AFP Publié le 30/12/2016 à 11:47 | AFP
Con “3.000 Notti”, la storia di una donna palestinese che partorisce in carcere e decide di allevare il suo bambino dietro le sbarre – nelle sale mercoledì 4 gennaio – la regista Mai Masri ha scelto di portare uno sguardo al tempo stesso sensibile e femminile sul conflitto israelo-palestinese.
Il film è già stato presentato in numerosi festival in tutto il mondo, dove ha spesso sedotto il pubblico. E, a un certo punto, è stato anche nominato agli Oscar e ai Golden Globes negli Stati Uniti.
Un successo che rallegra Mai Masri, in un momento in cui il destino dei Territori palestinesi “non fa più notizia.” “Attraverso i film dobbiamo ricordare quello che sta succedendo: ci sono ancora 6.000 persone (nelle carceri israeliane) compresi dei bambini”, ha detto la regista in un’intervista a Parigi con AFP.
Senza contare “i palestinesi che sono in una prigione a cielo aperto, soprattutto a Gaza.” “La prigione è una metafora perfetta dei palestinesi sotto occupazione”, continua.
Per la regista il risultato del documentario è che “tutto è politica nella vita, soprattutto quando si tratta di Palestina”. Non ha comunque voluto fare un film politico.
Ha preferito ispirarsi a una storia vera, quella di una donna di Nablus che ha partorito in una prigione israeliana all’inizio degli anni ’80, poco prima dei massacri nei campi di Sabra e Chatila, in Libano.
“Era importante mostrare come l’arrivo di questo bambino cambia l’esperienza del carcere per queste donne. Ho voluto ricreare questa storia cercando di avere momenti di tenerezza, poetici, ma anche di solidarietà perché, all’epoca, si mettevano insieme prigionieri politici e criminali comuni”, ha spiegato Mai Masri.
Censurato a Argenteuil
Il film si concentra su questa comunità di donne di tutte le età e dai percorsi molto diversi. Così, Layal, il personaggio principale – interpretato dall’attrice Maisa Abd Elhadi – è un’insegnante che ottiene otto anni di carcere per aver dato un passaggio ad un giovane uomo sospettato di avere partecipato ad un attentato.
Per rappresentare nella maniera più giusta l’universo carcerario, la regista ha girato in una ex prigione militare in Giordania e portato particolare attenzione alle luci e ai suoni per tradurre al meglio la detenzione.
Si è anche documentata con ex detenuti e grazie a film sul carcere come “Hunger” di Steve McQueen, sui prigionieri dell’IRA o “Un Profeta” del francese Jacques Audiard. Nonostante queste diverse fonti di ispirazione, “alla fine rimane un film ispirato dalla realtà palestinese”.
Presentato in primavera nel quadro del Festival Ciné-Palestine organizzato a Parigi e nella sua periferia, il film ha ricevuto una spinta inaspettata: il municipio di destra di Argenteuil (Val-d’Oise) ha rifiutato di proiettarlo e anche tolto dal programma un altro film sul matrimonio gay.
Un atto di “censura” che “ha creato una reazione contraria e molto positiva”, ricorda divertita la regista. Il suo film alla fine è stato proiettato davanti ad una sala affollata di Argenteuil e ha beneficiato del sostegno di personalità, tra cui il regista Ken Loach.
“Per favore, guardate questo film, guardatelo ora”, aveva lanciato il britannico, appena incoronato della sua seconda Palma d’Oro a Cannes. “E’ un film forte e importante che racconta una storia che tutti noi dovremmo sentire.”
traduzione Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org