Il suo primo e ultimo viaggio a Gerusalemme.

Il telefono di Mohammad stava suonando, rispose in fretta. Era sua madre: “Sto per arrivare alla barriera israeliana”, disse Mohammad, mentre il cuore di sua madre batteva forte senza che lui avesse modo di tranquillizzarla. “Mamma non chiamarmi adesso perché c’è un checkpoint .” Poi, comprendendo la sua preoccupazione, aggiunse: “Quando arrivo a Gerusalemme ti chiamo ”.

Erano le otto di mattina e lei era molto preoccupata per quello che Mohammad le aveva detto. Era la prima volta che andava a Gerusalemme per visitare la città amata e anche la prima volta che passava da una barriera israeliana. Non potendo aspettare come le aveva chiesto Mohammad, prese la cornetta e pensando: “Forse adesso l’ha passata”, richiamò. Rimase sorpresa del fatto che il telefono del figlio fosse spento. Così, impaurita, si chiese: “Perché non riesco a contattarlo?” Da questo, ciò che mai si sarebbe aspettata.

Tutto ha avuto inizio il 7 dicembre 2016. Mohammad Harb (18 anni) tornava a casa dalla famiglia, partito dal posto dove frequentava un corso di formazione professionale: imparava come lavorare l’alluminio. Era una giornata come tutte le altre, pranzò a casa e poi andò subito in un’officina dove poter praticare tutto quello che aveva imparato, pur senza una ricompensa. Appena fece buio, quella sera, tornò a casa nella foga e nell’affetto della madre che aveva preparato la cena per accogliere il figlio maggiore. Chiamatolo in disparte, gli disse di fare attenzione in quella sua prima visita a Gerusalemme dell’indomani: “Mohammad… Mi raccomando … Hanno picchiato una ragazza alla barriera di Zattra.” (un checkpoint israeliano vicino ad un paesino palestinese chiamato Zattra, attraverso il quale Mohammad sarebbe dovuto passare. Questa barriera si trova a sud della città di Nablus.) Per finire disse: “ Se ti dicono di tornare a casa tua, tu torna qui.” (Nel senso di non cercare di convincerli a lasciarlo passare). “Fai attenzione”, continuava così, quasi esagerando nelle raccomandazioni.

gerusalemme

Era il sogno di Mohammad vedere Gerusalemme anche una sola volta nella vita. L’idea era che lei e l’altro figlio, Omar (16 anni), andassero a Gerusalemme per poi ritrovarsi lì tutti insieme. Aveva dunque chiesto un permesso per Omar e uno per Mohammad, ma non sapeva se il permesso di Omar fosse stato accettato o meno. Stavano cenando quando aggiunse: “Ci incontreremo a Gerusalemme. Non possiamo ancora partire perché Omar non ha ottenuto il visto”. Per questo sarebbe partito solo Mohammad.

L’epilogo della storia. Giovedì 8 dicembre, la madre di Mohammad lo svegliò perché si preparasse per il viaggio. Fece colazione, prima di andarsene baciò la madre che, salutandolo: “Mama, che Dio ti benedica. Chiamo qualcuno che ti porti alla barriera di Zattra?” Ma lui: “No non c’è bisogno. Prenderò un taxi e poi vedrò. O gli israeliani mi lasceranno entrare o mi chiederanno di tornare qui.”

Uscì alle 7:15 e, come detto all’inizio di questa storia, erano le 8 quando la madre lo richiamò. Le domande le si affollavano nella testa, era molto tesa quando un parente le telefonò per sapere come stesse. Chiuse la chiamata molto frettolosamente, il che la fece sospettare. Lo richiamò ma, dicendo di essere impegnato, le rispose: “Ti richiamo più tardi.” L’attesa non durò molto: la notizia era pubblicata su tutti i social. Dopo poco il cognato la richiamò e le disse che i soldati a Zattra avevano ucciso Mohammad.

A detta di alcuni testimoni a Mohammad era stato chiesto di fermarsi quando ancora era lontano dai soldati israeliani. Aveva alzato la sua carta di identità, ma loro l’hanno ucciso a sangue freddo. Amava Gerusalemme e da sempre, anche se solo per una volta, aveva desiderato andarci. Aveva chiesto il permesso innumerevoli volte, ma la barriera della morte era più vicina a lui di quanto non lo fosse quella città. Quel giorno non fu permesso alla madre neppure di vedere il cadavere del figlio, le lacrime le avevano indebolito la voce: “Tutto ciò che desiderava, un giorno di preghiera a Gerusalemme, non ha potuto far parte della sua vita.”.

Un’altra tragedia che segna questa famiglia, dopo che solo un anno prima era stata provata dalla prematura scomparsa del padre, dovuta ad un errore medico durante un’operazione.

Così si chiude la storia di Mohammad, nato nel 1998 e ucciso nel dicembre 2016. Il suo cadavere non è stato riconsegnato che venerdì 23 dicembre.

 

Traduzione:  Saddam Hijazi, giovane laureato palestinese.

Fonte: http://ramallah.news/post/71605/محمد-وحيد-امه-الذي-أعدمه-الاحتلال-في-أول-رحلة-له-للمسجد-الأقصى

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