L’ultimo attacco israeliano a Gaza ha lasciato almeno 2.000 palestinesi uccisi e 17.000 case distrutte, rendendo oltre 110.000 persone senza casa e trasformato gran parte della striscia di macerie. A seguito di palesi violazioni israeliane del diritto internazionale umanitario, la crisi umanitaria già esistente nella Striscia di Gaza assediata è stata ulteriormente peggiorata.
Geraldina Colotti ROMA Il Manifesto, edizione del 02.02.2016
Intervista. André Vltchek, sodale di Chomsky, al convegno dei 5Stelle
«Gli Stati uniti con la Nato hanno destabilizzato e saccheggiato il sud del mondo, ma l’Europa è la madre matrigna degli Usa ed è responsabile del colonialismo da oltre 500 anni». Così dice al manifesto l’intellettuale statunitense André Vltchek, e non fa sconti a nessuno. Reporter di guerra e collaboratore di Noam Chomsky, con il quale ha scritto il volume sul Terrorismo occidentale, Vltchek è stato invitato dal Movimento 5Stelle al convegno “Se non fosse Nato”, dove lo abbiamo incontrato. Durante il suo intervento, ha raccontato la sua esperienza nei campi profughi del Libano: «Un piccolo paese al collasso che, nonostante non abbia aggredito nessuno – ha detto – ha accolto oltre un milione di persone, almeno quante ne ha respinte l’Europa dopo averne provocato la fuga con le sue politiche». Quella dei profughi è una situazione simile «a quella di una donna stuprata a cui hanno svaligiato la casa e ucciso il marito e che, per salvare i figli, è costretta a mendicare aiuto ai suoi stessi stupratori».
Con noi, Vltchek ha ripreso i temi del suo intervento, accusando l’Occidente che, dopo aver distrutto il Medioriente si «è seduto nel suo bunker dorato a consumare il bottino, cieco al dolore che ha provocato». Un dolore «su cui prosperano anche i cittadini delle nazioni ricche, gli agricoltori Usa o francesi protetti dalle misure dei loro stati, e persino chi può permettersi con la disoccupazione di farsi la vacanza in un paese povero del sud». In Medioriente – dice ancora — le politiche di guerra «hanno avuto come obiettivo quello di distruggere la possibilità del socialismo, calpestando regimi laici e pervertendo un islam per sua natura comunitario in una religione irriconoscibile e importata, che serve a sconvolgere il mondo. In Afghanistan, i moujahedin sono stati creati per liberarsi dell’Unione sovietica». Che fare? «Schierarsi. E usare tutti i registri comunicativi e tutte le forme artistiche per obbligare i cittadini dei paesi responsabili ad aprire gli occhi e a spezzare le catene neocoloniali rinunciando ai propri privilegi».
La speranza? «Arriva dalle nuove relazioni economiche avanzate dai Brics, che stanno relativizzando la potenza del dollaro con la formazione di un Fondo monetario alternativo. Arriva dal Vietnam o dalla potenza della Cina che – per Vltchek — è ancora un paese socialista, che persegue un suo modello e ora un nuovo corso, utilizzando il capitalismo ma senza cedere, come ha dichiarato il presidente Xi, sulle conquiste fondamentali e sul controllo da parte dello stato». Arriva, soprattutto «dall’America latina socialista e bolivariana, i cui popoli hanno capito la lezione e perciò renderanno senza effetto la firma degli accordi economici realizzati dagli Usa all’interno del Tpp. Per le borghesie occidentali e per le sinistre addormentate nei loro privilegi, l’America latina è un pericoloso esempio di internazionalismo basato su una solidarietà globale ugualitaria».
Se sentono lo scoppio di un tuono la notte, i figli di Mariam Aljamal bagnano il letto. Per loro è una reazione istintiva, la stessa di molti bambini che vivono nella Striscia di Gaza.
I tre figli di Mariam – Jamal, Lina e Sarah – sono nati tutti qualche anno dopo l’inzio dell’assedio di Gaza del 2006, e tutti e tre hanno vissuto almeno un anno di guerra israeliana.
“I miei bimbi hanno paura quando l’elettricità va via, il che capita molto spesso”, dice questa mamma di 33 anni che vive nel campo profughi di Nuseirat, ha una laurea in Comunicazione e sta seguendo un master. “Vivono ancora il trauma dell’offensiva del 2014. La guerra continua a perseguitare la mia famiglia e la vita è diventata davvero dura per noi”.
Adesso, dopo anni di tentativi, Mariam deve trovare lavoro. La disoccupazione a Gaza è la più alta la mondo, secondo la Banca Mondiale.
L’assedio a Gaza è stato imposto in diverse fasi, è iniziato nel gennaio 2006, quando Hamas vinse le elezioni legislative nei Territori occupati. Il denaro dei donatori fu subito negato, così il nuovo Governo non poté pagare gli stipendi ai propri impiegati. Si pensò che in questo modo il nuovo Governo sarebbe presto crollato e che il rivale di Hamas, Fatah, avrebbe rapidamente ripreso il controllo con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
La speranza israeliana, rinforzata dagli Usa e condivisa dal presidente dell’ANP, Mahmud Abbas, e da molti del suo partito, non si realizzò mai. Per accelerare il progettato crollo Israele cominciò a bombardare sporadicamente Gaza e attuò un’estesa campagna di arresti di molti suoi eletti in parlamento, abbinata a una disputa tra Fatah e Hamas, che alla fine si trasformò in scontri per le strade durante l’estate del 2007.
Fu allora che l’assedio divenne totale, al momento dura da dieci anni. In questo periodo, Fatah ha ripreso il controllo dell’ANP in Cisgiordania, la riconciliazione tra Hamas e Fatah è in larga parte fallita, il confine a Rafah è praticamente sigillato e Israele ha intrapreso tre guerre che hanno causato migliaia di morti.
La distruzione di Gaza, risultato di tre guerre consecutive (2008-2009, 2012 e 2014), è stata così grave che ha colpito quasi tutte le infrastrutture della Striscia, che già erano in rovina. I blackout, per esempio, son diventati quotidiani a Gaza. Se tutto va secondo i piani, qui i Palestinesi hanno solo 8-10 ore al giorno durante le quali possono utilizzare l’elettricità, per il resto del giorno sono condannati a patire l’oscurità. L’ONU ha già dichiarato che la situazione a Gaza sarà “inabitabile” entro il 2020.
Ci sono, però, aspetti di questo dramma, che non ricevono la dovuta attenzione, come il fatto che l’assedio sta ostacolando lo sviluppo umano per un’intera generazione.
Quando venne imposto l’assedio, Ahmad Ghazal aveva solo 13 anni. Ora ne ha 23 e lavora in una biblioteca locale, a Gaza City. “La vita qui non è piacevole, – dice. – Negli ultimi dieci anni la mia famiglia ha patito per la mancanza di cibo, di acqua potabile, di cure mediche appropriate e dei più elementari diritti umani. Ma quel che trovo più frustrante è il non potermi muovere liberamente. La chiusura dei confini a opera di israeliani ed egiziani ha portato la nostra vita a un punto morto. Mi sento in trappola”.
Maher Azzami ha 21 anni e anche lui si sente ingabbiato. Insegna inglese allo Smart International Centre for Languages and Development e vorrebbe diventare uno scrittore. Tuttavia considera la vita a Gaza come una morte lenta.
“Negli ultimi dieci anni il numero dei martiri nella Striscia ha oltrepassato i 4.000, ma quelle persone innocenti sono morte una volta sola, – dice. – Le persone che vivono ancora a Gaza muoiono ogni giorno durante questi dieci anni. Ma dobbiamo continuare a essere ottimisti e non disperare. Abbiamo imparato a essere creativi per sopravvivere, a esprimerci e ad andare avanti senza soccombere, nonostante i continui crimini israeliani e il silenzio della comunità internazionale”.
Anche Heba Zaher, 21 anni e una laurea all’Islamic University, comprende la centralità della speranza nella storia di Gaza. Dice: “Siamo sopravvissuti tutti questi anni senza perdere la speranza, di sicuro non possiamo perderla adesso. Dieci anni di stenti ci hanno insegnato a essere più forti, ad affrontare la vita e a sconfiggere l’assedio”.
Ma sconfiggere l’assedio non è impresa da poco, dato che “influisce su tutti gli aspetti della nostra vita, – a quel che dice Heba. – Molti studenti hanno perso l’opportunità di studiare all’estero. Molti pazienti sono morti, aspettando che venissero aperte le frontiere per poter ricevere le cure necessarie. Il senso di tutto è legato alle frontiere e la vita non è mai stata così cara”.
Le conseguenze dell’assedio sono talmente gravi che Anas Almassri, studente dell’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor di Deir al Balah, dice che anche quel poco che rimaneva della classe media a Gaza sta sparendo. “La casse media a Gaza continua a ridursi come risultato della diminuzione delle opportunità economiche, e ciò influisce in modo pesante sui redditi delle famiglie che non possono mandare i figli all’università e quindi non possono mantenere gli standard cui sono abituati”.
Per Ghada Abu Msabeh, 20 anni, anche lei studente a Deir al Balah, l’assedio è diventato così radicato nella psicologia collettiva degli abitanti di Gaza che sta diventando la nuova norma. “Siamo arrivati a un punto in cui l’assedio è parte della nostra vita quotidiana e della routine, – è la sua considerazione. – Onestamente non riesco a immaginare come sarebbe la vita se fossimo liberi di muoverci o se passasse un giorno intero senza blackout elettrici. È difficile ricordare come fosse la vita prima dell’assedio, davvero”.
Hana Salah, 25 anni, scrittrice e collaboratrice di Oxfam Italy, ha cercato un’opportunità fuori di Gaza, ma senza successo. “Non ho più provato, perché vedere i tentativi altrui fallire era già abbastanza deprimente per me, – dice. – Mi sento come se vivessimo in una gabbia senza aver alcuna idea di quel che accade fuori. Non so che cosa succederà, ma posso solo sperare e pregare che Dio abbia misericordia”.
Alcuni di quelli che son riusciti ad andare via per studiare fuori Gaza sono stati bloccati nella Striscia quando sono tornati a trovare amici e parenti. Rafaat Alareer, scrittore e docente a contratto, ha cominciato un PhD alla Universiti Purra Malaysia nel 2012, ma è rimasto confinato a Gaza dal 2014. È tornato in visita alla famiglia perché l’offensiva del 2014 aveva distrutto la loro casa e aveva ucciso suo fratello. “Ormai è trascorso un anno e mezzo, e non posso tornare in Malaysia a causa dell’assedio e della chiusura della frontiera a Rafah”, che è praticamente rimasta chiusa per un anno.
Stessa esperienza ha vissuto Belal Dabour, giovane medico del Shifa Hospital, cui non è stato consentito di lasciare Gaza per far tirocinio o partecipare a conferenze, che sperava potessero integrare le sue qualifiche accademiche. “Mi ero appena laureato, quando è scoppiata la guerra del 2014, – dice. – È stato molto traumatico. La mia esperienza di un mese all’Al-Shifa è stata maggiore di quella di altri medici in anni di pratica. Ma ora non ho un lavoro e come molti miei colleghi non ho fonti di reddito”.
Walla al-Ghussein, studente 23enne all’Al-Azhar University, conclude che, nonostante un maggior numero di persone ora riconosca l’esistenza di un crudele assedio intorno a Gaza, la vita degli abitanti della Striscia rimane la stessa. “Abbiamo bisogno di qualcosa di più di una semplice protesta: bisogna esercitare una pressione reale su Israele affinché smetta l’assedio. Centinaia di pazienti muoiono, gli studenti perdono l’opportunità di studiare all’estero e un intero popolo è in difficoltà”.
Con il contributo di Yusef Aljamal di Gaza.
Il dr. Ramzy Baroud scrive di Medio Oriente da vent’anni. Tiene rubriche per agenzie di stampa internazionali, è consulente mediatico, autore di molti libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Tra i suoi libri: “Searching Jenin”, “The Second Palestinian Intifada” e l’ultimo “My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story”. Il suo sito è: www.ramzybaroud.net.
Secondo una importante pubblicazione italiana sull’Espresso, più di 160 docenti universitari italiani si sono pronunciati a sostegno della campagna palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).
La petizione, come riferito, è il primo grande sforzo BDS da parte del mondo accademico italiano, dichiarando che è “una risposta alla nota e ben documentata complicità delle istituzioni accademiche israeliane con la violenza dello stato israeliano e la totale mancanza di gravi condanne da parte loro fin dalla fondazione dello Stato di Israele”.
La campagna BDS specificamente mirata a Technion, l’Istituto Israeliano di Tecnologia di Haifa, per il suo ruolo di primo piano nel complesso militare-industriale israeliano, e ha invitato le università italiane ad interrompere i forti legami con l’istituto.
Il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri Sabato ha accolto con favore l’evento, dicendo che la petizione “dimostra il crescente stato di isolamento che l’occupazione subisce a causa di suoi crimini.” Israele si sta sforzando per contrastare la crescente campagna di boicottaggio palestinese che all’estero ha avuto una serie di successi di alto profilo sia in ambito accademico che artistico.
Il movimento BDS si propone di esercitare una pressione politica ed economica sulla occupazione israeliana dei territori palestinesi nel tentativo di ripetere il successo della campagna che messo fine all’apartheid in Sud Africa.
Negli ultimi anni, circa 1.200 accademici in Spagna, 343 professori e docenti britannici e più di 200 docenti universitari sudafricani hanno pubblicamente dichiarato il sostegno al BDS.
Associazione no profit per il sostegno dei rifugiati palestinesi in Libano The National Institution of Social Care and Vocational Training (NISCVT) Bait Atfal Assumoud
Noi sosteniamo gli obiettivi della Mostra sulla Nakba e li con- sideriamo un mezzo convincente per creare nell‘opinione pubblica la consapevolezza del punto di vista palestinese sulle cause del con itto in Medio Oriente, largamente scono- sciuto in Italia. Se non si comprendono le legittime richieste di entrambe le parti, non può esserci pace.
Dal 1996, la nostra associazione sostiene progetti sociali, umanitari, ricreativi ed educativi nei campi profughi palestinesi del Libano, a vantaggio soprattutto di bambini, giovani e donne. Con il nostro lavoro vorremmo contribuire ad alleviare in loco il grande dramma dei rifugiati. Crediamo inoltre che sia nostra responsabilità promuovere la comprensione da parte dell’opinione pubblica tedesca delle preoccupazioni e delle legittime aspettative di queste persone, e della loro speranza in un futuro autodeterminato e giusto. Tuttavia la compren- sione richiede prima di tutto la conoscenza, in questo caso la conoscenza della Nakba, la catastrofe, come dal 1948 i palestinesi chiamano la loro fuga ed espulsione.
In Israele gli eventi del 1948, collegati con la proclamazione dello Stato di Israele, vennero salutati come una rinascita, dopo duemila anni di esilio e dopo secoli di persecuzioni. Per contro gli stessi eventi hanno trasformato la maggioranza dei palestinesi in una nazione di profughi, che si sono visti derubare della loro patria e dei loro beni, senza alcuna prospettiva di autodeterminazione nazionale, per non parlare di risarcimento o addirittura di ritorno.
Il senso di colpa cresciuto nella società tedesca a causa dei milioni di ebrei assassinati durante la dittatura nazi- sta fece sì che la maggioranza assoluta della società, della politica e dei media sposassero la visione israeliana di quel periodo. Questo ha impedito la visione della so erenza del popolo palestinese. Ancora oggi qualsiasi discussione sulla fuga e l’espulsione di queste persone, e in particolare le loro richieste di risarcimento e ritorno, è considerata da molti come la rottura di un tabù. Siamo però convinti che senza la conoscenza, e senza un ade- guato riconoscimento di questo aspetto della riconciliazione, la giustizia e la pace in Medio Oriente non avranno alcuna possibilità. Con la nostra mostra vogliamo contribuire a questo sforzo.
La mostra online in italiano è possibile visionarla sul sito di Invictapalestina:
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