Il nuovo vocabolario della questione palestinese

Noam Chomsky (destra) e Ilan Pappé (sinistra)

 

di Andrea Colasuonno – Odysseo

Roma, 18 luglio 2015, Nena NewsÈ uscito il nuovo libro di Noam Chomsky e Ilan Pappé “Palestina e Israele: che fare?. A quasi un anno esatto dall’ultima sanguinosissima operazione israeliana su Gaza, “Margine protettivo”, i due autori hanno voluto proseguire il lavoro di riflessione iniziato con “Ultima fermata Gaza”, testo edito 5 anni fa, di grande successo e vasta diffusione.

Anche questo nuovo lavoro, come quello precedente, nasce fondamentalmente da un fitto scambio di vedute fra i due celebri studiosi ebrei. Così, spiega il curatore Frank Barat nell’introduzione, si era pensato di dividere il lungo dialogo in tre parti: una che trattasse del passato della questione palestinese, una del presente, l’altra del futuro. Le bozze del libro erano pronte quando nel luglio 2014 Israele e Gaza precipitarono nell’ennesimo conflitto. Pappé come Chomsky decisero che fosse doveroso a quel punto integrare il loro libro-intervista con lavori originali che ne chiarissero meglio alcuni contenuti.

Seguendo questa logica il testo si è arricchito di capitoli quali “I tormenti di Gaza, i crimini di Israele, le nostre colpe”, “Breve storia del genocidio progressivo di Israele”, il “Discorso alle Nazioni Unite” di Noam Chomsky. Ma soprattutto “Le vecchie e le nuove conversazioni”, saggio “eccellente, di straordinaria attualità, provocatorio e originale”, posizionato non a caso in apertura al testo, nel quale Pappé prova a riscrivere il vocabolario del conflitto israelo-palestinese.

Da dove nasce questa esigenza? Nasce dalla presa d’atto che le grandi conquiste raggiunte fuori dalla Palestina, ad esempio il cambio avvenuto nell’opinione pubblica mondiale circa il conflitto in questione, non si sia tradotto in miglioramenti concreti sul territorio. Ciò, secondo Pappé, non è avvenuto anche perché fra diplomatici, studiosi, politici, ma anche attivisti filo palestinesi occidentali, vige ancora un’egemonia retorica di ciò che chiama il “vocabolario dell’ortodossia pacifista”. Un vocabolario scaturito da una fiducia “quasi religiosa” nella soluzione a due Stati, messo a punto negli ambienti delle scienze politiche americane e “utile a conformarsi alle posizioni degli Stati Uniti”.  

che-fareEcco che, secondo lo storico israeliano, un “nuovo lessico può servire agli attivisti per rafforzare il proprio impegno nella lotta contro l’ideologia sottesa agli abusi e alle violazioni israeliane dei diritti umani e civili […]”. E allora questi alcuni dei termini in questione.

Colonialismo al posto di “sionismo”. Una sostituzione del genere, spiega Pappé, è fondamentale perché chiarisce la natura delle politiche israeliane di giudaizzazione sia all’interno di Israele che in Cisgiordania. Del resto il movimento sionista già nel 1882 usava il termine “le-hityashev”, letteralmente “colonizzare”. Inoltre non tutti capiscono “sionismo” mentre più o meno tutti comprendono “colonialismo”. Ciò permette di spezzare la favola della “complessità” del conflitto israele-palestina, che solo serve ai sionisti a prendere tempo e confondere le idee. In realtà “la fisionomia e l’obiettivo di questo progetto non sono per nulla straordinari”, si tratta di un popolo che ruba la terra a un altro popolo, vedi Sudafrica.

Stato segregazionista al posto di “Stato Ebraico”. Diversi studi hanno dimostrato come le politiche israeliane siano diventate negli anni via via più omogenee sia per i palestinesi della Cisgiordania che per gli arabi-israeliani. Oggi, secondo Pappé, Israele è indubbiamente uno stato che segrega e discrimina in base all’etnia, alla religione e alla nazionalità.

Apartheid al posto di “conflitto”. L’uso sempre più frequente di tale espressione, soprattutto negli ambienti che contano, ha favorito e favorirà sempre di più iniziative atte a sensibilizzare sulla condotta israeliana. Un esempio su tutti sono le “Israeli Apartheid Week”.

Decolonizzazione al posto di “processo di pace”. È chiaro a tutti, afferma Pappé, che il processo di pace è uno strumento per permettere a Israele di prendere tempo e aumentare le colonie. Introducendo il termine “decolonizzazione” si spera allora di fermare l’industria della “coesistenza” finanziata principalmente da americani e Unione Europea.

Pulizia etnica al posto di “catastrofe” (Nakba). Parlare di pulizia etnica permette di individuare una vittima e un aggressore, base per cercare una riconciliazione. La comunità internazionale ha stabilito da tempo precise direttive che indicano come trattare le vittime di atti del genere. Ecco che ad esempio, seguendo il “principio di riparazione”, non sarebbe scandaloso riprendere a parlare di “diritto al ritorno” (dei profughi del ’48), punto completamente rimosso dalla vecchia ortodossia pacifista.

Cambio di regime al posto di “negoziati”. Non deve più essere considerato inconcepibile un cambiamento radicale dello Stato israeliano: da stato colonialista a patria per tutti. Diversi esempi di storia recente (Egitto, Tunisia) dimostrano come una cosa del genere sia possibile anche per mezzo di soluzioni non violente o quasi non violente.

Soluzione a uno stato al posto di “soluzione a due stati”. Secondo lo storico dovrebbe essere una diretta conseguenza del “cambio di regime” di cui abbiamo accennato appena più su. La questione, tuttavia, è di portata capitale e sarebbe inutile provare a sintetizzarla nel giro di qualche riga. È il punto sul quale Chomky e Pappé divergono più platealmente. Il libro prova a spiegare i perché dell’uno e i perché dell’altro lasciando poi, come tutti i libri, la parola alla storia. Nena News

– See more at: http://nena-news.it/il-nuovo-vocabolario-della-questione-palestinese/#sthash.1CPKc4Bn.dpuf

L’esercito israeliano propone piccoli passi per aiutare l’economia di Gaza al collasso

L’alleggerimento di alcune delle più dure condizioni del blocco può aiutare fino a 100.000 gazawi, ma ignora i bisogni elementari e i diritti degli altri 1,7 milioni di palestinesi della Striscia.

Di Amira Hass, 13.07.2015 (Haaretz)

gaza

Gli ufficiali dell’esercito israeliano hanno fatto una stupefacente scoperta, che è valsa loro molto apprezzamento: il degrado economico nella Striscia di Gaza costituisce una minaccia alla tranquillità e alla stabilità.

Hanno anche scoperto che c’è un nesso tra la politica di Israele e il decadimento economico. Hanno quindi suggerito al ministro della difesa di alleggerire il rigido blocco di Gaza. Un editoriale di Haaretz ha definito le loro raccomandazioni “una nuova strategia pragmatica e razionale”.

Sono scoppiati gli applausi. Come nella vecchia barzelletta sul rabbino che suggerisce all’uomo che vive in una casa insopportabilmente affollata di portare in casa una capra e lasciarla libera, così l’esercito ha proposto di togliere un paio di restrizioni su Gaza – restrizioni che sono state stabilite dai militari e dai politici nei primi anni ’90.

Magari nelle raccomandazioni c’è di più di quanto riferito dal mio collega Amos Harel (Haaretz, 8 luglio 2015). Ma secondo il documento, le raccomandazioni sono piuttosto modeste quanto ad obbiettivi:

. Permettere ai lavoratori palestinesi di lavorare nelle comunità al confine con Gaza. Si tratta di una marcia indietro rispetto al piano di disimpegno del 2005, quando migliaia di palestinesi che ancora lavoravano in Israele furono espulsi e venne cancellata una politica durata 35 anni che consentiva ai gazawi di lavorare in Israele. Il ritorno di alcune migliaia di palestinesi a lavorare in Israele migliorerà la situazione di decine di migliaia di persone, e questo non va sottovalutato. Allo stesso tempo, questo ritorno andrà a beneficio di quelle comunità israeliane (lavoro a basso costo, disponibile e di buona qualità, soprattutto in agricoltura e forse anche nel settore delle costruzioni). Ma non modificherà sostanzialmente la situazione di disoccupazione a Gaza né risolverà il problema dei giovani disoccupati.

. Riaprire il transito commerciale di Karni (che è stato chiuso di fatto nel 2007 ed ufficialmente nel 2011) ed ampliare il transito commerciale di Kerem Shalom. In altri termini, aumentare il numero dei camion che trasportano merci. Non c’è carenza di beni di consumo a Gaza, per cui si spera che questo ampliamento significhi aumentare la quantità di materiale da costruzione in ingresso a Gaza e accelerare il processo di ricostruzione. Questo è certamente uno sviluppo positivo. Non è stato specificato se l’esercito consiglia di permettere ai palestinesi di Gaza di commerciare di nuovo le loro merci in Israele e Cisgiordania, ma forse è questa l’intenzione.

Dal 2007 Israele ha vietato la vendita di prodotti agricoli e dell’industria leggera, come vestiti e mobili, fuori da Gaza, provocando il fallimento di importanti industrie manifatturiere. Si spera che i responsabili delle decisioni nell’esercito capiscano che non ci può essere ripresa economica senza la riapertura del settore manifatturiero e la possibilità di vendere le merci al di fuori di Gaza.

. Permettere a migliaia di palestinesi di uscire da Gaza attraverso il ponte di Allenby al confine con la Giordania – in altri termini, permettere il passaggio in Israele e la Cisgiordania. Queste “migliaia” sono studenti che sono stati inseriti in programmi di studio all’estero, uomini d’affari, malati che viaggiano per avere cure mediche, pellegrini che si recano alla Mecca, palestinesi che sono arrivati da fuori per visitare la loro terra, personale di organizzazioni locali o internazionali che devono partecipare a conferenze o programmi di formazione all’estero. Insomma, chiunque abbia ottenuto un visto all’estero, che abbia il permesso di entrare attraverso la Giordania e che abbia i mezzi finanziari per tale viaggio. Una stima molto abbondante indica la cifra di circa 100.000 persone all’anno.

E i restanti 1,7 milioni?

Il testo del documento chiarisce molto bene una cosa. Gli ufficiali dell’esercito non raccomandano di fare la più naturale delle cose: aprire il valico di Erez in modo che gli abitanti di Gaza possano percorrere i 50-70 kilometri verso la Cisgiordania, e che gli abitanti della Cisgiordania possano recarsi a Gaza. Non raccomandano che i gazawi possano tornare a studiare nelle istituzioni della Cisgiordania; non raccomandano che gli amici e i familiari della Cisgiordania e di Gaza possano tornare a stare insieme, o formare nuove famiglie e creare rapporti di lavoro. Non raccomandano ciò che dovrebbe essere considerato come garantito: la libertà di movimento per tutti. Gli ufficiali dell’esercito continuano a considerare la negazione della libertà di movimento per i palestinesi nella loro terra come la norma, come una legge di natura. La differenza adesso è nel numero delle eccezioni alla norma che loro consigliano, ma non è una differenza sostanziale.

Nonostante la vanità dei miei sforzi per comunicare il seguente dato di fatto, non mi stanco di ripeterlo: la politica di fondo che ha guidato le mosse di Israele dal 1991 è separare Gaza dalla Cisgiordania e renderla un’entità separata e autarchica. La strategia gemella è la creazione di enclave palestinese in Cisgiordania e l’annessione dell’area C (quelle parti della Cisgiordania che gli Accordi di Oslo hanno posto sotto il temporaneo controllo totale di Israele, a livello civile e di sicurezza). Gli ufficiali dell’esercito non raccomandano la cancellazione di questa duplice strategia, che è la madre di tutti i fallimenti diplomatici e dei disastri umanitari, economici e della sicurezza degli ultimi 20 anni.

Non ci può essere alcuna ripresa economica a Gaza senza il ripristino dei rapporti naturali tra i gazawi e le loro sorelle e fratelli in Cisgiordania. Non può esserci ripresa economica senza il rispetto del diritto dei palestinesi alla libertà di movimento – non solo per andare all’estero, ma all’interno del proprio paese. Non ci può essere ripresa economica palestinese senza che vengano eliminate le restrizioni della libertà di movimento e della costruzione e sviluppo nell’area C della Cisgiordania.

Un’ultima cosa: senza un’equa ripartizione delle risorse idriche nel paese (tra il fiume e il mare [ossia in Israele e in Cisgiordania. N.d.tr.]) con i palestinesi, e la immediata erogazione di decine di milioni di metri cubi di acqua a Gaza – non come carità, ma come dovere e risarcimento per decenni di furti –, la ripresa non sarà altro che un vuoto slogan, perché il disastro umano ed ambientale è già lì. Qui.

Traduzione di Cristiana Cavagna

SAVE SUSIYA – Stop expulsion!

Riceviamo e giriamo Appello di Nasser Nawaj’ah

susiya

Cara Invictapalestina,

Noi, gli abitanti di Khirbet Susiya, un villaggio palestinese in Cisgiordania, abbiamo bisogno del vostro aiuto.

L’Amministrazione Civile Israeliana (CA) ci ha comunicato l’intenzione di demolire le case del nostro villaggio e lasciare intere famiglie senza casa nel deserto, una volta è finito il mese del Ramadan , a tre giorni da oggi.

Domenica scorsa ci siamo incontrati con i funzionari CA e con il Coordinatore israeliano delle attività governative nei Territori (COGAT). Ci hanno detto che la Regavim associazone senza scopo di lucro e i coloni nella nostra zona hanno fatto pressioni per iniziare le demolizioni prima del 3 agosto, data in cui l’Alta Corte israeliana valuterà la nostra petizione.

Ieri abbiamo ricevuto l’elenco delle strutture che l’Amministrazione Civile vuole demolire. Queste strutture ospitano 74 dei residenti di Susiya, metà dei quali sono bambini. L’elenco comprende molte strutture del villaggio: dieci abitazioni, la nostra clinica, otto stalle per animali, e dodici magazzini, rustici, ecc

Siamo nati nel villaggio di Khirbet Susiya, ma siamo stati sfrattati da Israele. Oggi viviamo sui nostri campi agricoli – non abbandonateci.

Abbiamo elaborato un piano per legalizzare lo status delle nostre case che abbiamo costruito sulla nostra terra, ma è stato rifiutato dalle autorità. Abbiamo inoltrato una petizione all’Alta Corte, con l’aiuto dei Rabbini per i Diritti Umani, chiedendo alle Autorità di accettare il piano. Ci sono diversi avamposti illegali israeliani vicino al nostro villaggio, ma le autorità non li hanno minacciati di demolizione – anche se non hanno permessi di costruzione o master plan.

Tutto quello che possiamo fare ora è continuare a contestare il piano di demolizione delle nostre case per non farci espellere dalla nostra terra, e lasciare tutta la terra ai coloni.

Come potete aiutarci?

Invita i tuoi amici ad unirsi e stare con Susiya – abbiamo bisogno di quante più persone possibile. Condividi questo informazioni e iscriviti pagina: http://www.btselem.org/savesusiya/english/

Ricorda questa data: Venerdì pomeriggio, 24 luglio venite a manifestare con noi nel villaggio, che si trova a sud di Hebron.

Ta’ayush sta coordinando la regolare presenza di attivisti al nostro paese dalla fine del ‘Eid al-Fitr Lunedi, 20 luglio fino alla data dell’udienza dell’Alta Corte sulla nostra petizione il 3 agosto. Iscriviti ai turni.
Grazie per il vostro sostegno,

Nasser Nawaj’ah, ricercatore B’Tselem, residente di Khirbet Susiya

Gaza: 16 luglio 2014

Il 16 luglio 2014, Israele ha ucciso 24 palestinesi di Gaza. Tra di loro c’erano quattro giovani ragazzi che giocavano a calcio su una spiaggia – i ragazzi della famiglia Bakr. Il più giovane, Ismail, di solo nove anni, Ahed e Zakariya di 10, e Mohammed di 11.

Ismail's father, pictured

Quattro piccoli cugini, spazzati via, lasciando madri, padri, fratelli e cugini sconvolti.

Israele, colto in fallo dai giornalisti che hanno assistito ai due scoppi, ha sostenuto di aver scambiato i ragazzi per giovani militanti addestrati  da Hamas.

Questi sono i nomi e l’età dei 24 palestinesi uccisi da Israele a Gaza il 16 luglio dello scorso anno:

Mohammad Abu Ismael Odah, 27 anni,
Mohammad Abdullah Zahouq, 23,
Ahmed Adel Nawajha, 23,
Mohammad Abu Taisir Sharab, 23,
Mohammad Sabri ad-Debari, 33,
Farid Mahmoud Abu-Daqqa, 33,
Ashraf Khalil Abu Shanab, 33,
Khadra Al- Abed Salama Abu Daqqa, 65,
Omar Abu Ramadan Daqqa, 24,
Ibrahim Abu Ramadan Daqqa, 10,
Ahed Atef Bakr, 10,
Zakariya Ahed Bakr, 10,
Mohammad Ramiz Bakr, 11,
Ismail Mahmoud Bakr, 9,
Mohammad Kamel Abdul-Rahman , 30,
Husam Shamlakh, 23,
lo sceicco Ejleen,
Osama Mahmoud Al-Astal, 6,
Hussein Abdul-Nasser al-Astal, 23,
Kawthar al-Astal, 70,
Yasmin al-Astal, 4,
Kamal Mohammad Abu Amer, 38,
Akram Mohammad Abu Amer, 34, (fratello di Kamal, feriti nello stesso scoppio, poi nello stesso giorno è morto per le ferite),
Hamza Raed Thary, 6 anni, (è stato ferito qualche giorno prima nell’incidente in cui molti altri compresi bambini, sono stati uccisi ,  mentre giocavano sulla sabbia nella spiaggia di Jabalia),
Abdul-Rahman Ibrahim Khalil as-Sarhi, 37 anni.

Fonte: Palestine Solidarity Campaign UK

Israele ordina la demolizione della metà di un villaggio palestinese dopo il Ramadan

HEBRON (Ma’an)

Israeli watchdogs, Mercoledì (15 LUGLIO), ha riferito che le autorità israeliane hanno ordinato la demolizione delle case in un villaggio a sud di Hebron da svolgere dopo il Ramadan.

MaanImages/Charlie Hoyle, File
MaanImages/Charlie Hoyle, File

Rabbini per i Diritti Umani e B’Tselem, in una dichiarazione, hanno detto che la pressione dei coloni israeliani ha portato alla decisione di eseguire gli ordini di demolizione, nel villaggio di Khirbet Susiya dopo il Ramadan, anche se l’udienza dell’Alta Corte per quanto riguarda il caso è attualmente prevista per il 3 agosto.

L’Amministrazione Civile israeliana, l’esercito israeliano, e il coordinamento delle attività del governo nei Territori (COGAT) hanno annunciato l’ordine di demolizione per gli abitanti del villaggio in una riunione di Domenica.

Khirbet Susiya è stato sotto imminente minaccia di demolizione dal mese di maggio, quando l’Alta Corte israeliana ha approvato la demolizione delle case e tende degli abitanti del villaggio e l’eventuale trasferimento dei 300 residenti beduini nei villaggi circostanti.

Il caso giudiziario è in corso dal 2012,da quando ai residenti di Khirbet Susiya è iniziata l’applicazione da parte dell’amministrazione civile israeliana, di un piano di massima riguardante la parte settentrionale del paese.

Gli abitanti di Susiya hanno riferito che le case sono state costruite nel 1986 sui terreni agricoli di loro proprietà, dopo essere stati cacciati da Israele dalle loro precedenti abitazioni costruite su un terreno dichiarato come sito archeologico.

Gli abitanti del villaggio di Khirbet Susiya situato in Area C, un’area che copre il 60 per cento della Cisgiordania sotto il pieno controllo israeliano, devono richiedere i permessi di costruzione all’Amministrazione Civile Israeliana.

In pratica tra il 2000 e il 2012, solo poche domande fatte da palestinesi per la costruzione o l’ampliamento di strutture già esistenti sono state approvate, solo il sei per cento delle richieste di permesso di costruzione è stato concesso ai palestinesi da parte di Israele.

Impossibilitati ad ottenere il permesso “legale”, i palestinesi si trovano ad affrontare costruzioni illegali o a rinunciare.

Dal 1988 le forze israeliane hanno emesso più del doppio della quantità di ordini di demolizione per i palestinesi in area C rispetto a quelli emessi per gli insediamenti illegali israeliani nella zona.

Come riportato da B’Tselem, i coloni israeliani che, in base alle leggi internazionali, vivono illegalmente nella zona, già controllano oltre 300 ettari del territorio di Khirbet Susiya.
Rabbini per i Diritti Umani sostengono che la nuova minaccia è una forma di coercizione che mira ad espellere i residenti dalla zona già prima dell’udienza in tribunale.

Jihad al-Nawajaa, il capo del consiglio del villaggio di Susiya, ha detto che ai residenti è stato comunicato che saranno evacuati con il pretesto che il paese manca di infrastrutture sufficienti per vivere.

Nel frattempo, il governo israeliano fornisce i servizi necessari per la vicina colonia israeliana di Susiya.

Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA),l’anno scorso Israele ha demolito 590 strutture di proprietà palestinese in Cisgiordania e Gerusalemme Est, spostando 1.177 persone.

L’imminente demolizione di Khirbet Susiya arriva mentre un membri del governo di destra di Israele stanno facendo pressione per l’attuazione di un piano per spostare forzatamente decine di migliaia di beduini palestinesi.

Approvato senza alcuna consultazione con la comunità beduina, il piano prevede lo sfratto di circa 40.000 beduini dai loro villaggi per costringerli a vivere in zone concentrate che i critici chiamano “riserve”.

Israele attualmente si rifiuta di riconoscere 35 villaggi beduini del Negev, che ospitano complessivamente circa 90.000 persone.

Trad. Invictapalestina

fonte: http://www.maannews.com/Content.aspx?id=766507