Report N°2 Anno 2016

Operazione Colomba
Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII

coloni
Durante la mattina del 4 marzo, tre coloni israeliani -due adulti e un bambino- hanno inseguito ed attaccato due volontari internazionali che stavano raggiungendo a piedi da At Tuwani il villaggio palestinese di Tuba

 

In Palestina il cosiddetto stato di diritto, nella duplice accezione di tutela dei diritti umani fondamentali e di rispetto di principi comuni e non arbitrari di legalità applicati indiscriminatamente a tutti gli individui, rappresenta, più che un privilegio di pochi, il grande assente del (soprav)vivere quotidiano di tutti. In tal senso, le statistiche di Febbraio non smentiscono l’ondata di violenza che da mesi anima la realtà locale.
Quale che sia la personale opinione circa le direttrici ultime di questo moto di intifada, ciò che conta sono i costi umani, e non solo, che ricadono sulla popolazione: a partire da ottobre 2015, sono stati uccisi oltre 190 palestinesi e 30 israeliani; nel mese di febbraio 3 israeliani (di cui uno colpito da fuoco amico) e 13 palestinesi, colpiti a morte in quanto reali o “possibili” autori di attentati; oppure uccisi a sangue freddo senza ragione ad un check-point o durante raid dei soldati.
Si contano inoltre più di quattrocento feriti per mano delle Autorità Israeliane nei Territori Occupati solo nell’ultimo mese.
Ma non solo: lunghe attese, controlli estenuanti e difficoltà di movimento vanno a sommarsi ai disagi connessi al protratto sciopero di insegnanti della West Bank, messo in atto con scopo principale di rivendicare pagamenti arretrati o aumenti salariali mai concessi.
Il tutto, nel clima sospeso di demolizioni a tappeto che negli ultimi mesi stanno travolgendo la vita di decine di famiglie, su un monte globale di quasi duecento edifici rasi al suolo e decine di ordini di demolizione in tutta la Cisgiordania.
In questo senso, purtroppo, anche l’interruzione del digiuno portato avanti per 94 giorni dal giornalista Al-Qiq, in seguito alla sospensione della detenzione amministrativa impartitagli senza regolare processo, lungi dall’esser considerabile come una vittoria della giustizia, in un Paese in cui lo stesso destino è condiviso da più di settecento prigionieri palestinesi.

CONDIVISIONE, LAVORO e NOVITA’ SUI VOLONTARI

 

Il mese di Febbraio, grazie ad un primo, timido esordio di clima primaverile, è stato testimone dell’intensificarsi delle attività di pastorizia anche nelle valli delle South Hebron Hills, dove i volontari di Operazione Colomba sono impegnati a supportare le azioni di resistenza della popolazione locale, all’insegna della nonviolenza e della condivisione quotidiana. Particolari difficoltà sono emerse in occasione di alcuni violenti attacchi messi in atto da coloni, spesso mascherati  a spese dei pastori impegnati nelle attività quotidiane sulle terre loro indebitamente espropriate o dei bambini ai quali è stato impedito di raggiungere la scuola; da evidenziare, proprio in merito a quest’ultimo punto, sono inoltre le cattive condotte, all’insegna di protratti ritardi ed incompletezza d’esecuzione, dei soldati israeliani, i quali sarebbero tenuti a scortare ogni giorno i bambini diretti a scuola ad At-Tuwani, a causa proprio della pericolosità del percorso che si articola su un sentiero collocato tra la colonia e l’avamposto do Ma’On.
Nelle ultime settimane, inoltre, ben ventisei case collocate nei villaggi di Jinba, Halawi e Susyia sono state demolite per ordine delle Autorità Israeliane e decine rimangono tuttora sotto ordine di demolizione, nello stesso status giudiziale cioè che, in mera linea teorica, sarebbe da applicare anche a tutti gli edifici collocati all’interno degli avamposti illegali entro i quali vivono gli stessi coloni, ma per i quali nella pratica sembra vigere una legge differente; in tali occasioni i volontari oltre a documentare gli avvenimenti, si son prodigati ad esprimere concretamente la propria vicinanza alle famiglie, condividendo con loro la criticità di questi momenti e cercando di fungere da deterrente all’uso della violenza in clima di tensione.
Oltre a questa presenza tra le colline della Firing Zone 918, la zona militare chiusa dalla quale sono state sfollate più di settecento persone a partire dal 1999, i volontari hanno inoltre accompagnato i ragazzi di Tuba nelle loro attività di pastorizia nelle valli di Umm Zeitouna, terreni palestinesi collocati attorno alla colonia di Ma’on entro i quali dopo molti anni i palestinesi riescono, pur fronteggiando il rischio costante d’esser arrestati, a fare finalmente ingresso: un esempio tra tutti di quelle piccole ma preziosissime conquiste quotidiane che animano le verdi colline a sud di Hebron.

 

Indirizzo:
Operazione Colomba – Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII
Via Mameli n.5
47921 – Rimini (RN) – Italia

Per maggiori informazioni e contatti:
Tel./Fax +39.0541.29005
E-mail: operazione.colomba@apg23.org
www.operazionecolomba.it

L’esercito israeliano colloca coltelli vicino ai palestinesi?

Amirahass
Soldati israeliani attorno ad un palestinese ferito ad Hebron, 26 Ottobre 2015, dopo un tentativo di accoltellamento presso la Grotta dei Patriarchi. AP

All’orecchio israeliano l’accusa sembrerebbe inverosimile. Gli israeliani considerano difficile credere che i nostri soldati e comandanti possano mentire, a meno che non si provi il contrario attraverso foto o registrazioni ambientali.
Amira Hass Nov 16, 2015 6:02 AM

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La libertà di espressione palestinese sotto attacco: 150 arresti per i messaggi su Facebook, giornalisti imprigionati, stazioni televisive chiuse.

stampa14 MARZO 2016

la libertà di espressione palestinese continua ad essere sotto continuo attacco da parte di Israele; La  Commissione dei prigionieri palestinesi ha riferito che mentre oltre 16 giornalisti palestinesi sono imprigionati, 150 palestinesi sono stati arrestati per i post su  Facebook.


La Commissione ha riferito che è stata costituita appositamente un’unità speciale della sicurezza israeliana  per sorvegliare  i social media palestinesi, sottolineando che palestinesi di Gerusalemme,  sono stati particolarmente presi di mira e che numerosi palestinesi della  Palestina occupata nel ’48, sono stati licenziati dai loro posti di lavoro in seguito ai post su Facebook contro l’occupazione.

Tutto ciò avviene  Venerdì, 11 marzo, durante il raid sulla stazione televisiva Palestine Today e l’imprigionamento di tre dei suoi collaboratori. Oltre a questi fatti, Giovedi 10 marzo, la detenzione del giornalista palestinese Sami al-Sa’ie è stata prorogata di otto giorni per ulteriori interrogatori – il giornalista al-Sa’ie, è stato accusato di incitamento attraverso la sua pagina personale su Facebook ; egli è un giornalista per il canale televisivo al-Fajr al-Jadeed  a Tulkarem.
I giornalisti imprigionati includono tre detenuti amministrativi, tra cui Mohammed Kaddoumi, Ali Oweiwi e Mohammed al-Qeeq, che ha raggiunto la sua libertà con uno sciopero della fame di 94 giorni.

 

trad. Invictapalestina.org

fonte: http://samidoun.net/2016/03/palestinian-freedom-of-expression-under-attack-150-arrested-for-facebook-posts-journalists-imprisoned-tv-stations-closed/

ISRAELIANI A GERICO. RABBIA A GAZA 15/3/06

innaffialapalestina
Operazione militare contro la prigione della cittadina palestinese conclusa in nove ore. Ma il prezzo politico è pesante

Mercoledì 15 Marzo 2006- Paola Caridi
Carriarmati, blindati, molti soldati, e l’appoggio dal cielo di elicotteri e caccia. Di prima mattina, l’esercito israeliano ha rotto, ieri, la calma relativa di Gerico, la cittadina palestinese in riva al Mar Morto, al confine tra Israele e Giordania, tappa ineludibile dei pellegrinaggi in Terrasanta. Entrando in città e dirigendosi verso la prigione.
Obiettivo di una operazione militare che doveva essere veloce: circondare l’edificio e arrestare sei prigionieri, detenuti sotto il controllo di un gruppo di osservatori americani e britannici. Ahmed Saadat, il leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e assieme a lui altri quattro esponenti del partito marxista, e Fuad Shubaki, di Fatah. Mentre Shubaki è accusato dagli israeliani di aver progettato il carico di armi della Latrina A, la nave intercettata al largo di Gaza nel 2002, i cinque dell’FPLP sono sospettati dell’omicidio nel 2001 a Gerusalemme di Rehavam Zeevi, ministro del turismo ed esponente della destra israeliana, in risposta all’uccisione, da parte israeliana, di Abu Ali Mustafa, il predecessore di Saadat.
Il raid, però, si è trasformato subito in un assedio difficile e sanguinoso, conclusosi solo dopo nove ore, quando era già sera, con la resa di Saadat e degli altri cinque palestinesi che gli israeliani hanno condotto nelle loro prigioni. In attesa di processo.
La rabbia palestinese si è subito irraggiata alle altre città della Cisgiordania sino a sud, alla Striscia di Gaza. Dove si sono concentrati gli attacchi contro gli occidentali, in risposta alla decisione presa dagli osservatori americani e britannici di abbandonare la prigione di Gerico, dove erano dal 2002 in virtù di un accordo tra israeliani e palestinesi. Il vuoto lasciato dagli osservatori ha subito consentito agli israeliani di intervenire, e a Gaza come a Nablus e a Jenin ha scatenato l’ira di gruppi armati di palestinesi, che hanno sequestrato (spesso solo per poche ore) gli stranieri che si trovavano in zona.
A rendere la situazione ancor più incandescente è stato il fatto che il raid israeliano ha incontrato difficoltà impreviste. Il gruppo di Saadat, infatti, non è uscito quando gli ufficiali dell’esercito hanno ordinato con gli altoparlanti ai prigionieri (oltre duecento) di uscire e di arrendersi. E a nulla sono valsi i primi attacchi, dal fuoco di armi automatiche ai colpi sparati dai carriarmati e, in seguito, l’intervento di un bulldozer che ha buttato giù un muro dell’edificio, causando la morte di un poliziotto palestinese di guardia al carcere.
Ad arrendersi, mano a mano, sono stati gli altri detenuti, quelli comuni. Costretti poi a spogliarsi e a rimanere in mutande davanti ai soldati israeliani. Saadat e gli altri cinque, invece, si sono barricati nell’edificio. E lo stesso Saadat, eletto deputato nelle consultazioni politiche palestinesi dello scorso 25 gennaio, ha detto in diretta tv al telefono con Al Jazeera che non si sarebbe arreso. Piuttosto, avrebbe affrontato il suo destino.
Poi, nel pomeriggio, lo stallo. E il fallito tentativo di Yossi Beilin, fautore dell’iniziativa di pace di Ginevra, di mediare tra il governo Olmert e Mahmoud Abbas. Abu Mazen aveva promesso di mantenere in prigione tutto il gruppo dei sei, sconfessando in sostanza le sue dichiarazioni di queste ultime settimane, in cui il presidente dell’ANP aveva detto che Saadat e gli altri sarebbero stati liberati. Erano state proprio queste dichiarazioni a preoccupare Israele e a far partire l’ordine, arrivato direttamente dal premier Ehud Olmert e dal ministro della difesa Shaul Mofaz, di attaccare la prigione di Gerico. Un quarto d’ora dopo la partenza della pattuglia di osservatori angloamericani.
La situazione si è sbloccata solo nel tardo pomeriggio, quando una fila di detenuti – con le mani sopra la testa – è uscita dall’edificio ormai semidistrutto. L’FPLP, però, minaccia ritorsioni contro Israele. Mentre Abbas getta la responsabilità non solo sul governo Olmert, ma anche su americani e inglesi. Accusa, questa, ribadita anche dalla Lega Araba, col suo segretario Amr Moussa. Mentre Ismail Hanyeh, il premier palestinese incaricato e leader di Hamas, accusa Olmert di aver usato il raid contro la prigione di Gerico come un’arma elettorale, a due settimane dall’apertura delle urne in Israele.

E A GAZA SCOPPIA LA RABBIA PALESTINESE

Da Gerico a Gaza. La rabbia dei palestinesi supera la depressione del Mar Morto, sale su a Nablus e Jenin, percorre Ramallah, Betlemme, Hebron. E si esprime con tutta la sua forza a Gaza. Dove, per gli occidentali, è decisamente una brutta giornata. Appena arrivano le notizie dell’assedio della prigione di Gerico, l’ira si sfoga contro il primo bersaglio britannico: il British Council, dato alle fiamme e gravemente danneggiato. Destino migliore avrà il British Council di Ramallah, dove la protesta di giovanissimi palestinesi sul tetto sarà moderata. Poi è la volta della redazione della tv tedesca ARD, di un ufficio legato agli americani, di una sede dell’Unione Europea già vuota.
Le Brigate dei Martiri di Al Aqsa danno ad americani e inglesi due ore per lasciare i Territori. Infine, iniziano i sequestri, da parte di gruppi diversi, non sempre identificabili. Due donne di Médécins du Monde, due giornalisti sudcoreani, e nel tardo pomeriggio arriva anche la notizia del rapimento di una giornalista e un fotografo francesi, a Gaza per la rivista Elle. Sequestrati e subito rilasciati due insegnanti australiani, mentre un funzionario svizzero della Croce Rossa Internazionale rimarrà in mano a ignoti rapitori per alcune ore. Breve anche il sequestro di un professore americano che insegna a Jenin, e che farà però in tempo a essere filmato da un’agenzia internazionale in mano ai rapitori.
La Striscia di Gaza, già dalla mattina, diventa insicura per tutti gli occidentali. Anche per chi, alla vita difficile della zona, ci è abituato perché – questo è il mestiere di chi arriva dall’Europa e dagli Stati Uniti – a Gaza si va per fare volontariato. Per l’Onu o per le organizzazioni non governative. Ieri, però, la situazione era diversa. Lo hanno confermato i sei cooperanti italiani che sono stati prima portati in un luogo sicuro, e che ieri sera erano in viaggio verso Gerusalemme. Polemiche, però, le loro dichiarazioni contro la Farnesina, che voleva rimpatriarli subito attraverso il valico meridionale di Rafah, mentre tutti gli altri stranieri sono rientrati attraverso il valico di Erez, scortati dalle forze di sicurezza palestinesi per tutto il viaggio dentro la Striscia, a Gerusalemme e Tel Aviv, in attesa che si calmino le acque. Molti stranieri, quando è cominciato il tam tam dei sequestri da parte di gruppi armati, hanno chiesto la protezione dei servizi di sicurezza preventiva palestinesi.
Chiuso in anticipo anche il valico di Rafah, che unisce la Striscia con l’Egitto, e che è controllato da un gruppo di osservatori dell’Unione Europea, al comando del generale dei carabinieri Piero Pistolese. Il valico dovrebbe riaprire oggi, ma il condizionale è d’obbligo. Le organizzazioni internazionali, Croce Rossa esclusa, hanno comunque deciso di ritirare solo temporaneamente il proprio staff straniero dalla Cisgiordania e da Gaza, per questioni di sicurezza.
Immediata la reazione delle Nazioni Unite, con il segretario generale Kofi Annan, che ha chiesto la liberazione di tutti i rapiti. Mentre Abu Mazen ha interrotto il suo viaggio in Europa per tornare immediatamente in Palestina.