IL VOLTO ILLIBERALE DI ISRAELE. IN CARCERE UNA POETESSA PALESTINESE. ARRESTATI ARTISTI E INTELLETTUALI
Paolo di Mizio
Dareen Tatour è una poetessa e fotografa palestinese di 33 anni. Nell’ottobre del 2015 la polizia israeliana fece un’irruzione notturna nella sua casa vicino a Nazareth, sfondò la porta e l’arrestò, senza alcun mandato e senza informarla di quale reato fosse accusata. Fu trascinata via in pigiama e non le fu neppure concesso di indossare lo hijab, il velo sulla testa. Solo dopo un mese di prigione le venne comunicato che il suo reato era di “incitamento al terrorismo” per aver pubblicato su YouTube e su Facebook una poesia intitolata ‘Resisti, mio popolo, resisti contro di loro’.
Rischia almeno quattro o cinque anni di prigione per quei versi. La notizia del suo arresto fece scalpore soprattutto in America, dove Jewish Voice for Peace e altre organizzazioni ebraiche che si battono per i diritti umani del popolo palestinese, promossero una petizione che chiedeva la liberazione della poetessa. Il documento fu firmato da 15 mila persone, tra le quali 9 vincitori del Premio Pulitzer e almeno 7 mila scrittori e intellettuali, molti di essi ebrei. Dietro le pressioni internazionali, nel gennaio del 2016 la magistratura israeliana concesse a Dareen Tatour gli arresti domiciliari, sottoposti però a pesanti condizioni: non può mai uscire di casa, non può utilizzare i social media (Facebook, Twitter, ecc.) e deve indossare costantemente una cavigliera elettronica che segnala i suoi movimenti, trattamento di solito riservato a criminali accusati di reati di violenza e non reati d’opinione.
Da allora la poetessa attende il processo, che non è chiaro quando potrà essere celebrato. Non è chiaro neppure in base a quale legge o quale norma del codice penale, perché non esiste in Israele una legislazione formale che stabilisca reati commessi attraverso i social media. Che cos’è ‘l’incitamento’ in un’opera creativa? In sostanza, i giudici dovranno decidere in modo del tutto arbitrario se condannare o assolvere Dareen Tatour.
Questo non è quanto avviene esattamente in uno stato di diritto: avviene soltanto in paesi dittatoriali come per esempio la Corea del Nord, oppure nei regimi teocratici come l’Arabia Saudita o l’Iran. Gli arresti di pensatori e artisti, con eventuale accompagnamento di maltrattamenti e torture, sono ovviamente finalizzati a intimidire e strangolare le voci della dissidenza politica. Attualmente dietro le sbarre in Israele si trovano almeno dodici intellettuali palestinesi, tra i quali l’astrofisico Imad Barghouti, tutti incriminati per aver espresso su Facebook il proprio pensiero sull’occupazione militare israeliana. Facebook è diventato l’unico ‘editore e distributore’ dei palestinesi, dal momento che essi non hanno case editrici e non hanno la possibilità di pubblicare libri.
“In Israele purtroppo la criminalizzazione delle opinioni politiche è diventata tristemente una routine” afferma Mohammad Hamad portavoce di Adalah-NY, un’associazione americana per i diritti umani. Ma la routine non è cominciata ora. Israele non è affatto nuova a queste pratiche di persecuzione del libero pensiero. Centinaia di poeti, scrittori e intellettuali, naturalmente tutti palestinesi o cittadini ‘arabo-israeliani’ (come vengono definiti i palestinesi che risiedono in Galilea e altre zone al di fuori della Cisgiordania e di Gaza) sono finiti in carcere a partire dagli anni ’60, quando venne più volte arrestato il leggendario poeta palestinese Mahmoud Darwish.
Un altro famoso poeta palestinese, Tawfiq Zayyad, comunista, tra un’incarcerazione e l’altra venne eletto alla Knesset, il parlamento israeliano, nel piccolo scaglione riservato alla rappresentanza degli arabo-israeliani. Quando pronunciò un discorso in aula in lingua ebraica – lingua che parlava in maniera non perfetta – un deputato israeliano gli gridò sarcasticamente: “Dove hai imparato l’ebraico?”. Zayyad non si scompose: “Nelle vostre prigioni” rispose. Per tornare alla poetessa Dareen Tatour, ecco la poesia che ha portato al suo arresto per ‘incitamento al terrorismo’. È scritta originariamente in arabo, ma la traduco dalla versione inglese che ne ha fatto il poeta Tariq al Haydar:
Resisti, mio popolo, resisti contro di loro.
A Gerusalemme ho indossato le mie ferite,
Ho respirato i miei dolori
E sul palmo della mano ho portato l’anima
Per una Palestina araba.
Io non soccomberò a quella che chiamano “soluzione pacifica”,
Mai ammainerò le mie bandiere
Finché non li avrò cacciati dalla mia terra.
Conservo le bandiere per un tempo che verrà.
Resisti mio popolo, resisti contro di loro.
Resisti ai saccheggi dei coloni
E segui la carovana dei martiri.
Straccia la vergognosa costituzione
Che ci ha imposto degrado e umiliazione
Che ci ha impedito di restaurare la giustizia.
Essi hanno bruciato vivi bambini innocenti;
E ricorda Hadil: i cecchini la colpirono in strada,
La uccisero nella piena luce del giorno.
Resisti, mio popolo, resisti contro di loro.
Resisti al massacro dei colonizzatori.
Non prestare ascolto ai loro agenti in mezzo a noi
Che ci vogliono incatenare con l’illusione della pace.
Non temere le lingue biforcute;
La verità nei nostri cuori sarà più forte
Fintanto che tu resisterai in una terra
Che è sopravvissuta ad attacchi e vittorie.
Così gridava Alì dalla sua tomba:
Resisti, mio popolo ribelle.
Scrivi le mie parole in prosa sul legno di agar;
Voi siete la risposta delle mie spoglie.
Resisti, mio popolo, resisti contro di loro
Resisti, mio popolo, resisti contro di loro.
Ci vuole molta immaginazione per trovare un qualsiasi “incitamento al terrorismo” in questi versi. Semmai ci si trova il legittimo incitamento alla resistenza contro l’occupazione militare. Ma gli israeliani hanno un’idea del terrorismo che è la stessa idea di tutti i regimi invasori e colonizzatori: i terroristi sono i popoli oppressi che oppongono resistenza all’occupazione militare. Così per gli austro-ungarici erano ‘terroristi’ i patrioti lombardo-veneti, i patrioti polacchi o i patrioti boemi. Per i colonizzatori del Nord America erano ‘terroristi’ i nativi americani (gli indiani) che si battevano per non essere depredati delle loro terre. Per gli italiani erano ‘terroristi’ i resistenti libici ed etiopi, ai tempi dell’Impero.
Per i nazisti erano ‘terroristi’ i militanti della resistenza italiana, francese, olandese o di qualunque altro paese da loro occupato militarmente. La Palestina è invasa e occupata militarmente dal 1967. Israele non ha mai rispettato le risoluzioni dell’ONU che le intimano di ritirarsi dai territori occupati. Anzi ha applicato una costante politica di occupazione illegale, insediando e incrementando senza soluzione di continuità le proprie colonie nei territori occupati. “Resisti, mio popolo, resisti” è incitamento al terrorismo?
Le Convenzioni di Ginevra riconoscono ai popoli invasi e occupati militarmente il diritto di “resistere in qualunque modo e con qualunque strumento”. Ma Israele ritiene di avere totale impunità per le sue condotte illegali e ha sempre considerato carta straccia le Convenzioni di Ginevra, che definiscono i crimini di guerra e fungono da legge internazionale per tutti gli altri paesi del mondo.
Fonte: 18 agosto 2016
Aggiornamento dicembre 2016:
In data 11 ottobre 2015, Dareen Tatour è stata arrestata a Reineh vicino a Nazareth. Successivamente, il 2 novembre 2016, è stata processata presso la Pretura di Israele a Nazareth. E’ stata accusata di “incitamento alla violenza” (ai sensi dell’articolo 144 (d) 2 del codice penale del 1977) e “supporto ad un’organizzazione terroristica” (ai sensi degli articoli 4 (b) e (g) della dell’ordinanza del 1948 per la prevenzione del terrorismo) in relazione alle sue poesie e ai suoi messaggi su Facebook e YouTube. Oggi è agli arresti domiciliari con braccialetto elettronico alla caviglia e divieto di utilizzare internet e i social network.
Fadwa Tuqan: la donna che diede voce alla Palestina, ma non solo
Claudia Negrini
Fadwa Tuqan, “la poetessa della Palestina”. Le sue poesie di impegno, di lotta, di incoraggiamento verso il popolo palestinese, sono ciò per cui ricordiamo e conosciamo la poetessa.
Per me, però, è stato illuminante scoprire che i suoi componimenti su questi temi, non costituiscono la totalità della sua produzione.
Fadwa Tuqan è stata prima di tutto una donna. Una donna che ha lottato per la propria libertà personale e per i propri diritti. Solo dopo ha unito la sua voce alla protesta nei confronti di Israele, in seguito a una ricerca di sé, una presa di coscienza maturata nel corso di buona parte della sua vita.
Inutile dire come questo mi abbia letteralmente conquistato.
Ciò che più mi ha affascinato è stato, sopratutto che la vita della poetessa e le vicende palestinese sembrano non viaggiare sullo stesso binario, ma anzi percorrere direzioni opposte. O almeno fino al 1967.
Mi spiego meglio: Fadwa Tuqan nasce a Nablus nel 1917 (anche se non ci sono dati certi sull’anno esatto) ed essendo nata in una famiglia appartenente all’alta borghesia e per di più conservatrice, la sua libertà era decisamente limitata e ben presto le venne proibito persino di frequentare la scuola.
Negli stessi anni si abbatterono sulla Palestina gli accordi Sykes-Picot e la dichiarazione di Balfour, che diedero il via all’immigrazione ebrea sotto il protettorato inglese, ma che non influirono in maniera diretta sulla vita quotidiana di Nablus, almeno non subito.
Allo stesso tempo la minaccia sionista diede propulsione a movimenti nazionalisti e di emancipazione femminile che permisero alla poetessa di riprendere gli studi.
Arrivò poi la Nakba, la catastrofe del 1948. Nablus rimase sotto il controllo arabo e migliaia di profughi vi si rifugiarono in cerca di protezione. Nello stesso anno morì il padre della Tuqan.
Questa duplice disgrazia, se da un lato gettò la poetessa nello sconforto, le fece acquistare una libertà mai sperimentata prima, grazie all’assenza del padre-padrone e all’impegno sociale e politico che la situazione richiedeva. Le donne palestinesi poterono finalmente unirsi ai combattenti e rivendicare, insieme alla libertà del proprio paese, anche quella personale.
Perciò uno dei momenti più drammatici della storia palestinese, rappresenta per Fadwa Tuqan l’inizio della libertà tanto agognata.
Tutto cambia, come vi dicevo, dopo il 1967, quando ha luogo il terzo conflitto arabo-israeliano, che vede la sconfitta definitiva delle rivendicazioni palestinesi.
È solo da questo momento in poi che la poetessa iniziò a celebrare la Palestina nelle sue poesie. In seguito a quest’ultimo dramma la Tuqan e il suo Paese si riconciliano e iniziano a camminare nella stessa direzione.
Questo percorso si rispecchia perfettamente nella sua produzione poetica.
La poetessa viene iniziata alla poesia dal fratello Ibrahim, anche lui poeta politicamente impegnato nella difesa della Palestina. I primi componimenti di Fadwa Tuqan sono quasi esclusivamente incentrati sul dolore: per l’isolamento in casa, per i lutti familiari (primo fra tutti quello per il fratello Ibrahim, morto giovanissimo). Anche se viene spesso invitata a scrivere per la causa Palestinese sembra che la poetessa non riesca a farsi carico di questo compito.
Quando nel 1948 la libertà fa capolino nella vita della Tuqan, lei ne approfitta a piene mani, ma, quasi come un’adolescente, è inesperta e immatura, sia dal punto di vista personale che politico. Inevitabilmente si rivolge al sentimento che più di tutti le era stato proibito: l’amore. Mai uguale a se stesso, l’amato cambia volto, carattere, ma rimane sempre anonimo.
Nello stesso periodo iniziano i viaggi della poetessa per presenziare a conferenze e incontri sulla poesia. In una di queste occasioni incontrò Salvatore Quasimodo, il quale rimase colpito dalla Tuqan e, probabilmente, le rivolse degli apprezzamenti. La poetessa gli rispose con una poesia intitolata “Lan abi’ hubbahu” (Non venderò il suo amore), in cui declina con ironia le avance del poeta:
Io, poeta mio, ho nella mia cara patria
un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo,
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Ma, ciò nonostante, i sentimenti ed i desideri di donna
mi fanno battere il cuore gioiosamente
al vedere le ombre d’amore negli occhi tuoi
e al sentire il loro desideroso invito.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella!»
Essenziale nella formazione personale e artistica della poetessa fu anche il suo soggiorno in Inghilterra, dove decise anche di iscriversi ad un corso di Lingua e letteratura inglese presso l’Università di Oxford.
La scoperta di un paese diverso dal proprio dove poteva essere molto più libera fu un’esperienza elettrizzante per l’ormai quarantacinquenne Fadwa Tuqan. Dopo qualche anno, però, iniziò a vedere con disillusione anche l’Inghilterra, che dopo l’entusiasmo iniziale, si rivelò un Paese estraneo. Significativa è questa poesia senza titolo:
Brutto tempo; e il nostro cielo è sempre coperto di nebbia.
Ma dì, di dove sei signorina?
Una Spagnola, forse?
– No, sono della Giordania.
– Scusami, della Giordania, dici?Non capisco!
– Sono delle colline di Gerusalemme; della Patria della luce e del sole!
– Oh, oh! Capisco; sei un’ebrea!
Ebrea?
Che pugnalata mi ferì al cuore! Una pugnalata tanto crudele e tanto selvaggia!
Tornata finalmente in Palestina, fu allora che iniziò ad impegnarsi attivamente per il suo Paese e diventò realmente una degli esponenti più significativi della letteratura palestinese.
Vi voglio lasciare con una delle poesie a me più care di questo periodo.
Si intitola Madinati al-hazina (La mia triste città):
Il giorno in cui vedemmo la morte e il tradimento
l’alta marea si ritirò,
e finestre del cielo si chiusero
e la mia città perse il fiato.
Il giorno in cui si ritirarono le onde
e le bruttezze dei precipizi volsero il volto verso il sole,
s’infiammarono gli occhi della speranza
e la mia triste città
si soffocò di tormento.
Sparirono bimbi e canzoni,
non più ombre né più echi,
e la tristezza andava nuda in mezzo alla mia città
s’accovacciò come alte montagne,
come la notte, il silenzio tragico,
appesantito dalla morte e dalla sconfitta.
O mia triste e silenziosa città!
Così, nella stagione della mietitura
s’incendiano messe e frutti?
Ahimè! Che brutta fine del cammino!
Fonte: 13 febbraio 2015/
Fadwa Tuqan: la donna che diede voce alla Palestina, ma non solo