ISIS: in un mondo senza frontiere, i giorni delle guerre combattute da lontano nella sicurezza della propria casa sono ormai una cosa del passato.

L’ISIS ha subito capito la realtà che l’Occidente deve affrontare, i confini nazionali imposti dalle potenze coloniali 100 anni fa stanno diventando insignificanti, dice Robert Fisk.

Robert Fisk  Novembre 2015

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All’inizio del 2014, L’ISIS ha pubblicato uno dei suoi primi video. Generalmente non valutato attentamente in Europa, non era  prodotto con professionalità e fluidità e senza  “Nasheed”, la musica ossessionante che spesso accompagna la sua propaganda. C’era invece, una videocamera tenuta  a mano che mostrava un bulldozer  che demoliva un bastione di sabbia che segnava il confine tra Iraq e Siria. Mentre la macchina distruggeva un muro di sostegno, la videocamera inquadrava un manifesto scritto a mano sulla sabbia con scritto “End of Sykes-Picot”.

Come molte centinaia di migliaia di arabi in Medio Oriente, per il quale Sykes-Picot era un’espressione quasi cancerogena, io guardavo questo video  a Beirut. Le ripercussioni sanguinose delle frontiere che i diplomatici britannici e francesi, Mark Sykes e François Georges-Picot, tracciarono in segreto durante la prima guerra mondiale – in origine assegnando Siria, Mount Lebanon e il nord dell’Iraq ai francesi, e la Palestina, Transgiordania e il resto dell’Iraq agli inglesi – sono noti ad ogni arabo, cristiani e musulmani e, in effetti, a ogni Ebreo nella regione.

Essi distruggendo i governatorati del vecchio impero ottomano morente crearono nazioni artificiali in cui i confini, torri di controllo e colline di sabbia separavano le tribù, le famiglie e i popoli. Era questo il risultato coloniale anglo-francese.

La stessa notte che vidi il primo video dell’ISIS, ero insieme al leader libanese druso, Walid Jumblatt. “La fine di Sykes-Picot!» Ruggì verso di me. “Spazzatura” Io replicai. Ma, naturalmente, mi sbagliavo e Jumblatt aveva ragione. Aveva notato subito come ISIS catturò simbolicamente – ma con una velocità quasi mozzafiato – quello che tanti arabi avevano cercato per quasi esattamente 100 anni: lo smantellamento dei falsi confini con cui i vincitori della prima guerra mondiale – in gran parte inglesi e francesi – avevano diviso il popolo arabo.

E ‘stato il nostro progetto coloniale – non solo abbiamo imposto le frontiere, ma fraudolentemente abbiamo imposto anche le amministrazioni e le false democrazie, i mandati e le amministrazioni fiduciarie che ci hanno permesso di escluderli – che hanno avvelenato la loro vita. Colin Powell ha sostenuto proprio questa amministrazione fiduciaria per il petrolio iracheno prima dell’invasione anglo-americana illegale del 2003.

Abbiamo imposto agli arabi i loro Re – abbiamo ingegnerizzato un referendum che ha prodotto il 96% di consensi a favore dell’ hashemita re Faisal in Iraq nel 1922 – e poi abbiamo favorito generali e dittatori. Il popolo della Libia, della Siria, dell’Iraq e dell’Egitto – che erano stati invasi dagli inglesi nel 19° secolo – sono stati successivamente beatificati con i governi mendaci, poliziotti brutali, giornali bugiardi e false elezioni. Mubarak è stato eletto addirittura superando il   96%  di Re  Faisal. Per gli arabi, “democrazia” non significava  libertà di parola e  libertà di eleggere i propri leader; “democracy” diventa un termine riferito  alle nazioni occidentali  che continuavano a sostenere i dittatori crudeli che li opprimevano.

Così le rivoluzioni arabe avvenute nel Medio Oriente nel 2011 – dimenticare il termine “primavera araba”, una creatura di origine Hollywoodiana – non chiedevano  democrazia. I manifesti per le strade del Cairo, di Tunisi, di Damasco e dello Yemen chiedevano dignità e giustizia, due cose importanti per gli arabi. Giustizia per i palestinesi – o per i curdi, o interesse per lo sterminio degli armeni del 1915, o per tutti i popoli arabi che soffrono – non era qualcosa che elogiavamo. Ma penso che saremmo dovuti andare molto più in là nella nostra indagine per capire i cambiamenti titanici del 2011.

Nella mia analisi delle rivolte,  ho attribuito  la causa dell’emancipazione a una maggiore istruzione, ai  viaggi   delle comunità arabe in tutto il Medio Oriente. Pur riconoscendo il potere dei social media e di Internet, stava maturando qualcosa di più profondo. Gli Arabi si erano svegliati da un sonno profondo. Non volevano più essere i “figli” di figure patriarcali e paternaliste, i vari vari Nasser, i Sadat, i Mubarak, gli Assad, i Gheddafi e, nei primi anni, i Saddam. Si erano svegliati e avevano capito che erano i loro governi a essere composti da figure infantili, più bambini che padri, una delle quali, Mubarak, aveva 83 anni. Gli arabi volevano possedere le loro città. Volevano proprio il luogo in cui vivevano, che comprendeva gran parte del Medio Oriente.


Ma penso che  mi ero sbagliato. Col senno di poi, ho tristemente frainteso quello che queste rivoluzioni rappresentavano. Un indizio, forse, sta nel l’importanza dei movimenti sindacali. Dove i sindacati, con il loro socialismo transnazionale e le lotte anti-coloniali, erano forti – in Egitto e Tunisia – lo spargimento di sangue rivoluzionario è stato inferiore rispetto alle nazioni dov’erano  vietati  – la Libia, per esempio – paesi nei quali il movimento sindacale era filo regime, come da tempo era avvenuto in Siria e Yemen. Il socialismo ha attraversato i confini. Ma anche questo non spiega gli eventi del 2011.

Ciò che veramente si è manifestata in quell’anno, ora credo, era una convinzione araba molto più profondamente radicata; che le istituzioni che l’Occidente aveva costruito per questi popoli   100 anni fa erano senza valore, che la statualità che avevamo poi assegnato alle nazioni artificiali all’interno di frontiere altrettanto artificiali non aveva  senso. Stavano rifiutando l’intero progetto che noi avevamo imposto sulle loro terre.

Che l’Egitto era nuovamente regredito  nel patriarcato militare – e la successiva acquiescenza occidentale era assolutamente prevedibile  – dopo un breve periodo di governo eletto dai Fratelli Musulmani, non cambia questa equazione. Mentre le rivoluzioni in gran parte sono rimaste all’interno dei confini nazionali – almeno all’inizio – i confini hanno incominciato  a perdere il loro significato.

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Hamas a Gaza e la Fratellanza si unificarono, la frontiera Sinai-Gaza incomiciò a sgretolarsi. Poi il crollo della Libia rese i precedenti confini di Gheddafi aperti – e quindi inesistenti. Le sue armi – comprese le armi chimiche – vendute ai ribelli in Egitto e in Siria. La Tunisia, che ora dovrebbe essere il beniamino dei nostri cuori occidentali per la sua adesione alla “democrazia”, ​​è ora in pericolo di implosione, perché i suoi propri confini con Libia e Algeria sono aperti a traffici di armi verso i gruppi islamici. La presa dell’ISIS di queste entità senza frontiere significa che la sua stessa esistenza transnazionale è assicurata, da Fallujah in Iraq fino al bordo della Siria Aleppo, dalla Nigeria al Niger e il Ciad.

Può quindi degradare l’economia di ogni paese nelle quali l’ISIS passa, far esplodere  un aereo di linea russo che lasciava Sharm el-Sheikh, attaccare il Museo del Bardo di Tunisi e le spiagge di Sousse. C’è stato un tempo – quando gli islamisti attaccarono la sinagoga ebraica sull’isola di Djerba in Tunisia nel 2002, per esempio, uccidendo 19 persone – quando il turismo ancora esisteva.  In quei giorni la polizia di sicurezza di Ben Ali era stata in grado di controllare la sicurezza interna della Tunisia; l’esercito  era stato lasciato debole, in modo che non poteva organizzare un colpo di stato. Così oggi, naturalmente, l’esercito quasi impotente della Tunisia non può difendere i suoi confini.

L’ISIS ha capito questo   fenomeno prima di noi. Ma il pensiero dell’ISIS che le frontiere sono essenzialmente indifese in questi tempi moderni  coincide con la popolare delusione del popolo arabo con le proprie nazioni inventate. La maggior parte dei milioni di rifugiati siriani e afghani che si sono riversate in Libano, Turchia e Giordania e poi verso il nord  Europa non intendono tornare – mai – negli Stati  che sono falliti – nella mente dei profughi – esiste questa idea. Questi non sono “stati falliti”, piuttosto nazioni immaginarie che non hanno più alcuno scopo.

Ho cominciato a capire questo solo quando, nel luglio scorso, affrontando la crisi economica greca, ho viaggiato al confine greco-macedone con Medici Senza Frontiere. Questo è successo molto prima che la storia dei rifugiati arabi che arrivati in  Europa avesse colto l’attenzione dell’Unione europea o dei media, anche se gli annegamenti nel Mediterraneo erano stati a lungo una tragedia regolarmente riportata sugli schermi televisivi.

Aylan Kurdi, il ragazzino trovato su una spiaggia turca, aveva solo due mesi di vita. Ma nei campi lungo il confine con la Macedonia c’erano migliaia di siriani e afgani. Venivano a centinaia attraverso i campi di grano, un esercito di   poveri calpestati che potrebbero essere stati in fuga dalla Guerra dei Cento Anni, le donne con i piedi bruciati dalle bombe esplose, gli uomini con lividi sui loro corpi per i colpi delle guardie di frontiera. Due di loro erano fratelli, venivano da Aleppo, li avevo incontrato due anni prima   in Siria. E quando hanno deciso di parlare, mi resi conto che parlavano della Siria al passato. Raccontavano di “laggiù” e “ciò che era a casa”. Non credevano  più nella Siria. Non credevano alle frontiere.

Molto più importante per l’Occidente è stata la scoperta di come sono viste le nostre frontiere. Hanno  da poco varcato le frontiere europee con la stessa indifferenza dell’attraversavano dalla Siria alla Turchia o in Libano. Noi, i creatori dei confini del Medio Oriente, abbiamo scoperto che i nostri confini nazionali storicamente creati non hanno avuto alcun significato per queste persone. Volevano andare in Germania o in Svezia e andarci a piedi, ma sono stati inviati molti poliziotti per fermarli e soffocarli con gas lacrimogeni nel vano tentativo di proteggere la sovranità nazionale delle frontiere dell’UE.

Il nostro shock – anzi, la nostra indignazione – è stata che i nostri preziosi confini non sono stati rispettati da questi eserciti in gran parte musulmani, poveri era in netto contrasto con la nostra allegra inosservanza delle frontiere arabe. Saddam è stato tra i primi a mostrare la propria riprovazione di tali linee nella sabbia. Non gli importava nulla del diritto internazionale quando invase l’Iran nel 1980 – con l’aiuto dei servizi americani – o il Kuwait nel 1990, quando ha strappato la vecchia frontiera dell’emirato per annetterla come provincia irachena. Ma l’Occidente ha ora lanciato tanti attacchi aerei attraverso i confini del Medio Oriente dal 1991, anno della liberazione del Kuwait, che difficilmente  abbiamo   bisogno di cercare precedenti ora che le forze aeree arabe attraversano regolarmente   i confini nazionali del Medio Oriente – insieme con i nostri cacciabombardieri.

A parte la nostra lugubre avventura afghana  e la nostra assolutamente illegale invasione dell’Iraq del 2003, i nostri aerei hanno bombardato Libia, Iraq e Siria insieme agli aerei di varie pseudo-democrazie locali per così tanto tempo che questo stato di cose è diventato   routine, quasi normale, poco degno di un titolo di prima pagina. I sauditi stanno bombardando l’Iraq e la Siria e lo Yemen. I giordani stanno bombardando la Siria. Gli Emirati stanno bombardando lo Yemen. E ora i francesi stanno bombardando la città siriana di Raqqa dopo averla bombardata due mesi fa – quando il presidente François Hollande non disse che la Francia era “in guerra”. Il punto, naturalmente, è che siamo cresciuti così abituati a attaccare le terre arabe – la Francia era   così abituata a inviare i suoi soldati ed equipaggi aerei verso l’Africa e il Medio Oriente per sparare e bombardare quelli che considerava come suoi nemici – che solo quando i musulmani hanno iniziato ad attaccare le nostre città capitali abbiamo improvvisamente annunciato di essere “in guerra”.

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A bulldozer cuts through a sand rampart at the Syrian border in the early Isis video (AFP)

Non ci sono stati codici rossi o aranci  nelle capitali arabe. Sono state  in uno stato permanente di codice rosso, la loro gente sottomessa con “leggi di emergenza” imposti da dittatori sostenuti dall’Occidente, una legislazione ancora più iniqua di quella che i nostri maestri politici europei ora vogliono imporci. Naturalmente, fin dalla catastrofe irachena, ci piace usare milizie locali per farle morire per noi. Così i curdi diventano nostri fanti contro ISIS, o le milizie sciite irachene o quelle iraniane o – anche se non ci piace ammetterlo – l’esercito siriano e quello libanese degli Hezbollah.

L’ISIS ha stranamente replicato questa politica raccapricciante. Tuttavia molte atrocità in Europa sono state commesse da uomini che sono stati presumibilmente “radicalizzati” in Siria, gli assassini sono stati in genere proxy locali; Musulmani britannici nel Regno Unito, musulmani francesi che erano cittadini francesi o residenti in Belgio. Il significato di ciò – è che l’ISIS intende chiaramente   provocare una guerra civile in Europa, in particolare tra la grande comunità  musulmana di origine algerina, la polizia e l’élite politica della Francia – di questo se ne è parlato sottovoce. In effetti, gran parte della copertura mediatica delle stragi di Parigi ha spesso evitato la parola  musulmano.

Quando pensiamo a un mondo senza confini in cui gli arabi pensano e si muovono senza alcun riferimento, il caso più eclatane delle nazioni del Medio Oriente è Israele. La Dichiarazione di Arthur Balfour, che ha dato il sostegno del Regno Unito per una patria ebraica in Palestina nello stesso periodo che il signor Sykes e M. Georges-Picot stavano complottando per dividere il mondo arabo, ha anticipato le nuove frontiere all’interno stessa Palestina,  frontiere che, fino ad oggi , sono in gran parte indefinite. Frontiere internazionalmente riconosciute   che vengono ignorate dal governo israeliano, uno stato che non sa  dire dove si trova il suo confine orientale. E’ lungo la frontiera della città vecchia di Gerusalemme? E’lungo il muro grottesco israeliano  che ha di fatto rubato terra  nella Cisgiordania palestinese? Il confine dello  stato di Israele comprende ogni colonia ebraica costruita su un terreno rubato ai palestinesi della Cisgiordania? Oppure corre per tutta la lunghezza del fiume Giordano, distruggendo così qualsiasi ipotesi di Stato palestinese? Quando gli israeliani chiedono  di riconoscere il diritto di Israele ad esistere, devono essere invitati a spiegare di quale  particolare Israele stanno parlando: quello giuridico riconosciuto dalle Nazioni Unite – o “Israele propriamente detto” come lo chiamiamo noi – o un Israele che comprende  tutta la West Bank, o “Israele impropria” come noi certamente non lo chiamiamo?

Il nostro sostegno a un Israele che non ci spiega quali sono i suoi confini orientali scorre logicamente parallelo al nostro rifiuto di riconoscere -a meno che non ci si adatti – le frontiere del mondo arabo. Si tratta, dopo tutto, che siamo autorizzati a disegnare “le linee nella sabbia” o “linee rosse”. Siamo noi europei che decidiamo dove le civiltà iniziano e dove finiscono. E’il primo ministro ungherese che decide esattamente dove lui porterà le sue armi per difendere la “civiltà cristiana”. Siamo noi occidentali che abbiamo la rettitudine morale per decidere se la sovranità nazionale in Medio Oriente deve essere rispettata o abusata.

Ma quando gli arabi stessi decidono di abbandonare queste situazioni  cercando il loro futuro nelle “nostre” terre piuttosto che nelle “loro” terre, questa politica si rompe. In effetti, è straordinario quanto facilmente ci si dimentica che il più grande ideatore di confini dei tempi moderni sia stato  un europeo, lo stesso chi voleva distruggere gli ebrei d’Europa, ma che avrebbe anche potuto –  per i suoi appunti razzisti sui musulmani in Mein Kampf – continuare il suo olocausto per includere gli arabi. Abbiamo anche il coraggio di chiamare gli assassini di Paris “fascislamists”, come il grande francese pseudo-filosofo Bernard-Henri Levy ha appena scritto nel comunicato. Sono Nazisti Isis indubbiamente – ma il momento in cui utilizziamo la parola “Islam”, in questo contesto, stiamo dipingendo la svastica in tutto il Medio Oriente. Levy richiede più assistenza ai “nostri alleati curdi”, perché l’alternativa è che “non stivali sul loro terreno significa più sangue sul nostro”.

Ma è quello che George W. Bush e Tony Blair ci hanno detto prima di marciare nel cimitero dell’Iraq nel 2003. Siamo sempre noi stessi che ci dichiariamo  “in guerra”. Ci è stato detto di essere spietati. Noi dobbiamo invadere “la loro” terra e fermarli affinché non possano invadere la nostra. Ma l’epoca,  di quando potevamo avere avventure all’estero pensando di essere al sicuro nella propria casa, è ormai lontana. New York, Washington, Madrid, Londra, Parigi ci confermano questo. Forse, se avessimo parlato di più di “giustizia” – tribunali, procedure legali per gli assassini, per quanto moralmente ripugnanti possano essere, le frasi, le carceri, la redenzione per coloro che possono recuperare le loro anime perdute dal letamaio ISIS – si starebbe un po’più sicuri nel nostro autoritario continente. Ci dovrebbe essere la giustizia non solo per noi stessi e i nostri nemici, ma per i popoli del Medio Oriente che hanno subito  lo scorso  secolo il teatro delle dittature e delle istituzioni di cartone che abbiamo creato per loro – e che hanno contribuito a far prosperare l’ISIS.

trad. A. Marino – Invictapalestina

Fonte: http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/isis-in-a-borderless-world-the-days-when-we-could-fight-foreign-wars-and-be-safe-at-home-may-be-long-a6741146.html

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