliani, mentre solo una piccola frazione ha ascoltato le voci di palestinesi. Le vittime israeliane erano chiamate per nome molto più spesso di quelle palestinesi.

Nel dare la notizia del finto New York Times, il quotidiano israeliano Jerusalem Post ha cercato di identificare gli autori della parodia, senza riuscirci, ma ha saputo che si tratta di militanti del movimento Boycott, Divestment and Sanctions.

Anche il sito di Internazionale, come altri giornali in giro per il mondo, inizialmente ha pubblicato la notizia dell’autocritica del New York Times credendo fosse vera.

Uno degli autori della parodia, raggiunto dal Jerusalem Post, ha detto che “il New York Times, una delle principali fonti di notizie negli Stati Uniti e nel mondo, ha il dovere nei confronti dei suoi lettori di fornire un’informazione equa, equilibrata e basata sui fatti”.

Il modo in cui il New York Times segue il Medio Oriente e il conflitto tra Israele e Palestina è da tempo al centro di polemiche. Proprio di recente il quotidiano statunitense ha pubblicato una rettifica riconoscendo che un articolo sull’espulsione di palestinesi dalle loro abitazioni a Gerusalemme Est forniva “in diversi casi una descrizione incompleta delle dispute legali”.

“Il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione”

Torino, 2 febbraio 2016 – LETTERA DAGLI STUDENTI AGLI ACCADEMICI DELL’UNIVERSITA E DEL POLITECNICO DI TORINO

libertà accademica
“Le contestazioni vanno ascoltate. Israele non può continuare con politiche di emarginazione. I ricercatori non possono stare fuori dal mondo, devono avere delle opinioni […]”. Queste le parole del Vicerettore per la ricerca scientifica Silvio Aime il 15 ottobre 2015 su La Stampa, a commento delle contestazioni che noi – un gruppo di studentesse e di studenti dell’Università e del Politecnico di Torino – abbiamo attuato in occasione dell’incontro fra Politecnico, Università di Torino e l’Israel Institute of Technology di Haifa. 

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