Susan Sarandon critica il sostegno “incondizionato” della Clinton a Israele

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L’attrice Susan Sarandon parla ad una manifestazione davanti al Tribunale Distrettuale degli Stati Uniti in solidarietà con la Standing Rock Sioux Tribe nella loro causa contro il Corpo degli Ingegneri dell’Esercito, a Washington, DC, il 24 agosto. Riccardo Savi SIPA

Susan Sarandon ha appena dato il suo appoggio a Jill Stein del Green Party alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti di martedì prossimo.

L’attrice premio Oscar aveva sostenuto in precedenza Bernie Sanders, che ha perso le primarie democratiche contro Hillary Clinton.

Ma invece di passare nelle file della candidata democratica, la Sarandon ha messo in chiaro il motivo per cui lei non voterà per la Clinton.

In un post su Facebook che annuncia il suo appoggio a Stein, Susan Sarandon elenca le sue divergenze con la Clinton: il salario minimo, l’opposizione alla legalizzazione della marijuana e il suo sostegno per il facking e le trivellazioni offshore.

La Sarandon sostiene anche gli Standing Rock Sioux nella loro lotta per fermare un oleodotto che sta per essere posato sulla loro terra tribale nel Nord Dakota.

“La paura per Donald Trump non basta per farmi sostenere la Clinton con tutto il suo record di corruzione”, scrive Sarandon. “Ora che Trump sta per autodistruggersi, ho anche la sensazione che quelli degli swing state (n.d.t. Stato nel quale nessun candidato o partito ha un sostegno predominante) hanno la possibilità di votare secondo la loro coscienza.”

La Sarandon non è la prima celebrità a sostenere un cambiamento radicale su queste e altre questioni.

Ma la star di Hollywood elenca un’obiezione alla Clinton che la fa distinguere: “Sostiene l’aiuto militare incondizionato a Israele“.

Ancora nel 2016 è insolito per le grandi star di Hollywood, anche quelle che esprimono la propria opinione politica di sinistra, prendersela con Israele.

Forse questo è un altro segno che uno dei grandi tabù nella politica americana sta andando in frantumi.

 

Trad. Simonetta Lambertini

Fonte: https://electronicintifada.net/blogs/ali-abunimah/susan-sarandon-slams-clintons-unconditional-support-israel

Li chiamano shministim o refusenik

  • Paola di Lullo – 2 Novembre 2016

Sono i giovani obiettori di coscienza israeliani. I giovani che rifiutano di prestare il servizio di leva nell’esercito del loro paese. Tre anni per i ragazzi, due per le ragazze. Sono la futura classe dirigente israeliana. I futuri genitori di bambini che spereremmo non vedere più armati ad un poligono di tiro. Sono il cambiamento. La “rottura” nella società civile israeliana. Sono giovani che, pur riconoscendo il diritto all’esistenza dello stato d’Israele, non ne riconoscono la politica di occupazione, oppressione, violenza, apartheid. Sono i giovani che riconoscono l’esistenza dello stato di Palestina. Che non vogliono muri, checkpoints, soldati armati, soppressioni di manifestazioni e marce pacifiche.

Nel marzo del 2014, 50 di loro, indirizzarono una lettera a Benyamin Netanyahu. 50 ragazzi delle scuole medie superiori israeliane scrissero che «I soldati israeliani violano diritti umani e compiono azioni che il diritto internazionale considera crimini di guerra. Ci opponiamo all’occupazione dei Territori palestinesi, ad esecuzioni mirate, costruzioni di insediamenti colonici, arresti amministrativi, torture, punizioni collettive. Ci rifiutiamo di abbandonare i nostri principi come condizione per essere accettati nella società». E rivolsero agli israeliani l’invito «a riconsiderare la loro posizione in merito all’occupazione, l’esercito e il ruolo dei militari nella società civile».

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Prof. Gadi Algazi, Tel Aviv University
Se il termine shministim comincia a circolare dal 2008, è dal 1970 che sempre più giovani israeliani si oppongono al servizio di leva.
Secondo il professore di storia Gadi Algazi della Tel Aviv University (anche lui condannato a un anno dietro le sbarre per lo stesso atto di protesta), da 600 a 1000 refusenik hanno evitato il servizio di leva nell’IDF da quando il movimento è iniziato nei primi anni ’70.

Ci sono molti modi ben noti per evitare di servire nell’IDF senza finire in prigione. Gli ebrei ortodossi, per esempio, sono stati esonerati dal servizio militare, così come molti ebrei non ortodossi. Altri coscritti che non desiderano portare armi sono autorizzati a svolgere lavori d’ufficio. E anche se l’IDF non rivelerà la metodologia utilizzata dalla sua commissione per l’obiezione di coscienza, la stessa effettivamente congeda dal dovere alcuni “pacifisti”, di solito coloro che si definiscono pacifisti vaghi, senza obiezioni specifiche per le azioni dell’IDF, secondo documenti del Ministero della Giustizia di Israele pubblicati dall’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite.
Una delle scuse più popolari, però, è l’instabilità mentale. Mostrare in modo convincente un disturbo psicologico garantisce quasi sempre l’esonero.

Ma non tutti ci stanno. I casi più clamorosi riguardano refusenik che non hanno accettato compromessi, dichiarando apertamente le motivazioni del loro rifiuto a svolgere il servizio di leva. Perché prendono tale posizione, sapendo che ciò che li aspetta è il carcere?
“Perché quando l’Occupazione finirà, in venti o trent’anni, sebbene spero che succeda prima, voglio poter dire che ho fatto qualcosa, che non sono stata solo a guardare questa ingiustizia. Il mio stare in prigione non ha aiutato neanche un palestinese, lo so, ma almeno ho fatto qualcosa pensando che fosse giusto, per dire che la violenza non è la risposta”, Omer Goldman, figlia di un vice capo del Mossad.
ajaxmailLa sua storia fece scalpore nel 2008, allorché la splendida diciannovenne, figlia di  Naftali Granot, fu condannata a 21 giorni di carcere militare per essersi rifiutata di servire le Forze di Difesa Israeliane insieme a Tamar Katz e Mia Tamarin. Lei era una dei circa 40 studenti delle scuole superiori che firmarono una lettera di protesta nel 2008  (“Shministim”).
A circa 16 anni, aveva iniziato ad andare alle dimostrazioni e durante una protesta in cui i manifestanti  cercavano di rimuovere un checkpoint costruito in mezzo ad un paese senza alcuna necessità, fu ferita ad una mano da un proiettile di gomma sparato dai soldati israeliani.
“Questo è l’esercito che ero stata indotta a credere che mi stava proteggendo, che mi stava aiutando”, disse scioccata. In quel momento aveva deciso che non avrebbe mai indossato l’uniforme di una forza che commetteva azioni del genere.
Il giorno in cui avrebbe dovuto firmare si presentò con un centinaio di sostenitori e rifiutò pubblicamente di arruolarsi. Fu portata in una cella e poi davanti a un tribunale militare, dove il giudice – un ufficiale di alto rango – cercò di convincerla che poteva diventare un soldato e cambiare le cose dall’interno.
“Potresti offrire caramelle ai bambini palestinesi nei checkpoint” le disse, a quanto pare, senza ironia. La sua replica – “offrire caramelle non cambia il fatto che sarò lì illegalmente” – lo fece infuriare tanto che le fu inflitta una sentenza più dura, 21 giorni di carcere, di quelle comminate ad altri obbiettori di coscienza che stavano lì quel giorno.
Per prepararsi alla sua detenzione in una prigione militare , Omer si era recata da uno psicologo ogni settimana. Dopo un secondo periodo, 10 giorni, trascorso in prigione per aver rifiutato nuovamente il servizio militare, Omer è adesso esentata dalla coscrizione per motivi medici, ma continua a partecipare alle dimostrazioni con i Palestinesi della Cisgiordania e a parlare pubblicamente contro quella che considera un’ingiustizia commessa dai propri connazionali e dal suo governo contro una popolazione civile innocente. La sua presa di posizione le è costata parecchio. Gli amici l’hanno allontanata, gli estranei l’hanno attaccata fisicamente e suo padre rifiuta ogni contatto con lei. I giorni trascorsi in prigione sono uno dei periodi più significativi della sua vita, dice.

Dichiarazione di rifiuto di Omer:
Mi rifiuto di arruolarmi nelle forze armate israeliane. Non sarò parte di un esercito che implementa inutilmente una politica violenta e viola i più elementari diritti umani su base giornaliera.
Come la maggior parte dei miei coetanei, anch’io non ho avuto il coraggio di mettere in discussione l’etica del militare israeliano. Ma quando ho visitato i territori occupati mi sono resa conto che vedo una realtà completamente diversa, una, opprimente, la realtà di estrema violenza che deve finire.
Credo nel servizio alla società di cui faccio parte e questo è esattamente il motivo per cui mi rifiuto di partecipare ai crimini di guerra commessi dal mio paese. La violenza non porterà alcun tipo di soluzione e non voglio commettere violenza, qualunque cosa accada”.

1)http://www.commondreams.org/news/2014/03/10/israeli-youth-we-refuse-serve-occupation-army
2)http://youtu.be/FZJESKXOSHs
3)http://www.radionetherlands.nl/thestatewerein/otherstates/tswi-090124-Omer-Goldman
Moral Heroes
Nena News Agency

ajaxmail_1Sorte analoga, sebbene più dura, toccò a Nathan Blanc, incarcerato nell’aprile 2013, per l’ottava volta in 19 settimane. Oltre 100 giorni di carcere a causa del suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito israeliano.
Convocato in una base militare nei pressi di Tel Aviv per otto volte in 19 settimane, espresse la sua opposizione a servire nell’esercito israeliano venendo arrestato e condannato al carcere, tra i 10 e i 20 giorni, ogni volta. La prigione in cui gli shministim scontano la loro pena è la prigione militare numero 6. Ogni volta che, terminata la detenzione, veniva rilasciato, veniva di nuovo convocato dopo un paio di giorni  al centro di reclutamento IDF dove dichiarava ancora il suo rifiuto. Ed il ciclo ricominciava.
Blanc aveva iniziato a prendere in considerazione la possibilità di rifiutare il progetto diversi anni prima.
La svolta arrivò con  l’Operazione Piombo Fuso, l’aggressione israeliana contro la Striscia di Gaza, iniziata alla fine del 2008 e terminata tre settimane più tardi, con circa 1.400 palestinesi morti. In una dichiarazione rilasciata quando era stato imprigionato, Blanc aveva detto: “L’ondata di militarismo aggressivo che ha travolto il paese, le espressioni di odio reciproco e il discorso vacuo circa l’abbattimento del terrorismo ed il creare un effetto deterrente era il motivo principale del mio rifiuto.”
In un’intervista al Guardian aveva dichiarato: “La guerra in corso in questo paese da più di 60 anni sarebbe potuta finire molto tempo fa, ma entrambe le parti si stanno dando a estremismi e fondamentalismi. L’occupazione doveva essere temporanea, ma ora nessuno parla della fine.”
Lo Stato di Israele mantiene le persone “sotto il suo controllo” senza diritti democratici. I palestinesi sono soggetti a “punizione collettiva” per le azioni di pochi.
La maggior parte degli israeliani cresce sapendo che il servizio militare obbligatorio inizia alla fine della scuola. Arruolarsi nell’esercito è qualcosa di profondamente radicato, un’esperienza collettiva dell’identità nazionale israeliana.
Per alcuni si tratta di un dovere patriottico tanto atteso, per altri di un rito di passaggio, per altri ancora di un difficile dilemma morale. Ma è raro che le persone rifiutino per motivi di coscienza.
La maggior parte degli amici di Blanc ha accettato la sua posizione. “Abbiamo avuto un confronto molto tempo fa”, ed alcuni di loro, attualmente in servizio come soldati di combattimento, dicono di ammirarlo. I suoi genitori, nonostante un po’ di ansia, sono favorevoli.

Blanc ha scritto nella sua dichiarazione pubblica iniziale che “dopo quattro anni pieni di terrore, è chiaro che il governo Netanyahu, come quello del suo predecessore Olmert, non è interessato a trovare una soluzione alla situazione attuale, ma piuttosto a preservarla.”
“Come rappresentanti del popolo”, ha scritto nella sua dichiarazione pubblica, “i membri del gabinetto non sono tenuti a presentare la loro visione per il futuro del paese e si può continuare con questo ciclo sanguinoso, senza fine in vista. Ma noi, come cittadini ed esseri umani, abbiamo il dovere morale di rifiutare di partecipare a questo gioco cinico.”

Blanc ha respinto la scelta di alcuni obiettori di rivendicare una condizione medica che lo esonerava dal servizio militare. “Non volevo mentire. Questa è una questione di principio.”
Sarebbe stato disposto a intraprendere il servizio civile in sostituzione del periodo di leva obbligatorio nell’esercito, ma l’IDF aveva rifiutato di approvare l’alternativa.

La vita in carcere è dura. “Ci alziamo alle 5 ogni mattina e abbiamo un appello mattutino”. Poi al lavoro per  otto ore al giorno. Ai detenuti, che indossano uniformi militari avanzate dagli Stati Uniti, è consentito effettuare chiamate da un telefono pubblico, ma non possono tenere i loro cellulari. C’è una biblioteca nel carcere, ma non una palestra.

“Non ho idea di quanto tempo andrà avanti “, aveva dichiarato Blanc. “Lo scenario peggiore è che verrò portato di fronte a un tribunale militare e condannato a circa un anno di prigione. Lo scenario migliore è che si stancheranno e mi permetteranno di fare il servizio civile.”
In effetti, è andata bene, si potrebbe dire. “Israele si è stancato di me”, scriveva Blanc che, dopo 10 condanne, per un totale di 178 giorni di carcere, ha iniziato il servizio civile nel settembre del 2014.

1)http://www.guardian.co.uk/world/2013/apr/01/israel-jails-conscientous-objector-eighth

2)http://www.jewishjournal.com/israel/article/life_of_an_idf_refusenik
3)http://writingforpeace.org/a-conscientious-objectors-view-from-the-ground-in-israel-by-natan-blanc/Ok

Il 5 maggio dello scorso anno, il figlio di Ilan Pappè, veniva rilasciato dal reparto C del carcere militare numero 6 dove aveva trascorso 21 giorni per aver disertato il servizio militare.
Il centro è situato in una base militare desolata a circa mezz’ora a est di Tel Aviv. Un terreno aspro, con pochi  alberi sparsi, cancelli rotti e mucchi di immondizia, con il ronzio costante di un altoparlante dell’esercito che dà ordini in ebraico ai giovani israeliani.
Il reparto C è per quei detenuti che sono considerati prigionieri ‘pericolosi’ o ‘problematici’ (la maggior parte di coloro che rifiutano il sevizio obbligatorio di leva in genere finisce nel reparto A). Questo significa che la maggior parte dei detenuti sono etiopi, drusi, beduini ed ebrei marocchini. Ha promesso loro di non dimenticarli. Sono sottoposti a pestaggi sistematici, ad abusi mentali, vengono loro negati il sonno, il cibo e le cure mediche in maniera regolare. Sono costretti a guardare documentari sull’Olocausto. Quando è stato chiesto loro cosa ne pensassero hanno detto alle guardie carcerarie: “Ora sappiamo chi siete: nazisti”.

Tair Kaminer and Tania Golan enter Tel Hashomer Military Base, I
Tair Kaminer e Tania Golan
L’ultima degli shministim di cui è giunta voce in Italia è Tair Kaminer, affiancata dallo scorso febbraio da Tanya Golan.  Entrambe diciannovenni, si apprestavano ad essere processate ed imprigionate.
Tair è stata condannata tre volte : l’11 gennaio a 20 giorni; il 1° febbraio, ancora a 20 giorni, con Tanya Golan; il 7 marzo a 30 giorni.

Tair: “Ci hanno spinto a pensare che non esista modello diverso da quello militarista e che non ci siano alternative. Ma io credo che questo sia il metodo più distruttivo e vorrei ricordare a tutti che ci sono sempre altre scelte. Le trattative, la pace, l’ottimismo, il desiderio di vivere in pace, libertà e sicurezza”. Qui la sua dichiarazione completa : http://www.wri-irg.org/en/node/25623

Tanya: “C’è chi sta traendo benefici dal proseguimento del conflitto israelo-palestinese e non rinuncerà mai volontariamente al controllo finanziario dei Territori Occupati. Mi rifiuto di far parte di un’organizzazione che mette in atto politiche razziste, fasciste, discriminatorie ed oppressive.” Qui la sua dichiarazione completa : http://www.wri-irg.org/en/node/25788

Dichiarata inadatta a svolgere il servizio di leva il 14 luglio 2016 a causa di “cattivo comportamento “, Tair è stata rilasciata il successivo 18 luglio, dopo 159 giorni dietro le sbarre. La sua condanna risulta, a tutt’oggi, essere la più alta comminata ad un obiettore di coscienza donna.

War Resisters’ International
Indipendent

Haaretz

Habima Theater e la necessità di un boicottaggio culturale di Israele

L’imminente esibizione del teatro nazionale nella colonia di Kiryat Arba dimostra che il boicottaggio contro l’attività israeliana in Cisgiordania da solo non potrà mai destabilizzare l’occupazione.‭

teatro

30 ottobre 2016 Scritto da Michel Warschawski

Quante volte siamo stati attaccati come sostenitori del movimento di Boicottaggio,‭ ‬Disinvestimento e Sanzioni‭ (‬BDS‭) ‬per aver sostenuto il boicottaggio accademico e culturale di Israele‭? ‬Decine di volte,‭ ‬anche dai cosiddetti attivisti di sinistra.‭

Leggi tutto “Habima Theater e la necessità di un boicottaggio culturale di Israele”

Speed Sister: incrociare la vita nella Palestina occupata

 

Dorgham Abusalim Novembre 2016

“L’odore del gas lacrimogeno mi ricorda la mia infanzia”, dice Maysoon Jayyusi, la coach della squadra palestinese di auto da corsa tutta al femminile nel film documentario intitolato Speed Sisters. E’ con queste parole che la regista Amber Fares pone le basi per l’eccitante giro delle quattro compagne di squadra attraverso la Cisgiordania, incrociando gli stereotipi di uno sport dominato dagli uomini con quelli di una società sotto occupazione straniera.

Le Speed Sisters, Marah, Noor, Mona e Betty sono la prima squadra femminile nelle corse automobilistiche in Medio Oriente e star del film. Anche se condividono una comune passione per le auto da corsa, lo sport, per ognuna di loro, ha un significato diverso. “I miei genitori mi danno tutto quello che hanno. Sento di avere una responsabilità.”, dice Mara, il cui impegno di principio nello sport è che non può non essere una sfida. Suo nonno, tanto per fare un esempio, si lamenta del fatto che “la gente parla.” Come in ogni società in cui le donne devono affrontare ruoli di parità di genere, il nonno di Marah considera la sua carriera con le auto da corsa come insignificante rispetto al fare qualcosa di “più prezioso.” Ciò nonostante, Marah gode del sostegno del padre che ritiene che il disagio che i palestinesi affrontano sotto occupazione li costringe a innovarsi, anche se questo comporta un impegnativo cambio di certe vedute profondamente radicate.

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Il team deve lottare anche con uno spazio limitato per correre e provare: con i posti di blocco israeliani che attraversano la Cisgiordania, trovare strade adatte su cui provare e competere non è compito facile. Spostarsi può diventare un incubo logistico, come spiega Maysoon, soprattutto quando “i bambini tirano pietre e i soldati [israeliani] tirano pallottole.” Il racconto e le inquadrature ironiche sanno riassumere l’intera dinamica dell’occupazione israeliana e la determinazione palestinese a vivere una vita normale: le Sisters spesso fanno girare le loro ruote in un’area adiacente alla famigerata prigione israeliana di Ofer dove si stima che 1.250 palestinesi, tra cui dei bambini, siano imprigionati, il più delle volte senza accusa né processo. Capita anche che durante le loro prove nei pressi di Ofer, Betty venga colpita e leggermente ferita da una bomboletta di gas sparata a distanza ravvicinata da un soldato israeliano di pattuglia nella zona.

Emerge anche la rivalità tra Mara e Betty, che smaschera i favoritismi da parte della tutta al maschile Federation Motor Sports palestinese. La coach Maysoon è pienamente consapevole del fatto che la sua squadra “può essere vista come una minaccia” che può dirottare opportunità e sponsorizzazioni verso le Sisters. Spesso “scende a compromessi” per far sì che gli uomini “si sentano come se fossero al comando.” A un certo punto durante il film, la carriera sportiva di Marah arriva ad una battuta d’arresto a causa dell’inosservanza da parte della federazione dei suoi stessi regole e regolamenti. “I giudici pensano solo allo spettacolo”, si lamenta dopo che le regole sono state piegate per favorire un’altra concorrente. Nonostante la battuta d’arresto, torna alle sgommate in pista per riconquistare il suo titolo di campionessa nella categoria femminile.

Anche se al di fuori delle loro famiglie e degli ambienti professionali le reazioni al team sono in gran parte positive, le Sisters si trovano comunque a dover affrontare detrattori. In una scena Noor legge ad alta voce da Facebook. “Tu sei un segno della fine dei tempi”, dice un commento. Un altro consiglia alle Sisters di “resistere [all’occupazione] con le pietre, non con lo sport e la moda.” Nonostante queste osservazioni, le Sisters sono sicure di sé nel tracciare il loro percorso.

Il film è accompagnato dalla musica di una compilation dinamica di artisti mediorientali dagli stili e backgrounds diversi. Caratterizzato da colonne sonore di Apo and the Apostles, DAM e altri, il documentario di Fares utilizza canzoni che rendono realisticamente una piacevole e divertente storia a lieto fine , senza mai perdere di vista gli ostacoli sullo sfondo. Ostacoli che non solo sono limitati all’occupazione. In realtà, gli spettatori che hanno familiarità con i recenti sviluppi palestinesi non possono non vedere la connessione con lo stato generale delle politiche palestinesi in tutte le controversie su norme e regolamenti.

Questa combinazione di una buona storia di vita vissuta e un contesto politico oscuro è abbastanza rara e nel caso di Speed Sisters lo spettatore è invitato a guardare i palestinesi come un qualsiasi altro gruppo di persone con sogni, ambizioni e gli innumerevoli ostacoli che si incontrano sulla strada per la loro realizzazione. Come ripete Maysoon i palestinesi, semplicemente, non possono portare la loro vita a una battuta d’arresto perchè c’è l’occupazione. Il documentario è un delizioso ritratto di straordinaria determinazione e redenzione.

 

 

 

Trad.  Invictapalestina.org

Fonte: http://blog.palestine-studies.org/2016/10/12/speed-sisters-cruising-through-life-in-occupied-palestine/

Video: La bandiera gigante in onore della Palestina che ha infiammato l’Estadio Monumental

28 ottobre 2016 • Fuente: El Desconcierto – Chile

La squadra a questo punto è diventata molto più di un club e per molti rappresenta la lotta palestinese contro il giogo di Israele. Tanto che centinaia di tifosi di altre squadre, anche con le magliette del Colo Colo o altre, sono venuti a sostenere il Palestino.

bandiera

Palestino, la squadra di calcio cilena, è diventata un simbolo per tutti coloro che, in Cile e nel mondo, desiderano la liberazione del popolo palestinese.

Anche in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, alcuni palestinesi hanno seguito le campagne internazionali del club de La Cisterna, particolarmente positive negli ultimi tempi.

Così, la bandiera srotolata giovedì allo stadio Monumental ha acquistato un sapore speciale. Il gigantesco emblema di cinquanta metri ha infiammato le 12.000 persone presenti che hanno applaudito all’impazzata durante la partita di ritorno dei quarti di finale della Coppa Sudamericana.

Le immagini sono state trasmesse su vari social legati al movimento filopalestinese nel mondo, mettendo in evidenza l’omaggio dei tifosi cileni.

La squadra, a questo punto, è diventata molto più di un club e per molti rappresenta la lotta palestinese contro il giogo di Israele. Tanto che centinaia di appassionati di altre squadre, anche con le magliette del Colo Colo o altre, sono venuti a sostenere il Palestino.

Purtroppo, non ce l’hanno fatta a passare la semifinale del torneo internazionale con la vittoria di solo 1-0 contro la squadra vincente Trasandino, che si era guadagnata un vantaggio di due gol nella gara di andata.

 

Trad. Simonetta Lambertini

Fonte: http://www.palestinalibre.org/articulo.php?a=62532