Sono giorni, mesi, anni, che siamo bombardati da immagini che provengono dalla Palestina e che raccontano di soprusi e violenze.
Non si può rimanere indifferenti. Non si può continuare a pensare che tutto questo finirà senza che noi muoviamo un dito.
Non si può neanche pensare che “se la risolvano da sé la questione della terra. L’aveva detto anche Gesù Cristo: in questa terra non ci sarà mai pace”.
E così lavarsene le mani e lasciare che la lotta palestinese, l’unica lotta giusta, moralmente giusta, quella per la vita, per la terra e per la propria identità venga portata avanti da un popolo inerme.
Non solo si ignora. Si omette. Si nega. Si mente in Palestina. Il terrore è di chi detiene il potere, è dell’occupante. È di chi possiede un esercito ben equipaggiato. Di chi detiene la forza e la potenza per far credere al mondo ciò che vuole.
Questi giorni si sono superati tutti i limiti, sempre che limiti ce ne siano mai stati in Palestina.
I numeri di morti e feriti non si contano più e le uniche parole che mi vengono in mente per descrivere tutto questo sono genocidio, omicidio di massa, strage.
Nakba, in questo senso, diventa un eufemismo. La parola Nakba in sé contiene una dimensione temporale: una “catastrofe”, qualcosa che ha un inizio e una fine. Ma qui l’occupazione continua, la Nakba continua ininterrotta dal ’48 e la catastrofe si allarga e rimbalza: dalla West Bank a Gaza, poi di nuovo Gaza e poi ancora più forte sulla West Bank.
I giovani, la parte più colpita. Colpendo la parte più attiva si vuole cercare di eliminare la Resistenza. Si vuole distruggere quella capacità di reazione e di riappropriazione di se stessi e della propria coscienza di popolo in lotta per eliminare ogni spiraglio di speranza. Dal ‘48 questo non è mai successo.
Intifada delle pietre, intifada di al-Aqsa, intifada dei coltelli. Gli apici della lotta. I simboli della lotta.
Non mi bastano i sentimenti. Non mi basta più lo sdegno. Non mi bastano le parole che conosco e non mi bastano la vergogna che provo per i tempi e per l’umanità di cui faccio parte. Solo silenzio di fronte alle immagini che vengono dalla Palestina. E solo silenzio per cercare di capire come la passione, l’amore e la sofferenza provata in una terra non mia e lontana da me, possano diventare atto. Possano essere resi utili e a disposizione di questa lotta. Pensare al fare più che al dire, più che al testimoniare. Perché forse l’unico limite a cui si è arrivati è quello tra il continuare a dire e il fare.
Ma cosa fare?
Continuo a non chiudere occhio, facendomi male guardando foto da Hebron, da Betlemme, proteste a Ramallah, feriti a Nablus, ambulanze colpite.
Mi chiedo come si può passare una notte sotto occupazione. Le notti saranno forse più lunghe dei giorni in Palestina?
Penso ai prigionieri. Mi chiedo quanto male può far loro lo stare rinchiusi mentre il loro popolo e la loro terra si infiamma. Non è l’idea che viene fermata. Non è il pensiero o la volontà. È l’azione. La libertà di avere libertà.
Uno scenario di guerra, che guerra non è. Un genocidio silente. Vorrei poter esserci quando una volta caduto il sionismo, i suoi complici giocheranno a darsi le colpe fingendo di non essere stati messi al corrente della gravità della situazione. In Palestina.
Cerco conforto cercando tra i pensieri versi di poesie. Cerco di ricordarmi parole di Darwish o Kanafani, per trovare un significato, una continuità storica, con quello che sta succedendo. Per vedere se anche loro come non dormivano, pensando da palestinese alla Palestina…
Ma niente. Il vuoto.
Così l’unica associazione che mi viene in mente è quella con Antigone. L’ignorata sacralità della morte. Il mancato rispetto per i cadaveri, che nella foto vediamo lì, stesi, lasciati immobili di fronte a soldati dell’IDF per i quali un morto in più è solo un numero, un traguardo, una conquista all’interno del disegno sionista di eliminazione della popolazione palestinese.
Palestina come Antigone. La Palestina che dà sepoltura ai propri morti, ma scoperta, continua a essere vessata, accusata, punita.
La Palestina punita perché porta avanti un nobile ideale e ne rimane vittima. La Palestina Antigone che incarna quella lotta tra razionalità e potere. Un potere che sfida e che non rispetta l’umanità. Antigone che sfida l’autorità ingiusta.
La storia palestinese, la storia del popolo palestinese, come la tragedia di Antigone ci stanno insegnando una cosa sicuramente. Ci insegnano la dignità, il rispetto e la tenacia. Ci insegna il coraggio
Di chi non si arrende, pur sapendo di non avere i mezzi per vincere, se non la propria volontà e, a volte, la fede.
Alla Palestina viene implicitamente chiesto da ormai 67 anni di accettare un’occupazione violenta e illegale e di accettarla passivamente. Di dimenticare che il resto dei palestinesi vive in diaspora da più di 67 anni. Di lasciar perdere la terra rubata, le case occupate e distrutte. Di dimenticare la violenza nei luoghi sacri, nelle scuole. Di far finta di non vedere i check point, le restrizioni. Da 67 anni ormai viene chiesto ai palestinesi di cercare la morte. Da soli o contro l’esercito.
Noi stiamo conoscendo la dignità di un popolo a queste spese. Per quanto ancora?
a.m.b. Associazione Amicizia Sardegna Palestina