Gli americani ancora non riconoscono i palestinesi come persone reali e di conseguenza non si preoccupano di loro.
di James Zogby, presidente Arab American Institute – 25/03/2017
Sono trascorsi 40 anni da quando partecipai alla fondazione della Palestina Human Rights Campaign (PHRC) e scrissi “Palestinesi, le vittime invisibili”. Ero preoccupato dal fatto che nella mente americana il conflitto israelo-palestinese fosse ridotto a una semplice equazione: umanità israeliana contro problema palestinese.
Quando la maggior parte degli americani pensava al conflitto riusciva a vedere negli israeliani persone come noi. Erano genitori che amavano le loro famiglie. Volevano quello che noi volevamo – pace, prosperità e la possibilità di guardare i propri figli crescere e realizzare i loro sogni. Avevano nomi e volti. Avevano sperimentato il dolore e la perdita. Erano reali.
I palestinesi, al contrario, erano, nella migliore delle ipotesi, presentati come un’astrazione. Erano oggettivati in una massa senza volto, senza nomi o personalità. Quando se ne parlava erano solo profughi o terroristi o, dopo un conflitto, meri numeri in un conteggio di corpi. Non li conoscevamo come singole persone e quello che riuscivamo a sapere veniva divulgato con stereotipi negativi. Le uniche emozioni che si attribuivano ai palestinesi erano quelle di gente arrabbiata e violenta di cui non potersi fidare. Non erano persone da sostenere, ma un problema da risolvere.
E’ stato attraverso questa lente che la maggior parte degli americani, sia i responsabili politici che il pubblico, in generale, ha visto il conflitto. Quando si è data la scelta tra un popolo o un problema, è stato facile scegliere l’appello a sostenere il popolo di Israele.
Questo inquadramento del problema non è stato casuale, piuttosto il risultato di una campagna sistematica di disumanizzazione di una parte mentre si andava umanizzando l’altra. E’ stato ben fissato nel film di propaganda del 1960 ‘L’esodo’, che traspose la narrazione popolare americana dei pionieri nei confronti degli indiani nella storia degli “israeliani coraggiosi” che combattono i selvaggi “nativi arabi”.
Nel corso dei decenni successivi questo genere di inquadramento del conflitto è continuato. Nel 1981, riferii sulla copertura che i notiziari televisivi avevano dato di uno scontro transfrontaliero tra Israele e l’OLP in Libano. Il primo giorno furono uccisi due israeliani. Le telecamere erano lì a intervistare i membri in lacrime della famiglia che raccontavano la loro storia di paura e dolore. I jet israeliani il giorno dopo bombardarono il quartiere Fakhani a Beirut ovest uccidendo oltre 383 civili fra libanesi e palestinesi. Quella notte, le telecamere erano di nuovo nel nord di Israele con ulteriori interviste. Non ci fu alcuna copertura del Libano, solo i rapporti di un conteggio di corpi arabi. Quando il giorno dopo si ebbe la copertura televisiva, il reporter si trovava in fondo a una strada bombardata per mostrare un’impressionante distruzione. Nessuno fu intervistato, si disse: no storie personali. In Israele la storia era la gente, in Libano furono gli edifici e una conta dei morti.
Nel 1994, quando Baruch Goldstein, un giovane terrorista americano-israeliano massacrò 29 fedeli musulmani in una moschea di Hebron, il Washington Post fece un pezzo importante per cercare di capire cosa avesse potuto portare il giovane alla violenza. I volti, i nomi e le età delle vittime palestinesi non furono mai pubblicati. Goldstein era la storia; le sue vittime erano invisibili. Pochi anni dopo un bambino israeliano di tre mesi fu ucciso da un cecchino palestinese. La storia rimase notizia da prima pagina per tre giorni con immagini e interviste ai genitori in lacrime. Quando, pochi giorni dopo, un bambino palestinese di 3 giorni fu assassinato da un cecchino israeliano nessun grande giornale riportò la storia. Il fatto fu riferito soltanto nella settima riga di una scarna agenzia stampa.
Nessun nome venne riportato e i genitori non furono intervistati. Era come se il loro bambino e il loro dolore non avessero importanza.
L’invisibilità e / o oggettivazione palestinese continua tutt’oggi a definire il conflitto. Anche le voci più progressiste nel Congresso non parlano di palestinesi, mentre difendono una “soluzione dei due Stati” per preservare Israele come uno Stato democratico ebraico. Un gruppo liberale pro-Israele mette periodicamente annunci a piena pagina sul New York Times e il Washington Post in cui si fa appello ai due stati con l’argomento osceno della minaccia demografica all’ebraicità di Israele posta dal tasso di natalità palestinese.
Purtroppo, spesso, i progressisti contribuiscono inconsapevolmente a tutto questo omettendo di rendere dignità all’umanità palestinese. I loro sforzi si concentrano sulla condanna delle politiche israeliane (che, senza dubbio, meritano una condanna), facendo appello al boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro lo Stato di Israele. Pur appoggiando il BDS, temo che a volte la ragione per il BDS sia riportata senza raccontare le storie personali delle vittime palestinesi dell’occupazione. Invece di dare dignità ai palestinesi, l’obiettivo diventa punire Israele.
E così il problema rimane – gli americani ancora non riconoscono i palestinesi come persone reali e, di conseguenza, non si preoccupano di loro. Poiché questa rimane la sfida che abbiamo di fronte, ho deciso che 100 anni dopo Balfour, 70 anni dopo la partizione, e 50 anni dopo la guerra del 1967, tornerò alle mie radici per raccontare la storia palestinese. Per fare ciò inevitabilmente occorre confrontarsi con la narrazione sionista che ha negato non solo l’umanità palestinese, ma la loro stessa esistenza come popolo con una storia. Voglio dare dignità a poeti e artisti palestinesi. Voglio spendere le mie energie dando dignità alla narrazione palestinese, mettendo carne sulle ossa dell’esperienza palestinese e stimolare gli americani a riconoscere i palestinesi come persone reali che desiderano e meritano giustizia, uguaglianza, pace, prosperità e come genitori che amano le proprie famiglie e che vogliono vedere i loro figli crescere e realizzare i loro sogni.
Alcuni potrebbero trovare tutto questo minaccioso perché sfida l’equazione fondamentalmente razzista che per un secolo ha definito questo conflitto. Pazienza.
Traduzione Simonetta Lambertini – invictapalestina.org
fonte: http://www.huffingtonpost.com/entry/elevating palestinians_us_58d5a248e4b06c3d3d3e6dbe