In un suo post su Facebook Susan Abulhawa, l’autrice palestinese del bellissimo “Ogni mattina a Jenin” definisce Uri Avnery, il pacifista israeliano e autore dell’articolo che segue “uomo stupido che disperatamente cerca di rimanere rilevante.” Lo definisce anche razzista con un disprezzo per i palestinesi pari forse al suo disprezzo per ” milioni di lavoratori cinesi”, altre “entità non umane” che israele potrebbe portare dalla Cina per farli lavorare.
Susan Abulhawa scrive ancora: Uri Avnery descrive la Palestina della scrittrice/intellettuale Diana Buttu “Patria del genitore”, come se non fosse la sua – un modo di dire piuttosto ironico per un colonizzatore.
03/06/17 – Uri Avnery
QUALCHE giorno fa, una non molto conosciuta donna palestinese ha ricevuto un premio insolito. Un suo articolo (trad. da Miriam Zatari) è stato pubblicato all’inizio della prima pagina del giornale più autorevole della terra: il New York Times. Gli editori hanno definito la scrittrice, Diana Buttu, come: “un’avvocatessa e precedentemente consigliera della squadra di negoziazione dell’OLP”.
Ho conosciuto Diana Buttu quando apparve per la prima volta sulla scena palestinese, nel 2000, agli inizi della seconda intifada. È nata in Canada, figlia di immigranti palestinesi che con gran sforzo hanno cercato di adattarsi a una nuova terra, e ha ricevuto una buona educazione canadese.
Quando la lotta nei territori occupati si fece più intensa lei tornò nella terra dei suoi genitori. I partecipanti palestinesi alle negoziazioni con Israele, iniziate dopo gli accordi di Oslo, rimasero impressionati dalla giovane avvocatessa che parlava un inglese eccellente, – qualcosa di raro – e le chiesero di unirsi allo sforzo nazionale. Quando le negoziazioni morirono clinicamente, Diana Buttu scomparve dai miei occhi. Fino alla sua apparizione drammatica della scorsa settimana.
L’importanza che gli editori americani hanno attribuito alla sua discussione è dimostrata dal posto riservatole nel giornale. Un titolo dell’articolo era “Abbiamo bisogno dell’Autorità palestinese?” e più avanti, un altro era “Smantellare l’autorità palestinese”.
L’argomento di Diana Buttu seduce per la sua semplicità: l’utilità dell’Autorità palestinese è cosa passata. Deve essere liquidata. Ora. L’Autorità palestinese, dice, è stata stabilita per uno scopo preciso: per negoziare con Israele la fine dell’occupazione e la creazione del tanto sperato stato palestinese. Per sua natura, fu un qualcosa di limitato temporalmente. Secondo gli accordi di Oslo, le negoziazioni per la fine dell’occupazione avrebbero dovuto raggiungere il proprio obiettivo nel 1999. Da allora, sono passati 18 anni senza che alcun passo sia stato fatto verso una soluzione. La sola cosa a muoversi furono gli insediamenti, che han raggiunto ora dimensioni mostruose.
In queste circostanze, dice Buttu, l’Autorità palestinese è diventata un “subappaltatore” dell’occupazione. L’Autorità aiuta Israele a opprimere i palestinesi. È vero che tende a impiegare un gran numero di personale educativo e medico, ma più di un terzo del suo budget economico – circa 4 miliardi di dollari – va alla “sicurezza”.
Le forze di sicurezza palestinesi mantengono una cooperazione stretta con i loro colleghi israeliani. Ciò vuol dire che contribuiscono a mantenere lo stato di occupazione. Inoltre, Buttu denuncia la mancanza di democrazia. Per 12 anni nessuna elezione si è mai svolta. Mahmoud Abbas (Abu Mazen) governa in contraddizione alla Legge Fondamentale Palestinese. La sua soluzione è semplice: <<è tempo di abolire l’Autorità, per restituire la responsabilità dell’occupazione del popolo palestinese agli occupanti israeliani e adottare “una nuova strategia palestinese”>>.
Quale strategia esattamente? Fino a questo punto, le argomentazioni di Buttu sono lucide e logiche. Ma da qui in poi diventano poco chiare e offuscate.
PRIMA DI andare avanti, devo fare qualche commento personale. Sono un israeliano. Mi definisco come un patriota israeliano. Come figlio di una nazione occupante non penso che abbiamo il diritto di dare consigli a una nazione occupata. Vero, ho dedicato i miei 79 anni di vita al raggiungimento della pace tra due nazioni – una pace che, credo, sia di necessità esistenziale per entrambe. E dalla fine della guerra del 1948 predico la creazione di uno stato palestinese accanto allo stato israeliano. Alcuni dei miei nemici nella estrema destra israeliana mi accusano addirittura di avere inventato “la soluzione a due Stati” (dunque meritando il titolo di “traditore”).
Al posto di tutto questo, mi sono sempre astenuto dal dare consigli ai palestinesi.
Anche se Yasser Arafat dichiarò più volte pubblicamente come io fossi “suo amico”, non mi sono mai visto come un consigliere.
Ho espresso i miei punti di vista, spesso in presenza dei Palestinesi, ma da quel punto al dare consigli, la distanza è notevole.
Anche adesso, non sono pronto a dare consigli ai palestinesi in generale e a Diana Buttu in particolare. Mi prendo però la libertà di fare qualche commento alla sua proposta rivoluzionaria. Leggendo il suo articolo per la seconda o terza volta, ricevo l’impressione che contenga una sproporzione tra la diagnosi e la medicina.
CHE COSA propone di fare ai palestinesi? Il primo passo è chiaro: smantellare l’Autorità palestinese e restituire tutti gli organi dell’autogoverno palestinese al governo militare israeliano. Questo è semplice. Ma poi? Diana Buttu fa alcune proposte generiche. “Una protesta di massa non-violenta”, “boicottaggio, disinvestimento e sanzioni”, “affrontare i diritti dei profughi palestinesi (dalla guerra del 1948) e “dei cittadini palestinesi d’Israele”.
Afferma poi, con approvazione, che già più di un terzo del popolo palestinese nei territori occupati supporta la soluzione di un singolo Stato –inteso come uno stato binazionale.
Con il dovuto rispetto, tutti questi rimedi –tutti quanti e ciascuno separatamente- libereranno il popolo palestinese? Non vi è prova che lo faranno.
L’esperienza mostra che è facile per le autorità dell’occupazione trasformare una “protesta di massa non violenta” in una estremamente violenta. Questo è accaduto in entrambe le intifada, specialmente nella seconda. Ha iniziato con azioni non violente, e poi le autorità dell’occupazione hanno chiamato i cecchini. Dopo pochi giorni l’Intifada diventò violenta. L’uso del boicottaggio? Vi è ora un ampio movimento BDS contro Israele. Il governo israeliano ne ha paura e lotta contro esso con tutti i mezzi possibili, inclusi quelli ridicoli. Ma questa paura non emerge dai danni economici che il movimento può causare, ma dal danno che può causare all’immagine di Israele. Questa immagine può danneggiare, ma non uccide. Come molti altri, Buttu usa qui l’esempio del Sud Africa. È un esempio immaginario. Il boicottaggio mondiale fu notevole, ma non pose fine al regime di apartheid.
Questa è un’illusione occidentale, che riflette il disprezzo per i “nativi”. Il regime razzista in Sud Africa non fu abbattuto dagli stranieri, ma da quei disprezzati “nativi”. I neri iniziarono campagne di lotta armata (sì, il grande Nelson Mandela era un “terrorista”) e scioperi di massa, che hanno strozzato l’economia. Il boicottaggio internazionale ha giocato un ruolo di supporto. Buttu ha grandi speranze per i “boicottaggi palestinesi”.
Ma possono, questi, davvero danneggiare l’economia israeliana? Uno può sempre portare dalla Cina un milione di lavoratori.
Buttu menziona anche la corte internazionale dell’Aia. Il problema è che la psicologia ebraica è indurita contro “la giustizia dei gentili”. Non sono tutti antisemiti? Israele sputa su di loro, così come sulla risoluzione ONU.
COSA rimane?
Vi è solo un’alternativa, quella che Buttu saggiamente si astiene dal menzionare: il terrorismo. Molte persone nella storia hanno iniziato guerre di liberazione, violente lotte contro i loro oppressori. Nel gergo israeliano questo è chiamato “terrore”. Ignoriamo per un momento l’aspetto ideologico e concentriamoci solamente su quello pratico: può uno credere che una campagna “terrorista” svolta dalla popolazione occupata contro quella occupante possa, in circostanze esistenti, riuscire? Dubito.
Ne dubito molto. I servizi di sicurezza israeliani hanno mostrato, finora, una considerevole abilità nel lottare contro la resistenza armata.
Se dunque è così, cosa rimane da fare ai palestinesi? In una parola: resistere. E qui si trova il talento speciale di Mahmoud Abbas. Lui è un ottima personalità per farlo. Per guidare un popolo che passa un terribile calvario, un’esperienza di sofferenza e umiliazione, senza arrendersi. Abbas non si arrende. Se qualcuno prenderà il suo posto, da qualche parte nel futuro, non si arrenderà nemmeno lui. Nemmeno Marwan Barghouti, per esempio.
Da giovane ero membro dell’Irgun, un’organizzazione militare segreta. Durante la seconda Guerra Mondiale, la mia compagnia organizzò un processo per il maresciallo Philippe Petain, che era diventato capo del governo francese dopo il collasso.
Questo “governo” era localizzato a Vichy e prendeva ordini dall’occupazione tedesca. Contro la mia volontà, fui nominato avvocato per la difesa. Presi il lavoro seriamente e, con mia sorpresa, scoprii che Petain possedeva una sua logica. Aveva salvato Parigi dalla distruzione e reso possibile la sopravvivenza della maggior parte dei francesi sotto l’occupazione. Quando l’impero nazista cadde, la Francia, sotto Charles De Gaulle, si unì ai vincitori.
Di certo, Diana Buttu non si riferisce a questo esempio storico carico di implicazioni emotive. Ma uno deve ricordare. POCHI giorni prima della pubblicazione dell’articolo di Buttu, un leader della destra fascista israeliana, Betsalel Smotrich, un vice presidente della Knesset, pubblicò un ultimatum per i palestinesi.
Smotrich propose di mettere i palestinesi davanti a una scelta tra tre possibilità: lasciare il paese, vivere all’interno del paese senza diritti di cittadinanza o rivoltarsi, prendendo le armi – così poi, l’esercito israeliano “avrebbe saputo come comportarsi con loro”.
In parole povere: la scelta è tra
(a) l’espulsione di massa di sette milioni di Palestinesi dalla West Bank (inclusa Gerusalemme est), Israele e la Striscia di Gaza, che sarebbe un Genocidio,
(b) vivere come schiavi sotto un regime di apartheid,
(c) semplicemente un genocidio.
La non chiara proposta di Buttu costituisce, in pratica, la seconda opzione. Lei dice che molti palestinesi approvano la “soluzione a uno stato”. Sfugge poi a qualsiasi lucida dichiarazione nascondendosi dietro una formula che è diventata di moda in questi giorni: “due stati o uno stato”. Piuttosto come : “nuotare o affogare”. Questo è suicidio.
Un suicidio drammatico. Glorioso. Niente di meno che un suicidio. Sia Buttu che Smotrich portano al disastro. Dopo tutti questi anni, l’unica soluzione pratica rimane quella iniziale: due stati per sue popoli. Due stati che vivranno fianco a fianco in pace, forse anche in amicizia. Non c’è altra soluzione.
trad. Miriam Zatari – Giovani palestinesi Torino – Invictapalestina.org
Fonte: http://zope.gush-shalom.org/home/en/channels/avnery/1496406745/
Uri Avneri è un vero pacifista e nessuno potrà mai negargli i suoi meriti guadagnati in decenni di lotte! Ha alle spalle una passato invidiabile che lo pone al riparo di ogni critica!