Sciopero della fame – Un’attivista palestinese riflette sui 33 giorni di sciopero che condusse il padre 37 anni fa all’interno delle carceri israeliane.
Foto copertina: Ismail Abusalama e i suoi compagni riuscirono a sopravvivere al calvario, perché erano convinti che “la loro causa era giusta”.
30 MAY 2017 – Shahd Abusalama (*)
Circa 1500 prigionieri politici palestinesi hanno raggiunto il loro trentanovesimo giorno di sciopero della fame all’interno delle carceri israeliane. I prigionieri richiedono alcuni dei fondamentali diritti dell’uomo, come la possibilità di ricevere visite dai propri familiari due volte al mese.
I prigionieri palestinesi condussero scioperi della fame come metodo di protesta non violenta sin dal 1968, dopo l’occupazione da parte di Israele dei rimanenti territori palestinesi della West Bank, di Gerusalemme est e della striscia di Gaza. Alcuni di questi scioperi ottennero con successo gli esiti sperati, altri invece fallirono.
Qui, l’attivista e scrittrice Shahd Abusalama riflette sull’esperienza del padre, che partecipò, circa quarant’anni fa, a uno sciopero della fame collettivo dentro una prigione israeliana.
“Se non avessimo resistito, attraverso gli scioperi della fame collettivi, saremmo ancora ridotti come degli schiavi, nel Medioevo”,
Questo è ciò che mio padre Ismail mi disse in una chiamata via Skype, dopo che insistetti perché mi raccontasse le memorie dei suoi trentatré giorni di digiuno, durante il leggendario sciopero della fame di “Nafha”, a cui partecipò trentasette anni prima.
I suoi ricordi risuonavano in modo tremendamente vivido e dettagliato nonostante fossero lontani. I suoi occhi erano fissi sul soffitto della sua camera nella casa a Gaza, mentre si tormentava il mento come se stesse rivivendo ciò che stava raccontando. Il linguaggio del suo corpo evocava un’ansia repressa.
Nel 1980, il mio papà, allora ventisettenne, era nelle carceri israeliane da 10 anni, che sembravano banali rispetto alle sette condanne a vita che gli erano state inflitte per la sua affiliazione al gruppo del Fronte Popolare per la Liberazione del Palestinese (PFLP)
Avrebbe definitivamente terminato i suoi giorni nelle carceri israeliane, se non avesse fatto parte dello scambio dei prigionieri del 1985 – Approfondimento (accordo Jibril). Lui fu infatti uno degli 80 prigionieri politici palestinesi che furono trasferiti dalla nuova prigione di Nafha, nel Naqab (Negev) in cui le condizioni di vita erano estremamente dure.
“Dopo nove giorni dall’inizio del nostro sciopero, 26 dei nostri compagni furono rinchiusi a forza all’interno di gabbie di ferro in un furgone, intossicati con il gas, e portati in quello che sembrava essere un viaggio della morte verso un luogo ignoto”
Ismail Abusalama, ex- scioperante palestinese
“Era una prigione nel deserto, ricordava mio padre – mille metri sopra il livello del mare – “ciò significava che era di un caldo infernale d’estate e freddissimo d’inverno”.
“Era formata da celle strette che non vedevano il sole, ciascuna con una minuscola finestrella rettangolare semiaperta, appena sotto il soffitto e una porta di metallo con una fessura esterna controllata dalle guardie carcerarie.”
“Ciascuna cella, che sarebbe stata adatta al massimo per due persone, ne ospitava almeno otto; ci era concessa al giorno solamente una passeggiata di mezz’ora al di fuori di quelle sbarre, in un cortile di nemmeno 400 metri quadri circondato dal filo spinato. Non ci era permesso camminare in gruppo; ma esclusivamente da soli o al massimo a coppie, e noi camminavamo in cerchio perennemente sotto il duro sguardo dei soldati israeliani.”
Le autorità israeliane avevano scelto gli 80 detenuti trasferiti a Nafha tra migliaia di prigionieri palestinesi. Questi 80 erano ritenuti i prigionieri più testardi.
Il Servizio delle Prigioni Israeliane (IPS) aveva considerato che il trasferimento dei prigionieri per motivi “disciplinari” avrebbe posto fine alla loro resistenza, frammentandola. Gli stessi prigionieri temevano che il successo di questa azione “disciplinare” avrebbe vanificato tutti i risultati raggiunti dai detenuti prima del 1980 e avrebbe determinato la creazione di un precedente che sarebbe stato applicato ad altri detenuti palestinesi.
“Così, dal primo giorno nella prigione di Nafha, abbiamo capito che avevamo bisogno di reagire a questa oppressione” disse mio padre. “l’alternativa era una sentenza di morte”
Nei giorni immediatamente precedenti allo sciopero, i detenuti stesero una lista di richieste che sottoposero poi all’amministrazione carceraria. La maggior parte di quelle domande vennero rifiutate. “A quel punto, ci rendemmo conto che lo sciopero della fame sarebbe stato la nostra unica via di scampo”.
I prigionieri lanciarono uno sciopero della fame il 14 luglio, stessa data in cui dalla Bastiglia nel 1789 partì la Rivoluzione francese. Questa fu l’idea di Omar al-Qassem, membro leader del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (DFLP). Qassem morì in prigione nel 1989: era rimasto rinchiuso per 21 anni.
Le richieste fatte da mio padre e i suoi compagni erano molto simili a quelle dello sciopero di questo aprile 2017. Tutte legate ai diritti umani essenziali che Israele ha violato con persistenza.
Le richieste vertevano sulla fine di ciò che era una punizione individuale e collettiva, in particolare :
- la fine dell’uso dell’isolamento
- la sostituzione dei pezzi di spugna su cui dormire con dei letti appropriati, con fornitura di lenzuola, vestiti estivi e invernali
- concessione delle visite dei familiari due volte al mese
- pasti nelle mense della prigione in qualità e in quantità pari a quelli dei prigionieri ebrei
- avere accesso a riviste e libri
- l’ingrandimento delle finestre delle celle
- l’estensione della durata della passeggiata da mezz’ora a un’ora.
Anche se si trattava di richieste semplici, mio padre sottolineava come la loro importanza fosse vitale per qualcuno costretto a sopravvivere in modo indefinito in una cella.
Ogni volta che i palestinesi condussero uno sciopero della fame, le autorità israeliane risposero con la punizione collettiva. Lo sciopero della fame di Nafha non fu un’ eccezione.
“Nove giorni dopo l’inizio dello sciopero, 26 dei nostri compagni vennero rinchiusi in una gabbia su un camion, intossicati col gas, e condotti verso quello che sembrava essere un viaggio della morte, verso una meta sconosciuta” disse mio padre. Quel posto venne in seguito identificato con la prigione di Ramla, una città presso l’odierna Israele.
Il gas faceva tossire i prigionieri incappucciati e incatenati.
A Ramla, i palestinesi “venivano accolti’ dalle guardie carcerarie israeliane disposte in due gruppi su entrambi i lati del carcere, a colpi di manganello” raccontava mio padre. Le percosse continuarono anche in seguito.
Tra quei 26 prigionieri c’erano Rasem Halawa, Ali al-Jafari and Isaac Maragha, che morirono pochi giorni dopo nella clinica della prigione, in seguito all’alimentazione forzata.
“Gli israeliani tentarono più volte di spezzare il nostro sciopero della fame, raccontava mio padre.”
“Ma loro [le autorità israeliane] non ci riuscirono né con quei 26 prigionieri, né con noi. Noi rispondevamo con più testardaggine, fino a quando raggiungemmo, 33 giorni dopo, l’agognata vittoria.”
L’IPS ha fatto spesso ricorso all’alimentazione forzata degli scioperanti palestinesi nonostante la pratica sia vietata dall’Alta Corte di Giustizia israeliana. Il Ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan ha condotto una campagna per revocare il divieto e legittimare la pratica dell’alimentazione forzata per evitare futuri scioperi della fame, descritti come “una nuova forma di terrorismo che intacca la sicurezza di Israele.”
Alcuni dottori israeliani hanno rifiutato di esser coinvolti nella pratica dell’alimentazione forzata perché “non ritenuta una pratica etica”.
Israele sta considerando di ingaggiare dottori stranieri per tale pratica con il pretesto di voler “proteggere le vite palestinesi”.
Dopo 18 giorni di digiuno, mio padre fu costretto a scegliere tra il mangiare o un dispositivo chiamato “zonda”, che consisteva in un contenitore collegato a un tubo lungo tanto da arrivare dal naso o dalla bocca fino allo stomaco.
La “zonda” era sporca e “ogni errore avrebbe portato alla morte”, disse mio padre. “Sembrava che fosse stata immersa nel liquame. Veniva usata per tutti i prigionieri senza essere lavata. Le guardie carcerarie pensavano che fosse una maniera abbastanza valida per disgustare i prigionieri al punto da fargli accettare il cibo”.
Mio padre riuscì a resistere alle pressioni psicologiche e a quel punto un’infermiera israeliana lo forzò all’alimentazione mentre le sue mani e i suoi piedi erano incatenati alla sedia.
Come sono sopravvissuti mio padre e i suoi compagni a questo calvario? Vi riuscirono perché convinti che “la loro causa fosse giusta” e perché il supporto che ricevevano dalle persone fuori “nutriva la nostra determinazione”.
Mio padre sta con i palestinesi che ora rifiutano il cibo.
Ogni giorno, va in una tenda a Gaza che è stata eretta in solidarietà con gli scioperanti della fame.
La campagna internazionale è vitale per “rendere la lotta per la dignità dei detenuti più breve”, pensa mio padre. “la frequenza degli scioperi nelle carceri israeliane è un testamento della loro disperazione”.
Trad. Miriam Zatari – giovani palestinesi Torino – Invictapalestina.org
Fonte: http://www.aljazeera.com/indepth/features/2017/05/father-survived-hunger-strike-israel-170523063347512.html